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    27 settembre 2009 - 9 Tishrì 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Benedetto Carucci Viterbi Benedetto Carucci Viterbi,
rabbino 

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Nel giorno in cui simbolicamente ciascuno fa i conti con i propri deliri di onnipotenza e riconosce i propri limiti, non mi sembra improprio riflettere, sull’uso pubblico della parola “nostalgia”, una parola che molti di noi pronunciano con fastidio accompagnandola con un carico emotivo di disprezzo. Quando i cantori del successo affermano che il futuro è con loro - con ciò ritenendo che chiunque proponga delle domande o esprima altre ipotesi testimoni solo del carattere residuale di un passato che è bene finisca nella pattumiera della storia, oppure sia solo un “disturbatore del manovratore” - dicono che il potere ha le sue regole invariate, a prescindere da chi lo incarni. Il fatto che si sia prodotta l’erosione di precedenti sistemi di potere se rappresenta una innovazione non significa che siano mutate le cose. La sostituzione non è un cambiamento. In questo non c’è differenza, né estraneità al carattere nazionale. E per quanti cambiamenti, successioni e rivolgimenti si producano, la scena complessiva descrive una differenza che non fa la differenza. Né con prima, né con il contesto. Una prova di riuscita e soddisfatta assimilazione. David
Bidussa,

storico sociale delle idee
David Bidussa  
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  Rabello Kippur - La Teshuvà di Josef Mishita

Leggiamo nel Midrash Bereshit Rabbà (65:22) che i Romani volevano trovare un ebreo che prendesse per loro alcuni degli oggetti del Bet Hamikdash; non fu facile trovare un ebreo di un livello spirituale così basso e meschino da tradire a tal punto la sua tradizione, ma alla fine un certo Josef Mishita fu disposto ad entrare, avendo ricevuto la promessa che avrebbe potuto scegliere per se stesso l'oggetto che più gli piaceva; entrò Josef Mishita nel Santuario (Beth Hamikdash), entrò nel luogo più santo, il kodesh hakodashim ove solo il Sommo sacerdote poteva entrare una sola volta all'anno, in perfetta purità, nel giorno di Kippur e prese per se stesso la Menorà, ma i Romani, una volta uscito dal Santuario, rifiutarono di lasciargliela, promettendo invece di preporlo per alcuni mesi alla dogana, con la possibilità di un gran guadagno, se fosse entrato nuovamente nel Santuario per prendere altri oggetti, ma questa volta, inaspettatamente Josef Mishita si rifiutò, e rimase nel suo rifiuto gridando: "Non basta che ho causato dispiacere al mio D-o?".
I Romani non sopportarono il suo rifiuto e alla fine lo condannarono a morte con terribili supplizi, sopportati eroicamente da Josef, che gridava: "Guai a me, che ho causato dispiacere al mio D-o".
Josef Mishita è diventato nella Tradizione ebraica un fulgido esempio di un rashà, di un malvagio sceso al più basso livello spirituale, che ha saputo redimersi e fare teshuvà completa, con un capovolgimento della sua situazione, raggiungendo un altissimo livello spirituale. È questo quel cambiamento radicale di cui ci insegna il Rambam nelle sue Hilchot Teshuvà (7:6): "La Teshuvà avvicina i lontani: ieri sera era odioso davanti a D-o, in una situazione di impurità e lontananza, e oggi è amato, delizioso, vicino e amico"; è questa quella Teshuvà definita dal rav Kook nel suo "Orot Hateshuvà" (cap. 2) come "cambiamento completo in bene", "Teshuvà improvvisa" (a differenza della "Teshuvà graduale", con una salita continua, giorno per giorno).
Ci chiediamo: cosa ha provocato questo improvviso cambiamento nell'animo di Josef? La risposta la possiamo forse trovare nell'esaminare cosa è cambiato fra la prima posizione di Josef e la seconda, dopo il pentimento: ebbene l'unica cosa che vi è stata fu l'entrata nel Bet Hamikdash, nel Kodesh Hakodashim, sia pure in posizione di peccato. L'influenza spirituale del Santuario può essere stata talmente elevata dal non lasciare indifferente anche il nostro Josef, che ha ritrovato finalmente il suo animo di ebreo, che piangeva per aver causato dispiacere a D-o, che pur di riscattarsi è stato pronto a sopportare atroci dolori, ritrovando la serenità d'animo del penitente sincero che torna completamente da suo Padre.
In una delle tefillot dei giorni penitenziali noi chiediamo: "Nostro Padre, nostro re, o fa che ritorniamo a Te in pieno pentimento". Possiamo forse comprendere meglio il senso profondo di questa richiesta, paragonandola con un'altra richiesta della stessa preghiera: "Nostro Padre, nostro re, Padre nostro, invia una guarigione perfetta ai malati del Tuo popolo": qui comprendiamo perfettamente che se siamo liberati da un dolore ma rimane un altro dolore, il nostro miglioramento sarà assai relativo: per questo chiediamo una guarigione completa. La stessa cosa anche per quanto riguarda le malattie dell'anima, fino ad arrivare a quella benefica malattia in cui riusciamo ad avvertire che "la mia anima è malata di amore per Te"…(dalla tefillà Iedid nefesh).
In questi giorni noi proclamiamo D-o "Re di tutta la terra": il senso profondo della nostra preghiera è che domandiamo che D-o ci aiuti affinché i nostri cuori accettino il Suo regno su tutto quello che è materiale, terreno…(Admor di Slonim) per poterLo amare con tutto il nostro cuore.

Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme



BahboutKippur - Preghiera e maldicenza

Grande protagonista del giorno di Kippur è la parola. Mentre la mente e lo spirito sono impegnati nel fare un esame di coscienza, analizzando i comportamenti dell’ultimo anno, la bocca - il tramite attraverso cui passano le parole - è impegnata nel recitare le preghiere e il viddui (la confessione delle colpe commesse). In ebraico bocca si dice Pe, una delle lettere dell’alfabeto ebraico che ha due forme: una chiusa פ e una aperta ף (che si usa in fine di parola), forse per indicare che ci sono momenti in cui la bocca deve essere tenuta chiusa e altri in cui invece bisogna aprirla: c’è un tempo per parlare, c’è un tempo per tacere.
Da molto tempo siamo sommersi dalle indiscrezioni, dalla maldicenza, dal turpiloquio, dalle fughe di notizie dai processi in corso, dall’uso improprio della parola, che invece è stata data all’uomo per ben altri scopi. Kippur è un’occasione quasi unica per fare i conti con le proprie parole: le nostre preghiere non possono riscattare l’uso così dicotomico che si fa della parola. La purezza che deve essere intrinseca alla preghiera, mal si accompagna con la maldicenza.
Con l’augurio che ognuno possa trasformare la sua lingua in lashon ha-kodesh, una lingua che parla solo di cose sacre.

Scialom Bahbout, rabbino
 
 
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  Kippur è anche la memoria di coloro che non ci sono più,
Paul Celan ha tradotto tutto questo in una poesia

Di CesareYizkor è la parola con cui, a Yom Kippur, inizia il servizio dedicato alla memoria di coloro che sono scomparsi. È un intenso raccoglimento in cui si richiama la presenza di coloro che ci sono mancati. Yizkor vuol dire in ebraico “Che ricordi”, cioè “Che D-o si ricordi dell’anima di”. Nelle sinagoghe tedesche, in quelle costruite negli ultimi decenni, come nelle poche sopravvissute alla “notte dei cristalli”, il risuonare di Yizkor scandisce un momento insieme terribile e altissimo. Come se a questa parola venga affidato l’avvenire di un ricordo.
Non è un caso che con Yizkor culmini una delle più belle poesie di Paul Celan, scritta nel settembre del 1960, poco prima di ricevere in Germania il Büchner-Preis, uno dei premi letterari più prestigiosi, con cui sarebbe stato riconosciuto il più grande poeta di lingua tedesca del secondo Novecento.

La chiusa (Die Schleuse)

Al di sopra di tutto
questo tuo lutto:
nessun secondo cielo.
(...)

Per una bocca,
cui eri prezioso,
perdetti -
perdetti un nome
che m’era rimasto:
sorella.

Per i tanti
falsi dèi
perdetti una parola che mi cercava:
Kaddish.

La chiusa
Dovetti forzare,
per riportare fuori ed oltre,
per salvare attraverso
il flutto salato la parola:
Yizkor.


Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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