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L'Unione informa |
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18 settembre 2009 - 29 Elul 5769 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
Questa
sera, pochi istanti prima dell’inizio di 'Arvit e della fine dell’anno
ebraico, nella 'Amidà chiederemo a D-o: “Benedici per noi quest’anno”.
Il tempo non si misura in quantità ma in qualità. Per un ebreo anche un
solo attimo ha l’importanza di un intero anno. (Admor mi-Belz) |
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Vorrei
oggi approfittare di queste colonne per esprimere la mia più calda
solidarietà a Giorgio Israel, collaboratore di questa pagina ed
illustre studioso, per le minacce e gli insulti antisemiti di cui è
stato fatto oggetto. Si potrebbero dire molte cose sul dilagare
dell'antisemitismo in rete, sul tipo di linguaggio e di immagine del
mondo veicolato da questi messaggi. Ma tutto è stato già detto più e
più volte. Forse allora il mondo ebraico può semplicemente chiedere che
si rispettino le leggi sulla propaganda razzista e antisemita, che si
trovino i colpevoli, che li si sottoponga a processo e li si condanni a
reali pene detentive. La stupidità non è un'attenuante legale. In
questi stessi giorni, un professore negazionista, e quindi antisemita,
viene reintegrato a Roma nel suo posto al liceo artistico di via
Ripetta, pronto ad insegnare ai suoi studenti che la Shoah è
un'invenzione degli ebrei. Forse è ora che cominciamo a prendere più
sul serio fatti come questi.Shanà Tovà a tutti voi. |
Anna Foa,
storica |
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Qui Roma - Un anno per la libertà e per la pace
L'ebraismo
considera l'idolatria il più grave dei mali e l'insidia più pericolosa
per l'umanità. Nella speranza di riuscire ad allontanare alcune
tendenze che con l'idolatria sono strettamente legate (narcisismo,
protagonismo, fanatismo, dogmatismo, fondamentalismo, intolleranza,
razzismo, violenza) auguro a tutti un 5770 di libertà e di pace.
Renzo Gattegna, Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Qui Roma - Un anno per investire nel futuro
I
messaggi e gli auguri sono belli, anche se rituali. Ma in un modo non
tanto rituale provo a trasformare in un augurio e una preghiera quello
che veramente credo serva a noi come ebrei italiani. Che sia un
anno
in cui si creda e si investa nel futuro pensando al passato. In cui si
formino tante nuove famiglie ebraiche. In cui se ne sfascino di meno.
In cui si facciano tanti altri figli. In cui si studi Torà. In cui si
diffonda la convinzione che l'osservanza delle mitzwot, dal Sabato alla
solidarietà sociale, è la base della nostra esistenza e non un curioso
fenomeno culturale sostituibile con qualsiasi altra cosa.
Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
Qui Londra - Un anno per i nostri figli
C’è
un aspetto delle nostre preghiere di Rosh haShanà che è inaspettato
quanto profondo. Il primo di Tishrì è l’anniversario della creazione.
Hayom harat olam: “Oggi è nato l’Universo”. Logicamente, allora, il
brano della Torah scelto per la lettura del giorno dovrebbe essere il
primo capitolo di Bereishit: “In principio Dio creò”. L’Haftarah
potrebbe essere Isaiah 45 con la sua dichiarazione: “Sono stato io a
creare la terra e l’umanità su di essa”. Ma, nei fatti, non è così. Il
primo giorno leggiamo della nascita di Isacco e per l’Haftarah
recitiamo il passaggio sulla preghiera di Anna per un bambino. Il
secondo giorno, leggiamo del sacrificio e della salvezza di Isacco e,
nell’Haftarah, Geremia 31, dove il profeta parla di Rachele “che piange
per i suoi figli”. Nessuno di questi brani si riferisce alla
creazione. Tutti e quattro riguardano genitori e figli. L’argomento
delle letture del primo giorno è la nascita di un bambino. Perché? Una
famosa Mishnah in Sanhedrin ci dice che “una vita è come un universo”.
Salvare una vita equivale a salvare un universo. Così la nascita di un
bambino è come la nascita dell’universo. Quando gli ebrei pensano al
miracolo della creazione, noi pensiamo ai bambini. E questa è vera
intuizione dello spirito. Alla fine del suo libro Dal Big Bang ai
Buchi Neri. La Breve Storia del Tempo, Stephen Hawking scrive che se
potessimo scoprire la Unified Field Theory che a sua volta spiega la
struttura dell’Universo, arriveremmo a conoscere la “mente di Dio”. Da
una prospettiva ebraica, non c’è bisogno della fisica teoretica per
avvicinarsi il più possibile alla mente di Dio. Tutto quello di cui
abbiamo bisogno è capire cosa vuol dire essere un genitore. Dio è il
nostro genitore; noi siamo i suoi figli. Questo è tutto quello che
sappiamo e che ci serve sapere dello splendore e del pathos della
condizione umana sotto la sovranità di Dio. L’Ebraismo è, fra le grandi
fedi, la più ‘bambinocentrica’. Abramo fu scelto come padre del
monoteismo perché così “avrebbe insegnato ai suoi figli e alle
generazioni dopo di lui, a continuare sulla via del Signore”. La
nostra preghiera più sacra, lo Shemà, dice di “insegnare diligentemente
queste cose ai tuoi figli”. Quando Dio diede la Torah ad Israele, la
diede a loro, dicono i Saggi, non per merito dei loro antenati ma dei
loro figli. I bambini sono le vittime del nostro tempo. Nella Gran
Bretagna di oggi, quasi uno su due nasce da genitori non sposati; il 26
per cento vive in una famiglia monoparentale. C'è il più alto tasso di
gravidanze in età adolescenziale d’Europa. Un rapporto Unicef del 2007
dichiarava i bambini del Regno Unito i più infelici del mondo
occidentale: bevono e fumano di più, si drogano di più, fanno sesso in
età prematura, tendono ad andare male a scuola, con molta più
probabilità vivranno episodi di violenza e soffriranno relazioni
infelici dentro e fuori casa. Questa è una tragedia che si
diffonde. Il messaggio di Rosh haShanà è che una civiltà si giudica da
come tratta i figli. A un certo punto, la società laica ha perso di
vista questa verità. C’è un vecchio proverbio africano che dice: “Ci
vuole un villaggio per crescere un bambino”. Proprio così: ci vuole una
cultura per valorizzare la famiglia, ci vuole un codice morale per
rafforzare il matrimonio. L’ebraismo è sopravvissuto perché non ha mai
perso di vista l’amore per i figli, e non ha mai dimenticato cosa vuole dire,
costruendo case, scuole e comunità per trasmettere i nostri valori
attraverso le generazioni. In nessun luogo tutto questo è più evidente
che nella storia del sacrificio di Isacco. Qui Dio ci dice per sempre:
“Non voglio che tu sacrifichi i tuoi figli. Prenditi cura di loro.
Amali. Insegna loro. Considerali la tua gioia più grande”. Così
l’ebraismo, la più antica religione occidentale, è rimasto giovane per
4000 anni mentre le altre civiltà sono scomparse. Mettiamo i bambini
prima di tutto. Questo è il messaggio di Rosh haShanà. Ne abbiamo
bisogno adesso.
Rav Jonathan Sacks, rabbino capo del Commonwealth (versione italiana a cura di Rocco Giansante)
Qui
Livorno - Un anno per la responsabilità collettiva
Hag
Sameach, Shanà Tovà. Quest’anno il primo giorno di Rosh haShanà
cade di sabato, e di sabato non possiamo suonare lo shofar. Resta
però l’obbligo di ricordare lo shofar nel nostro cuore. Qual è
dunque il significato dello shofar? Ci sono molte spiegazioni, ma
l’opinione accettata da tutti i maestri è che lo shofar debba
risvegliare con il suo suono le coscienze e ricordare il “sacrificio”
di Isacco. Si chiedono i maestri se per ricordare il sacrificio di
Isacco non fosse meglio qualche simbolo più diretto – il coltello,
o ancora la corda della legatura – mentre lo shofar è soltanto una
piccola parte dell’animale che ha preso il posto di Isacco nel
sacrificio. Se ne deduce che, più del “sacrificio” di Isacco,
noi vogliamo ricordare che Kadosh baruch hu non vuole sacrifici umani
e per questo ha cambiato l’uomo con l’animale. Lo shofar, il
corno dell’ariete, ci impartisce questo insegnamento, perché è
scritto che “il signore non desidera la morte del peccatore ma che
cessi il peccato”, e nel yom hadin abbiamo l’occasione di
cambiare il nostro destino. Noi sappiamo che D. giudica ogni comunità
secondo le azioni della maggioranza. Per questo dobbiamo essere uniti
in questo giorno e perdonare l’uno all’altro. Un’antica
tradizione di Gerusalemme vuole che tutti dicano a se stessi: “Machul
– perdoniamo!” Anche noi diremo insieme: “perdoniamo”, ognuno
al suo prossimo. Ma non possiamo contare solo sui giusti che sono in
mezzo a noi, perché ognuno viene anche giudicato per il proprio
comportamento, pertanto ognuno deve aiutare il gruppo comportandosi
da giusto. Il Midrash racconta un episodio: ogni persona della
comunità doveva portare un secchio di latte per riempire una
cisterna durante la notte. Una persona decise: “Io porterò un
secchio d’acqua, tanto nessuno se ne accorgerà perché si
annullerà nel latte”. Al mattino, aprendo la cisterna, ci si
accorse che era piena solo d’acqua perché tutti avevano pensato la
stessa cosa. Ecco cosa intendiamo per responsabilità collettiva e al
tempo stesso individuale. Preghiamo perché Kadosh baruch hu ci
iscriva nel libro della vita, della salute e della pace. Amèn.
Rav
Yair Didi, rabbino capo di Livorno
Qui Livorno - Un anno per la salvezza spirituale L’anno
che sta per iniziare – 5770 – viene espresso in ebraico con le lettere
He Tav Shin ’Ain, che possono anche leggersi Teshu’a, “salvezza” oppure
Tish’e, “ascolterai (con gradimento)”. Così noi preghiamo il Signore
che ascolti con gradimento le nostre preghiere e accordi a noi la
salvezza spirituale e la sicurezza a tutto il popolo d’Israele ovunque
sia. È questo un augurio che sgorga dal cuore e spero che nei “Giorni
terribili” della penitenza ciascuno preghi con umiltà e sincerità
affinché l’anno nuovo porti pace e tranquillità ad Israele e nel mondo.
Chatimà Tovà e Mo’adim Le-Simchà.
Samuel Zarrugh, Presidente della Comunità Ebraica di Livorno
Qui
Genova - Un anno per superare le sfide
Mi
è stato chiesto di esprimere un breve pensiero in occasione della
prossimo Rosh Hashanà da indirizzare all'ebraismo italiano: non può
che essere naturalmente di fervido augurio. Augurio di saper
affrontare con efficacia e capacità le difficili sfide che attendono
noi, le nostre famiglie e le nostre istituzioni. Augurio anche di
operare con concordia e perseguire quello spirito di squadra, che
troppo spesso è limitato se non assente all'interno delle nostre
strutture. Infine un auspicio di maggiore aiuto e supporto da parte
di tutti, verso chi di noi ha il non facile compito di guidarci.
Maurizio Ortona, Presidente della Comunità Ebraica di
Genova Qui Verona - Un anno per rimuovere gli ostacoli
Siano
prossimi a Rosh haShanà, il Giorno del Giudizio (Yom Ha-Din) e come
potremo riuscire ad essere riconosciuti innocenti? Nei Giorni Severi,
nei quali vengono assolti i nostri peccati, vi dovrebbe essere una
specifica gioia per la "rimozione delle barriere". L'individuo toglie
steccato dopo steccato, procede e si avvicina a D-o. La gioia è anche
un mezzo per avere la meglio nel giudizio, poiché è molto complesso
rimediare a tutte le trasgressioni commesse durante l'anno. Se
facessimo un resoconto veritiero di tutte le nostre colpe, non avremmo
neanche la forza di pregare per depressione psichica. Ma l'unica via da
percorrere è quella di mostrare al S. che noi siamo felici di essere
suoi chaverim e di essere pronti a togliere tutti gli ostacoli che ci
separano da Lui. Se fino al Yom Kippur non riusciremo ad abbattere
tali barriere, già la nostra buona volontà e disponibilità ci faranno
meritare nel giudizio il favore d-vino. Shanà tovà umtukà
Rav Crescenzo Piattelli, rabbino capo di Verona
Qui Ferrara - Un anno per la concordia
Invio
un duplice augurio per il 5770: uno agli ebrei italiani perché trovino
sempre più la concordia nei loro rapporti e uno alla Comunità Ebraica
di Ferrara perché possa acquisire nuove famiglie e ritornare ad essere
un prestigioso centro ebraico ricco di vita e di cultura.
Michele Sacerdoti, Presidente della Comunità ebraica di Ferrara |
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Fumetto - I punti di vista di David Polonsky
David Polonsky è famoso per il suo eccellente lavoro nel film Valzer con Bashir,
di cui ha anche adattato i materiali grafici per realizzare un graphic
novel e di cui abbiamo parlato alcuni mesi fa. Oltre alla produzione
legata al mondo dell'animazione, Polonsky ha realizzato diverse opere
grafiche di particolare interesse. Un di questa è stata proposta sull'ultimo numero del mensile Focus. Il
lavoro ha il nome di Strobe, un progetto molto interessante sui “punti
di vista”, pubblicato sull'antologia Dead Herring Comics in
collaborazione con il gruppo Actus Comics. Si tratta di due tavole ambientate in un incrocio della città di Tel Aviv. La
prima tavola mostra cosa stanno guardando le persone: la vetrina di un
negozio, le scarpe del figlio, una bella ragazza per strada, se stessi
in uno specchio, un' insegna, la propria compagna distratto in un
intenso bacio... e così via. La sensazione che offre questa tavola è di
un mondo che gira su mille punti diversi, mille punti di vista, la
centralità del singolo rispetto alla massa. La stessa sensazione
è possibile averla se si entra nella sala centrale di una stazione,
vedrete le persone agire singolarmente con azioni diverse ed emotività
diverse, espressioni delle singolarità. Ma
Polonsky è andato oltre. Quelle stesse singolarità tra 15 secondi cosa
staranno guardando? Le vetrine di un negozio, l'altra scarpa del
figlio, il cruscotto dello scooter, la stessa bella ragazza per strada
ammirata da qualcun'altro, se stessi in uno specchio ma di profilo,
un'altra insegna... e così via. Prospettive diverse, punti di
vista diversi, ogni uomo e donna in quell'incrocio sono concentrati su
sé stessi e sulla loro vita. Uno dei pregi del lavoro di
Polonsky è di dare un'occasione a tutti i personaggi della tavola,
nessuno è protagonista, nessuno è al centro del meccanismo. Ed è questo
il punto, non c'è una ruota narrativa che gira, ma tante quante sono le
persone su quelle tavole. Va detto che Focus esagera nel
definire quest'opera un graphic novel ed è ampiamente impreciso sulle
sue origini, che attribuirebbe oltre che a Will Eisner anche a Hugo
Pratt, mentre la letteratura in materia ha ampiamente dimostrato che è
stato l'autore statunitense di origini ebraiche l'inventore di questo
forma di romanzo. Proprio perché il graphic novel non è altro
che un romanzo a fumetti, la doppia tavola di Polonsky pur essendo
affascinante, interessante, stimolante, non è un graphic novel.
Andrea Grilli |
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Nel
giorno che segna per il lunario ebraico la fine di un anno e il
passaggio a quello nuovo, il 5770, per il quale facciamo a tutti i
nostri oramai abituali lettori i più sinceri e calorosi auguri, le
cronache ci rimandano, spietatamente, a quello che è oramai divenuto un
teatro di guerra anche per le truppe italiane. È delle ore scorse la
tragica notizia dell’uccisione di sei militari, insieme ad alcuni
civili, in un vile attentato in Afghanistan. Tutti i giornali ne
parlano, soffermandosi ampiamente sui particolari della triste vicenda.
A titolo riassuntivo rimandiamo alla lettura del pezzo molto informato
di Cristina Balotelli per il Sole 24 Ore.
L’aggressione, portata a temine con centocinquanta chilogrammi di
tritolo e l’oramai abituale autobomba, è avvenuta nella capitale. La
città di Kabul, secondo l’opinione di molti, avrebbe dovuto garantire
una maggiore sicurezza rispetto ad altri luoghi del paese, dove pure
siamo presenti come «contingente di pace». La virgolettatura è
d’obbligo, in questo caso, poiché sussiste una netta sfasatura tra il
dettato della Costituzione, che all’articolo 11 impedisce il
coinvolgimento del nostro esercito in iniziative belliche che non
abbiano carattere puramente difensivo e la realtà di una nazione dove è
in corso una guerra spietata, che chiama in causa, coinvolgendoli
direttamente, tutti i reparti degli eserciti di quei paesi che
partecipano all’azione di peace keeping e peace enforcing patrocinata
dalla Nato. Ci sono più livelli di considerazione da fare nel merito di
quel che è avvenuto, al di là della condanna, in sé necessaria ma non
sufficiente, del vile gesto. Negli articoli, così come negli
editoriali, della stampa di oggi troverete le diverse posizioni che si
alternano rispetto ad un problema – rimanere o andarsene – che
coinvolge gli spiriti e le menti di molti. Così, ad esempio, quanto
afferma Piero Fassino su Europa
quando si pronuncia a favore del proseguimento della missione.
L’attentato, per inciso, non stupisce oltre misura. L’intelligence
italiana aveva già da tempo messo sul chi vive il nostro contingente
che, nei limiti del suo mandato, degli strumenti a disposizione e delle
compatibilità dettate da un teatro di combattimento estremamente
difficile, aveva assunto le opportune contromisure. Non sono bastate,
evidentemente, anche perché troppo spesso si dimentica che nei
confronti dell’agire terroristico, che per sua natura occulta sempre le
intenzioni, celandosi dietro i civili (che sono essi stessi obiettivo
delle sue offese), non basta la semplice contrapposizione armata. Il
confronto, evidentemente, richiede ancora una volta il ricorso ad una
strategia complessiva diversa da quella adottata fino ad oggi, non
diversamente da come gli americani sembrerebbero volere fare nei
rapporti con la Russia, almeno a giudicare da quanto ci racconta Mario
Platero per il Sole 24 Ore e dal commento di Daniele Castellani per Europa.
La scelta di Barack Obama di abbandonare il progetto di scudo
antimissilistico va nel senso di una revisione generale della dottrina
interventista, sostenuta invece dal suo predecessore George Bush,
riconfigurando caratteri e contenuti della diplomazia americana. Il
carattere d’urgenza dell’obiettivo di una ridefinizione dell’impegno
militare è ancora più marcato nel caso dell’Afghanistan, dove da tempo
molti analisti vanno denunciando il pericolo che la lotta contro i
talebani, che dura oramai da più di otto anni, si risolva in un
rovescio. L’aggressione ai paracadusti italiani avviene peraltro in un
frangente nel quale Hamid Karzai, controverso leader afgano, si è
attribuito la vittoria elettorale alle presidenziali, sia pure di
misura. Dopo settimane di sfiancanti tira e molla nel conteggio dei
voti, con il continuo ripetersi di denunce nel merito di brogli
macroscopici che si sarebbero ripetutamente consumati, quello che un
tempo era il «candidato americano», e che oggi è visto
dall’Amministrazione statunitense come parte del problema, si è
autonominato leader di un paese profondamente spaccato al suo interno,
dove il conflitto ha anche i caratteri di guerra civile e dove le
truppe straniere si domandano quale sia il vero obiettivo che si
intende (ancora) raggiungere e garantire. Le faglie di rottura sono
senz’altro etniche e claniche ma demandano soprattutto alla permanente
intromissione, in sé destabilizzante, negli affari interni di vicini
nel medesimo tempo fragili e potenti come il Pakistan e l’Iran. Di
quest’ultimo, tra l’altro, ci parla Farian Sabahi, sempre su il Sole 24 Ore,
con un’allarmante intervista ad una esponente del milieu riformista
iraniano. Insomma, il viluppo e il groviglio sono tali da rischiare di
strozzare quanti – come i nostri militari – si trovano in quei luoghi
per garantire quanto meno una parvenza di ordine, legalità e
legittimità. Veniamo ai fatti di casa nostra aprendo una piccola
finestra per il tramite di Paolo Rumiz su la Repubblica.
Sempre alla morte ci ha infatti rimandati, in questi giorni, la tragica
notizia dell’assassinio, in una famiglia di immigrati marocchini, della
figlia il cui comportamento era considerato, dal padre, come immorale.
L’uccisione si è consumata nel nome di una idea di «onore» che demanda
a codici tribali, evidentemente ben incorporati nell’identità del
genitore assassino. Più che alla onnipresenza della religione islamica,
il cui testo sacro, il Corano, non contempla in alcun modo rimandi alla
legittimità di tali forme di “risarcimento della moralità perduta”, si
deve forse fare riferimento alla perduranza e coesistenza, non
residuale, nelle nostre società, di forme barbariche di relazione
infrafamiliari. L’immigrazione di massa non fa altro che enfatizzare lo
scambio diseguale tra chi, ragionevolmente, si richiama alla
inderogabilità dei diritti della persona, intesa nella sua assoluta,
irripetibile soggettività e quanti, invece, ritengono che il gruppo,
tanto più se parentale, abbia la facoltà di prevalere, sempre e
comunque, anche a costo di eliminare il singolo quando esso costituisce
un “problema”. Ripetiamo il concetto dicendo che questa vocazione
all’abisso non costituisce una scoria del passato ma un un coltello
conficcato nel nostro presente, che non può essere tanto facilmente – e
pretestuosamente – sublimato. Il padre ha laconicamente motivato l’atto
ferale dicendo che “doveva” compierlo poiché le circostanze glielo
imponevano. La madre, una donna di trentanove anni il cui volto antico
e un corpo già sfatto la fanno assomigliare semmai ad una sessantenne,
ha prontamente “giustificato” il gesto, nella sua empietà, anch’ella
riparandosi autisticamente dietro la coperta della cosiddetta
tradizione e incolpando la vittima di quanto accaduto. Al di là
dell’evento di cronaca nera rimane il fatto che nel buio e nel silenzio
di molte famiglie si consumano prevaricazioni molto spesso al limite
del codice penale, se non peggio. La presenza oramai stabile di più di
un paio di milioni di lavoratori stranieri, e delle loro famiglie, ci
interroga su quali siano i percorsi non solo dell’integrazione ma anche
e soprattutto dell’emancipazione dei singoli da legami la cui natura
assume spesso i tratti della violenza luttuosa. Cambiamo tema e
angolo visuale rimandando alla lettura degli articoli che annunciano la
prossima visita di Benedetto XVI alla Sinagoga maggiore di Roma, così
come gli auguri rivolti dal pontefice alle Comunità, in occasione delle
feste ebraiche, lasciano chiaramente intendere. Ne parlano, tra gli
altri, Luigi Accattoli per Liberal, Franca Giansoldati per il Messaggero mentre il testo del messaggio, indirizzato in prima personale a rav Riccardo Di Segni, è riportato dall’Osservatore romano.
Il lieto evento - come altrimenti definirlo? – si consumerà alla fine
del periodo delle festività ebraiche, quindi nella seconda metà di
ottobre o, più probabilmente, vista l’agenda di Joseph Ratzinger, a
novembre. Si tratta di un gesto importante, che segue quello eclatante
del suo predecessore, Giovanni Paolo II, quando nell’aprile del 1986 si
recò al Tempio, rompendo con la secolare tradizione di calcolata
estraneità (nonché di prevaricazione) e inaugurando un periodo di
fertili e vivaci scambi, all’insegna di un ecumenismo del rispetto.
Chiudiamo nel segno della letteratura, consigliando la recensione che
Giorgio Montefoschi, su il Corriere della Sera,
dedica alla ristampa dei racconti di Shmuel Agnon, premio Nobel per la
letteratura nel 1966. Vedremo cosa ci riserverà il nuovo anno, in
questo come in altri ambiti. Per il momento sia ancora di auspicio per
tutti, ebrei e non, credenti o non credenti, laici e quant’altri,
l’augurio di un felice anno nuovo. Shanà Tovà u'Metukà. Claudio Vercelli |
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notizieflash |
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Europa League: partenza col botto per l’Hapoel Tel Aviv Semplicemente
eroici. A riscattare la netta sconfitta subita dal Maccabi Haifa in
Champions League, ci hanno pensato i “rossi” (dal colore della maglia)
dell’Hapoel Tel Aviv, che nel primo incontro del girone eliminatorio
dell’Europa League (la vecchia Coppa Uefa) hanno sconfitto gli scozzesi
del Celtic Glasgow. Un incontro che, almeno sulla carta, pareva
proibitivo, visto il superiore tasso tecnico degli avversari.
Pronostico della vigilia ribaltato grazie ad una partita nella quale
gli israeliani hanno mostrato di essere molto bravi a sacrificarsi e a
lottare con continuità per tutti i novanta minuti. D’altronde Hapoel in
ebraico vuol dire “lavoratore” ed era dunque lecito aspettarsi un certo
impegno. Una vittoria ottenuta col cuore, dopo che il primo tempo si
era concluso con gli scozzesi in vantaggio di un goal grazie alla rete
del greco Samaras. Sembrava mettersi male per gli israeliani, visto che
il Celtic dei primi quarantacinque minuti di gioco pareva in grado di
controllare il match. Invece, nel secondo tempo, la svolta. L’Hapoel ha
preso coraggio e gli ospiti sono andati in bambola, soprattutto i
terzini e gli esterni di centrocampo, che hanno concesso molti spazi
alle veloci ali israeliane, pronte ad approfittare della situazione per
mettere invitanti palloni nell’area di rigore avversaria. Momento
chiave del match il trentesimo minuto della ripresa, quando il serbo
Nemanja Vucicevic è stato abile a farsi trovare pronto sull’incerta
ribattuta del portiere scozzese e ad insaccare. Uno a uno, palla al
centro del campo e pubblico in delirio. Spinto dalla torcida rossa del
Bloomfield Stadium di Yafo, l’Hapoel ha preso ancora più convinzione
dei propri mezzi, ed è arrivato a ribaltare il risultato a due minuti
dal termine, grazie ad una spaccata sotto porta di Maharan Lala,
imbeccato da un perfetto passaggio di Gil Vermouth (che non è il nome
di un cocktail ma quello di un centrocampista israeliano). Due a uno e
inaspettata leadership del girone, insieme agli austriaci del Rapid
Vienna. “Abbiamo giocato un ottimo secondo tempo e credo che abbiamo
sostanzialmente meritato di vincere”, ha commentato a fine partita Eli
Gotman, allenatore dell’Hapoel, che sogna di fare il bis tra due
settimane in casa dell’Amburgo. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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