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L'Unione informa
 
    29 settembre 2009 - 11 Tishri 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto della rocca Roberto
Della Rocca,

rabbino 
Questa mattina il nostro collaboratore Odoardo Sadun e sua moglie Debora Coen hanno compiuto la mitzwa di far circoncidere il loro primo figlio al quale hanno messo il nome di Beniamin. La Tradizione ebraica suggerisce di attendere la circoncisione per dare il nome a un individuo. E' come se l'acquisizione di un'identità, di cui il nome costituisce il primo segno, iniziasse dal  momento in cui si entra nel mondo delle mitzwot. Un affettuoso mazal tov a Beniamin e ai suoi genitori.
Il senso comune è il peggior nemico del buon senso.
.
Vittorio Dan Segre,
pensionato
vittorio dan segre  
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  di segniKippur 5770 - Nell'ora di Ne'ilà

Negli Stati Uniti in questi giorni, come da noi, le Sinagoghe si affollano. Ma a differenza da noi, che facciamo entrare tutti, da quelle parti i posti nelle Sinagoghe sono numerati e entra solo chi ha pagato il biglietto, spesso molto caro. Su questa abitudine circolano anche versioni ironiche su internet: scegli vicino a chi vuoi stare, il tuo avvocato, il tuo commercialista, il tuo medico (nelle varie specialità), il tuo consulente estetico e così via . E' inevitabile che l'incontro e la lunghezza delle cerimonie, in parte non comprese, si trasformi in un'occasione di distrazione o per pensare ai propri affari. La confusione e la distrazione altrove abbastanza controllata, da noi rischia spesso di diventare incontrollabile. Siamo arrivati alle due ore che ci separano dalla fine del Kippùr e al massimo dell'affollamento. C'è chi viene per pregare intensamente e sta qui ininterrottamente dalle prime ore del mattino, chi viene per la berakhà e la shofar e chi viene e basta perchè attratto da un richiamo lontano. E sono tutti benevenuti. I Maestri insegnano che berov 'am hadrat melekh, “la gloria del re è nella moltitudine del popolo”, cioè quante più persone sono presenti tanto maggiore è l'onore del re.  Quello che vale per un “re di carne e sangue” vale anche per il nostro Re, “il Re sacro” di cui proprio in questi giorni proclamiamo il dominio sull'Universo e su di noi. Ma quando c'è la folla c'è anche la confusione. Entro certi limiti può essere persino bello, ma non bisogna esagerare. Proviamo a pensare che questi sono momenti sacri, di elevazione spirituale, l'ora della נעילת השערים  “la chiusura delle porte” del cielo e del Santuario, è come se fosse l'ora in cui i giudici si chiudono in camera di consiglio per giudicarci.
Rispettiamo allora con il silenzio il luogo dove stiamo e il nostro vicino che vuole seguire la Tefillà. Un nostro problema, in ogni momento della nostra esistenza è quello di resistere con dignità alle provocazioni e alle sollecitazioni che ci vengono da ogni parte. Controllare le nostre reazioni, comportarsi con dignità e dare l'esempio è un dovere per ogni essere umano e per ogni ebreo, senza distinzioni. Se non ci riusciamo è perchè la nostra natura è debole, ma questo non vuol dire che non possa migliorare. Ed è proprio questo il senso della teshuvà, da fare in questi giorni e magari proprio qui e ora. Un piccolo esercizio di autocontrollo nel silenzio, qui, sarebbe già un ottimo inizio.
Che cosa significa proclamare con la folla D. Re? Non lo è già? Ha bisogno di noi? Dobbiamo renderci conto che in questa proclamazione si nascondono  alcuni messaggi fondamentali e rivoluzionari che l'ebraismo ha portato al mondo. Se Lui è il Re, non ci sono altri Re oltre a Lui. Se Lui è il Re, noi siamo i suoi sudditi, i suoi servi. Se siamo i suoi servi non siamo i servi di nessun altro. Siamo liberi. Se Lui è il Re, in quanto creatore dell'Universo e dell'umanità, gli esseri umani sono creati a Sua immagine. E questo significa che ogni essere umano ha la sua dignità e che la sua vita è sacra. Libertà e sacralità significano responsabilità e moralità, rispetto della legge e del diritto, rifiuto della violenza. Se il mondo “civile” condivide buona parte di questi principi è perchè è stata la nostra fede e la nostra tradizione a insegnarli. Tutto quello che abbiamo letto nei nostri libri di tefillà in questa giornata, da Isaia a Jonà alle numerose preghiere e poesie, ribadisce queste idee essenziali.  Molte idee fondamentali che guidano e elevano la civiltà sono un nostro prodotto, un nostro contributo irrinuciabile. Ma non c'è momento in cui non vengano messe in discussione e in cui o si neghi il nostro ruolo, o si scateni l'ostilità verso di noi proprio per questo ruolo. Fermiamoci a pensare ora a tutto questo, a provarne un po' di orgoglio, ma mai arroganza, a pensare a quanto sia insulso per noi rifiutare o disprezzare delle radici così nobili, a pensare a quale sia il nostro dovere di comportarci con coerenza morale, in pubblico e privato, tanto più quando le strutture sociali cambiano tumultuosamente e rischiamo esser solo dei soggetti passivi che accettano dei modelli esterni.
Se tutto questo è vero, come lo è, non possiamo nascorderci una grande difficoltà: il fatto che l'ebraismo sia esigente. Per realizzare gli obblighi della nostra religione ci vuole una continua attenzione, tutta la vita è controllata, c'è una lunga e complicata serie di regole da rispettare. Non sarebbe meglio, più comodo e più semplice se ci fossero meno regole? Nel suo messaggio per il Kippur di quest'anno rav Jonathan Sachs spiega perchè no. Pensate alle feste maggiori di Pesach, Sukkot e Shavuot. Sicuramente la gente osserva molto più Pesach di Sukkot e Sukkot più di Shavuot. Pensate a quello che succede in queste feste. A Pesach c'è un carico non indifferente di obblighi da rispettare, dalla pulizia della casa al seder al cibo; a Sukkot c'è la Sukkà e il lulav; a Shavuot non c'è praticamente niente. Eppure quale di queste feste è la più celebrata e “frequentata”? Proprio Pesach, la festa che la più esigente, che ha più regole da rispettare. E questa sera siamo qui e altrove raccolti in moltitudini mai viste, come mai in altri momenti dell'anno, e siamo già alla 23a ora di digiuno assoluto e preghiera continua. Se non ci fosse tanto rigore, anche se probabilmente non tutti lo rispettano, qua non ci sarebbe tanta gente. La conclusione su cui bisogna pensare è che le cose che valgono di più sono quelle che esigono di più; è vero per lo studio, per il lavoro, per lo sport come è vero per le cose spirituali. Se l'ebraismo fosse stato più semplice, sarebbe già scomparso. E' difficile, è esigente, ma se non fosse stato così non avrebbe trasformato il mondo. Il nostro Re esige da noi grandi cose. Ma è questo che ci rende grandi.
Così come siamo entrati in questo edificio richiamati dal sacro, così dobbiamo uscirne con l'impegno a seguire la vocazione di Israele a essere קדושים , santi. Dove la santità non è una  condizione eccezionale per pochi, ma coerenza alla portata di tutti. E' un impegno che riguarda noi e il nostro miglioramento. Che devi imporci l'umiltà come regola, come umile fu il nostro maestro Moshè, che non deve mai far guardare un altro dall'alto verso il basso, che sia ebreo o no, che si comporti bene o no. Non siamo noi i giudici ma dobbiamo dare l'esempio e non sottrarci a questo obbligo. Troppe volte cerchiamo il compromesso, mandando all'aria la kashrut, lo shabbat e quantaltro per adeguarci a doveri o formalità sociali. Per non parlare dei modelli familiari in crisi che accettiamo passivamente dall'esterno. Dai tempi del patriarca Yaaqov abbiamo cercato di assumere le sembianze di Esav. Ma non è un gioco vincente neppure nei tempi brevi. Le persone ci rispettano per quello che siamo e per quello che dovremmo essere come ebrei, non per quello che disprezziamo di noi stessi. Un importante prelato qualche hanno fa mi chiese: “ma che razza di ebreo è il tal dei tali che mangia pubblicamente qualsiasi cosa a voi proibita?”. Era un personaggio dei tanti che rappresenta in pubblico quello che lui pensa essere l'ebraismo. Ma la sua pubblica trasgressione non rendeva rispettabile né lui né il suo ebraismo. E se questo discorso  riguarda in primo luogo i nostri rappresentanti non esime dall'obbligo chiunque di noi, che è comunque e deve essere un simbolo vivente della qedushà di Israele.
Pensiamo a queste cose nei momenti solenni che seguiranno, seguendo con attenzione ogni momento della preghiera.

זכרנו לחיים מלך חפץ בחיים וחתמנו בספר החיים למענך א-ל חי

“Ricordaci per la vita, Re che desideri la vita, e sigillaci nel libro della vita, per Te, D. vivente”

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

(discorso pronunciato nel Tempio Maggiore di Roma alla conclusione del Kippur 5770)




ajmadinejadAhmadinejad ospite al Larry King Show
Il dittatore strizza l’occhio ai media americani


C’è un luogo che Mahmoud Ahmadinejad, presidente-dittatore della Repubblica Islamica dell’Iran, ama frequentare ogni volta che viene a New York a parlare (o sparlare) all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: il salotto del Larry King Show, uno dei programmi televisivi statunitensi più celebri e amati dal pubblico del piccolo schermo. Si sa, anche i dittatori curano la loro immagine, così “l’ultimo discendente del profeta Maometto” si è presentato negli studi televisivi del programma vestito di tutto punto, con un elegante vestito grigio a conferirgli tono, autorevolezza e una certa aria da mediorientale in viaggio d’affari in Occidente. Arredamento sobrio, bandiera iraniana sullo sfondo, a interloquire con il barbuto dittatore uno dei “santoni” del giornalismo americano, Larry King, nome d’arte per Lawrence Harvey Zeiger, oltre quarantamila interviste realizzate in carriera e otto matrimoni alle spalle. “Chissà quale sofferenza avrà provato l’antisemita Ahmadinejad nello stringere la mano ad un personaggio che impersona al meglio lo stereotipo dell’ebreo basso, brutto, gobbo e col nasone”, si chiede un blogger americano (non ebreo). Insofferenza abilmente nascosta durante l’intervista, che è stata comunque “una partita di scherma” (soprattutto nella seconda parte) tra i due, con stoccate da una parte e dall’altra. King, memore delle critiche ricevute per essere stato troppo morbido e conciliante con il suo scomodo ospite l’anno scorso, ha cercato, attraverso domande pungenti e dirette, di mettere in difficoltà Ahmadinejad sin dall’inizio. Così, a differenza della passata intervista, quando l’attacco fu molto soft (“Che cosa prova ad essere a New York?”), questa volta la trasmissione è iniziata con un video di Obama, nel quale il presidente americano ha accusato il dittatore iraniano di voler sviluppare un programma nucleare non regolamentato dalle leggi internazionali. Chiaro il riferimento al secondo impianto iraniano per l’arricchimento dell’uranio, attualmente in costruzione nelle vicinanze della città di Qom. Ahmadinejad, fingendosi quasi stupito, si è giustificato dicendo di non aver violato il regolamento dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, “in quanto tale regolamento prevede l’obbligo di informare l’Agenzia solamente sei mesi prima che un impianto sia operativo. Siccome quello di Qom non sarà funzionante prima di un anno e mezzo, non ho fatto niente di male”. A contorno di queste affermazioni un sorriso sornione (che mostrerà più volte durante l’intervista) e una apparente rilassatezza, armi mediatiche diaboliche per cercare di allontanare i cattivi pensieri che aleggiano intorno al processo di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. Alternando bastone e carota, Ahmadinejad ha poi lanciato chiari e minacciosi moniti all’Occidente (“l’epoca del colonialismo è finita, Francia e Gran Bretagna non si possono permettere di giudicare il mio paese”), seguiti da messaggi di apertura (“gli ispettori dell’Agenzia possono venire a Qom quando vogliono”). Non sono mancati anche tentativi di “arrampicarsi sugli specchi”, come quando King ha cercato di approfondire la questione del mancato rispetto dei diritti umani in Iran e delle sanguinose repressioni nei confronti degli oppositori del regime, ottenendo risposte sfuggenti ed evasive da Ahmadinejad. Assurdo, poi, il contrattacco del leader iraniano, che ha chiesto al presentatore lumi sul sistema carcerario americano e sul numero di prigionieri che muoiono ogni giorno nelle carcere statunitensi, come se King fosse Ministro della Giustizia e potesse rispondere a quelle domande. Ma è su Shoah ed Israele che lo scontro tra i due si è fatto ancora più acceso. Ahmadinejad non ha negato esplicitamente lo sterminio degli ebrei, dando risposte molto vaghe, del genere “sono uno storico, e come alcuni studiosi, ho opinioni differenti in proposito” o “perché non parliamo del genocidio del popolo palestinese?”. King ha mostrato apertamente il suo disappunto per le risposte ottenute, alzando più volte (e vanamente) la voce, scontrandosi contro il muro del silenzio eretto dal despota iraniano. Capitolo Israele: “Crede che sia possibile che l’esercito israeliano bombardi i vostri impianti nucleari?”, questa volta la domanda del settantaseienne giornalista di Brooklyn ottiene una risposta chiara da Ahmadinejad che, assunte le veci di insegnante di geografia, accenna alla differenza di estensione territoriale tra i due paesi, ritenendo Israele troppo piccola per impensierire il “gigante” iraniano. “Potrebbe, signor presidente, potrebbe”, mormora (con malcelata soddisfazione) King. Verrebbe quasi da ridere, se la sua battuta non prefigurasse scenari catastrofici, per il Medio Oriente e il mondo intero.

Adam Smulevich




I 90 anni di Alberta Levi Temin Napoli si inchina a una donna forte
e a una vita spesa per il bene di tutta la collettività


alberta levi temin“L’oro di Napoli” così il Sindaco Rosa Russo Iervolino ha definito Alberta Levi Temin, partecipando ad una cerimonia svoltasi nella sala Giunta del Municipio di Napoli, per solennizzarne i 90 anni.
Nel consegnare alla Temin una targa come riconoscimento per il suo costante impegno nell’indicare ai giovani i valori della pace, del dialogo e del rispetto delle diversità, il Sindaco Iervolino ha messo in evidenza  la sua instancabile opera di testimonianza nelle scuole, nelle associazioni a contatto con gli ambienti più disparati come una  delle eccellenze di cui la città può essere orgogliosa.
 “ Caposquadra” l’ha invece chiamata Ugo Foà, giunto da Roma in rappresentanza del” Progetto Memoria” della Fondazione CDEC e del Centro di Cultura ebraica di Roma e giustamente perché già venti anni fa ,quando ancora non era stata istituita la Giornata della Memoria, Alberta ha cominciato a portare nelle scuole di ogni ordine e grado, in città ed in provincia la testimonianza di ciò che accadde a lei ed alla sua famiglia a Roma nell’Ottobre del ’43, lo ha fatto e lo fa  con sobria semplicità, con un  linguaggio  accessibile, ricordando il passato, ma guardando al presente e al futuro, rispondendo a domande talvolta provocatorie e dando, con l’autorevolezza che le è propria, un esempio di equilibrio, saggezza ed ottimismo.
In un’atmosfera solenne per il luogo, ma calda ed affettuosa per la presenza di parenti, amici e rappresentanti di associazioni che da anni la considerano un importante punto di riferimento, Alberta ha ringraziato e con poche ed incisive parole, come sempre, ha affascinato l’auditorio .

Miriam Rebhun
 
 
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  Il coraggio di un poeta che portò alla luce il massacro di Babi Yar 

Nel 1941, kippur fu celebrato il 29 settembre. In molti luoghi, si era nel pieno della guerra. Kiev era sotto l’occupazione tedesca. Proprio nei dintorni, a Babi Yar, nei pressi del vecchio cimitero ebraico, gli Einsatzkommando 4, agli ordini del colonnello delle SS Paul Blobel, massacrarono a colpi di mitragliatrice con la collaborazione della polizia ucraina gli abitanti ebrei. Il massacro andò avanti fino al 3 ottobre. Si calcola che oltre 100.000 corpi caddero gli uni sugli altri nel burrone. Alcune vittime respiravano ancora e fu loro dato il colpo di grazia.
Per lungo tempo il massacro di Babi Yar venne tenuto nell’oblio anche dalle autorità sovietiche, ma qualcosa comunque trapelò.
Venti anni dopo, nel settembre 1961, il giovane poeta russo Evgenij Evtushenko, sconvolto dalla scoperta del tutto fortuita del massacro degli ebrei di Kiev, scrisse «Babi Yar», una poesia pubblicata sulla Literaturnaia Gazeta. Ha scritto in proposito Marek Halter: “Il Partito Comunista condannò immediatamente il poeta e il giornale. Ma era troppo tardi: i corpi delle vittime massacrate a Babi Yar già tornavano a galla e fluttuavano alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti, di tutto il mondo, sul Dniepr, il fiume che attraversa Kiev, e sotto le finestre del Cremino, sulle acque della Moscova”.
La poesia di Evtuschenko contribuì ad alimentare la contestazione della storia ufficiale e il regime sovietico reagì con violenza: le opere di Evtuschenko furono messe all´indice. Ciò nonostante, la poesia «Babi Yar» di Evtushenko fu tradotta in tutte le lingue, pubblicata dalla stampa di tutto il mondo e ispirò a Dimitry Shostakovitch la sua celebre tredicesima sinfonia. E dovunque – ancora oggi – risuona il grido del poeta:

«Mi sembra d´essere io un figlio di Israele...
Mi sembra di essere io Dreyfus.
Mi sembra di essere io un bimbo di Bialystok.
Mi sembra di essere io Anna Frank».


Valerio Di Porto, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
 
 
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Riemergendo dall'introspezione di Yom Kippur ci troviamo purtroppo nello stesso mondo dell'altro ieri, con le stesse minacce allarmanti. Innanzitutto quella iraniana, che si sviluppa esibendo in parallelo la sua forza militare e il suo negazionismo e odio per Israele, anche se continua a essere contestato da coraggiosi militanti per la democrazia (Vannuccini su Repubblica). Dopodomani ci dovrebbe essere l'incontro "decisivo" fra il gruppo dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e i rappresentanti del regime iraniano per verificare se Teheran sia pronto a rinunciare al proprio programma atomico, o passare alla fase delle sanzioni. Ma negli ultimi giorni Ahmadinejad ha reiterato i suoi discorsi negazionisti e antisraeliani e ha ammesso l'esistenza di un secondo sito segreto di arricchimento dell'uranio, già scoperto dai servizi occidentali. Ieri poi, in concomitanza con il Kippur, gli iraniani hanno testato dei missili capaci di raggiungere Israele (e anche il territorio dell'Europa orientale e meridionale). Le reazioni sono state miste. Obama ha condannato la manovra, e così quasi tutti gli altri paesi. Ma la Russia ha ammonito a non "lasciarsi prendere dall'emozione", la Cina ha respinto l'ipotesi di sanzioni e anche la Francia ha escluso che queste sanzioni possano essere davvero incisive, per esempio comprendere la benzina. (Sarebbe un passo importante perché l'Iran è sì un paese petrolifero ma non ha capacità di raffinare il petrolio sufficienti per il suo mercato interno). Le cronache dei giornali italiani sono abbastanza ripetitive: si possono leggere Vincenzo Nigro su Repubblica e Federico Rampini ancora su Repubblica e Francesco Semprini sulla Stampa). Ma il problema non è questo singolo episodio, non vi sono novità tecniche nella manovre di ieri, ha ragione il generale Fabio Mini intervistato da Pierre Chiartano su Liberal a sottolinearlo. Bisogna piuttosto vedere il quadro complessivo. E allora è consigliabile riprendere l'analisi di Emanuele Ottolenghi pubblicata dal Riformista di domenica e sempre domenica Fiamma Nirenstein sul Giornale e Angelo Pezzana su Libero. Interessante anche l'editoriale non firmato sul Foglio di oggi e un'intervista al ministro israeliano Yuval Steinitz sull'Unità di oggi.
Sono immagini convergenti e molto preoccupanti, insieme all'editoriale non firmato sul Jerusalem Post di oggi. Sempre domenica è uscito sul Manifesto un incredibile articolo di Tommaso di Francesco, che dipinge un'Israele aggressiva impaziente di fare la guerra al pacifico Iran . E' l'esempio più lampante degli ultimi tempi dello scivolo che porta l'ideologia terzomondista verso l'odio per Israele e in definitiva una forma di camuffato antisemitismo, (senza naturalmente minimamente tener conto della sua repressione interna in Iran, di cui parla ancora oggi Vanna Vannuccini su Repubblica)
Il problema serio è se la comunità internazionale guidata da Obama ha davvero la forza e l'intenzione di fronteggiare la minaccia iraniana, o se si prepara a fare i conti con un Iran nucleare, come sembra proporre Lucio Caracciolo nell'intervista di Liberal che abbiamo già citato. E qui naturalmente il gioco si intreccia con la questione palestinese, perché l'amministrazione americana aveva legato l'atteggiamento con l'Iran alle concessioni israeliane sul West Bank. Questo legame, assurdo perché l'Iran costituisce una minaccia non solo per Israele, ma anche per gli interessi europei e americani, sembra svilupparsi in maniera meno ostile e ricattatoria, grazie al "capolavoro" della gestione che Netanyahu ha saputo fare dei rapporti con un Obama inizialmente molto ostile a Israele e oggi forse indotto a un maggiore realismo (Shavit Uhra sul Jerusalem Post). Vi è comunque un orologio che procede verso una guerra possibile, se le sanzioni non funzioneranno o non saranno adottate. Qualche scenario militare interessante si può leggere, nonostante la titolazione grottesca adottata dalla redazione della Stampa in un servizio di Aldo Baquis.
Nella questione, oltre al ruolo sempre ambiguo e miope degli europei, brilla il silenzio dell'Onu, che è sempre pronto a fare inchieste per documentare gli "eccessi" dell'autodifesa israeliana (si veda a questo proposito l'articolo di Ron Prosor sul Times), ma non pare interessato a farsi carico delle minacce che lo insidiano (Issacharoff sul Jerusalem Post).
Sempre a proposito di stampa israeliana, un articolo che va letto con attenzione è quello di Yair Sheleg su Haaretz, che fa giustizia della ridicola idea, che circola insistentemente per gli ambienti accademici e politici "progressisti" per cui vi sarebbe una "narrativa" sionista e una araba sulla fondazione di Israele e i principali altri problemi in corso nel Medio Oriente. Giustamente Sheleg ammonisce a prorsi problemi fattuali e non "narrativi": chi ha iniziato la guerra del '48? Chi minaccia chi? Oggi, chi vuole la distruzione dell'altro? E' Israele che dice di voler eliminare l'Iran dalla carta geografica o viceversa?
Passando a questioni culturali, Il Foglio dedica una pagina al nuovo importante libro di Giulio Meotti sulle vittime israeliane ed ebraiche dopo la Shoà, opera del terrorismo palestinese e dintorni ("Non cesseremo mai di danzare"). Ne parlano Bat Yeor, la storica ebrea che per prima ha definito il pericolo di "Eurabia" (sul Foglio), lo scrittore Alessandro Shwed (ancora sul Foglio) e il prefatore del libro Roger Scruton.
Un rigurgito di antisemitismo emerge nel teatro tedesco, come documenta un articolo firmato M. Per. sul Corriere) con la riproposizione di un testo di Fassbinder che ha al centro una figura stereotipica di ebrei affarista e succhiatore di sangue – cosa per nulla sorprendente per questo autore grossolano e volgare, ingiustamente sopravvalutato dopo la morte. Forse non antisemita ma certamente antisraeliano e violentemente antisionista è invece "Ritorno a Haifa", un testo di un terrorista palestinese ucciso nel 1972 durante gli scontri di Beirut, in scena al teatro india di Roma e recensito con entusiasmo da Franco Cordelli sul Corriere.

Ugo Volli

 
 
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Iran, il capo di stato maggiore: “Israele è un tigre di carta”          
Frattini: “Un attacco sarebbe catastrofico"
Teheran 28 set -
"Israele è una tigre di carta e quando dicono che Israele si appresta ad attaccare l'Iran è un bluff", questa l’ultima dichiarazione del capo di stato maggiore delle forze armate iraniane, il generale Hassan Firuzabadi, su Israele e su un suo possibile attacco all’Iran. Intanto dall’Italia il ministro degli Esteri Frattini sullo stesso argomento avverte: “Se Israele attaccasse Iran sarebbe una catastrofe per il mondo intero, innanzitutto per lo Stato israeliano. Purtroppo l'Iran ha detto già con chiarezza che non si limiterebbe ad una replica contro Israele ma vi sarebbe un effetto domino che coinvolgerebbe l'intero Medio Oriente allargato". Il titolare della Farnesina dà ancora chance al negoziato sul dossier nucleare, ma ha sottolineato che "prima di Natale dovremmo fare il punto ed essere chiari. Se l'Iran vuole prendere in giro la comunità internazionale, vuole fare della tattica, non possiamo consentirlo", ha concluso.


Benvenuto Beniamin
Beniamin SadunRoma, 29 sett -
Beniamin, questo il nome del nuovo nato. Lo hanno comunicato oggi, nel momento della Milà, la mamma Debora Coen, insegnante nella Scuola elementare  della Comunità Ebraica di Roma e il papà Odoardo Sadun, che è un nostro caro collega. Ai genitori e ai famigliari, in particolare al nonno Raffaele, Coen al Tempio Maggiore di Roma, i nostri migliori auguri. Mazal Tov!
 
 
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