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L'Unione informa |
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2 ottobre 2009 - 14 Tishrì 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
A
rabbì Chaiim 'Ozèr di Vilna che anziano e ammalato sedeva nella sua
Succà a mangiare, uno sconosciuto ospite chiese: “Maestro non è forse
scritto nel Talmud che i sofferenti sono esentati dalla mitzvà della
Succà?”. “Certo” rispose il rav, ma non ho mai trovato scritto nel
Talmud che il sofferente sia esentato dalla mitzvà dell’ospitalità. Per
questo sto seduto accanto a te. |
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La
notizia è sui giornali di ieri: parallelamente a quella degli umani, si
allunga anche la vita di cani e gatti. Gli animali domestici vivono in
media alcuni anni in più di prima, fatte le dovute proporzioni tendono
anche loro a diventare centenari. Non posso dire che la notizia non mi
faccia piacere. L'idea che la mia cagna potesse precedermi nella tomba
mi angustiava. Ora, mi immagino me e Lola ormai decrepite, che ci
appoggiamo l'una all'altra e ci teniamo compagnia nella vecchiaia. So
che quelli che non hanno animali non possono capire, ma chi ha un
animale vicino ne sarà felice, come me. |
Anna Foa,
storica |
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Succot - Riaprendo le pagine del rav Leone da Modena
Da questa sera ci troveremo ad abitare in Succà; lasceremo la nostra casa per una capanna instabile, dirat arai
una casa provvisoria "affinché sappiano le vostre generazioni che in
capanne ho fatto stare i figli di Israele quando li ho tratti dalla
terra d'Egitto; Io sono il Sign-re vostro D-o" (Lev. 23:43). David
canta nei suoi Salmi (16:11) sova semachot et panecha (fammi conoscere la gioia che proviene dal Tuo volto), ma il Midrash interpreta sova come se fosse scritto sheva riferendosi alle sette mitzvot della festa di Succot: le quattro specie nel lulav (palma,cedro, mirto e salice), la succà, la simchà cioè la gioia particolare di questa festa, e il sacrificio di chaghigà. È proprio a questi versi che fa riferimento Leone da Modena (Jehudà Arié, 1574-1648), il famoso rabbino di Venezia nel suo Sefer Midbar Jehudà
che riporta alcuni suoi discorsi per le ricorrenze annuali e per
occasioni particolari della vita comunitaria. Il libro, pubblicato
originariamente a Venezia, è stato ripubblicato nel 2002 a Benè Berak e
prendiamo ispirazione dal suo discorso per Succot. La Succà è la
rappresentazione della vita di questo mondo, in cui non vi è qualche
cosa di veritiero e di fisso, ma tutto è instabile, dirat arai: questa
è la sensazione che dobbiamo avere della nostra vita attuale. Succot,
che cade non a caso nel mese di Tishrì, in cui è stato creato il mondo,
viene quindi a insegnarci la vanità della nostra vita attuale che
acquista il suo significato dal servizio divino. La Berachà per la
Succà è al tempo stesso un ringraziamento al Sign-re che ci ha
santificato in questo mondo con l'osservanza delle sue mitzvot, per
poter essere degni della vita eterna, come ricompensa e non come dono;
dopo il servizio in questo mondo potremo quindi prepararci con animo
lieto alla vita reale del mondo futuro. “Dice il Sign-re: lui ha
osservato la mitzvà della succà, Io lo proteggerò dal calore del mondo
futuro”. La frase di rabbì Levi: "Chi osserva la mitzvà della Succà in
questo mondo…" viene interpretata da Leone da Modena come riferentesi a
chi osserva i dinim della
Succà riferendosi a questo mondo, benedicendo cioè il Sign-re che lo ha
messo in questo mondo per lavorarlo e apprezzarlo potendo occuparsi
della Torà divina che ci conduce al nostro Creatore. Il lulav rappresenta invece quel microcosmo che è l'uomo: l'etrog
rappresenta il cuore; il lulav la spina dorsale; il mirto l'occhio e il
salice la bocca, tutti organi che debbono essere partecipi al nostro
servizio divino; oppure sono il simbolo dei quattro periodi della vita
umana, "in ognuno di essi l'uomo deve essere sempre pronto a muoversi
secondo il volere divino" come si può apprendere anche dall'altro
midrash che paragona i 4 minim ad Avraham, Izchak, Jaakov e Josef. Ecco
quindi la Succà (questo mondo), con il lulav (l'uomo) e accanto a loro
il sacrificio e la gioia; il discorso agli ebrei veneziani si chiude
con la speranza nell'avvento del Messia e la ricostruzione del
Santuario di Jerushalaim. E noi desideriamo aggiungere ai nostri lettori i migliori auguri di mo'adim lesimchà.
Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme
Succot - Quella capanna a Pechino
È
Venerdì sera e più di cento persone sono ammassate intorno a tre lunghi
tavoli cantando la Birkhat Hamazon. La cena di Shabbat (zuppa, challah,
humus e pollo arrosto) è stata appena consumata e l’atmosfera è festosa
mentre il Rabbino si accinge a fare il discorso del dopo-cena. Ma
questo non è il solito venerdì sera al locale centro comunitario.
Questo è un variegato gruppo di ebrei - giovani e vecchi, Orthodox e
Reform - provenienti da diversi paesi. Questi sono gli ebrei di Pechino. Una
fiorente comunità ebraica si è andata sviluppando nella capitale cinese
nel corso degli ultimi anni. Più o meno sono 1800 gli ebrei che vivono
o transitano ogni anno nella città e una vibrante scena sociale si è
sviluppata, soprattutto tra i membri più giovani della comunità. La
popolazione ebraica varia: dagli studenti di lingua cinese ai manager
trasferiti qui con le loro famiglie. Gli studenti e i giovani intern
(tirocinanti) tendono a stare qualche anno mentre alcune famiglie si
sono stabilite quasi permanentemente. Ebrei inglesi a parte, la
comunità è composta da un numeroso contingente di americani, canadesi,
francesi e israeliani. Ci sono state brevi visite di famiglie iraniane
e persino l’arrivo di un gruppo di ebrei siberiani. Molti ebrei
decidono di vivere nella zona orientale della città, a Chaoyang, un
quartiere d’affari trendy pieno di grattacieli ultramoderni e file di
negozi e di catene Occidentali. A nord di questo quartiere c’è
Douban Houtong, l’area dove sorge la Moishe House di Pechino, la
filiale cinese della rete internazionale di centri comunitari
alternativi. È stata fondata dalla giornalista americana Alison Klayman
insieme a Tyler Seeger. I due sono responsabili
dell’organizzazione dei tanti eventi sociali a carattere ebraico che si
svolgono in città, e il tetto a terrazza della House, in cima ad un
edificio molto alto, è frequentemente occupata da gruppi di giovani
ventenni emigrati. “Quando organizziamo feste arrivano dalle
quaranta alle cinquanta persone, soprattutto perché abbiamo questa
terrazza” dice Klayman. Altri appuntamenti fissi della settimana sono
la cena del Venerdì sera, proiezioni di film e discussioni. Klayman
non riesce a nascondere l’orgoglio per Moishe House, che sta per
celebrare il primo anniversario. Con affetto ricorda che “abbiamo
costruito una Succà. Era fantastica. Era molto cinese, fatta con tubi
di PVC e grate di metallo” – materiali presi da un deposito vicino,
essendo impossibile trovare del verde nella giungla di cemento di
Pechino. Klayman dice che, contrariamente alle previsioni, le è stato facile mantenere un’identità ebraica nella capitale cinese. “Insegno
agli studenti che devono celebrare il Bar - mitzvà. Do una mano alla
Scuola Ebraica. Quasi tutti i venerdì sera vado in sinagoga. Inizi a
conoscere molte delle famiglie che poi ti prendono sotto la loro ala. È
così possibile dimenticare che sei a migliaia di chilometri da casa”. Ci
sono, naturalmente, anche delle difficoltà - in una comunità di
emigrati dove c’è un constante flusso di arrivi e partenze, le
relazioni non durano a lungo. “Molti degli amici della prima ora, non
sono più qui” rivela Klayman. Sempre nel quartiere di Chaoyang
troviamo l’ortodossa Casa di Chabad, situata all’interno di un
complesso recintato in via Xiao Yun. Prima di entrare attraverso il
cancello principale, i visitatori fanno il gesto di accarezzare una
lunga barba, segnalando così al guardiano che sono lì per i rabbini. Attraversato
il cancello, avviene una strana trasformazione. Il frastuono di una
città di 18 milioni di abitanti è lasciato dietro mentre sembra di
essere trasportati in un posto che assomiglia stranamente al nord di
Londra. Nato in Inghilterra, Rabbi Shimon Freundlich ha fondato la
Casa Chabad ed è senza dubbio l’ebreo più prominente della città. La
Casa offre un centro per la maggior parte delle attività sociali della
comunità. Quando Freundlich arrivò a Pechino nel 2001 ricorda: “Era
impossibile per un ebreo ortodosso vivere qui. Non c’era la scuola
ebraica, il cibo ebraico o la carne kasher”. Nove anni dopo,
Freundlich e i suoi colleghi sono riusciti “a costruire
un’infrastruttura. "Adesso abbiamo la scuola con 51 studenti già
iscritti al prossimo anno. Abbiamo Dini’s (un ristorante kasher), un
mikvè e pollo e manzo kasher”. Al di là delle soluzioni pratiche, il centro è riuscito a creare un senso di unità tra le diverse anime della comunità. “Le
persone vengono da tutto il mondo. L’atmosfera qui li costringe a
sedersi tutti insieme sotto lo stesso tetto, cosa che crea un senso di
comunità. Da a loro la possibilità di relazionarsi con persone
provenienti da diverse comunità” spiega Freundlich. “Qui se non ti
connetti con la comunità ebraica ti perdi. Hai bisogno del calore e
affetto che solo la famiglia ti sa dare. La gente riceve questo quando
viene da Chabad”. Lontano dalla casa, mantenere la kasherut a
Pechino può essere complicato. Il maiale è l’alimento di base in Cina.
“È presente in così tanti piatti che ordinare un pasto senza maiale può
essere difficile senza parlare bene la lingua”, dichiara Daniel Nivern,
un giovane imprenditore di Manchester. Klayman ammette
candidamente che “certamente finirai per mangiare del maiale; anche se
chiedi di non averlo, finirai per mangiare qualcosa cotto nel grasso di
maiale”. Comunque con un ristorante kasher in città e menù sempre più in inglese sta diventando possibile evitare il cibo non kasher. Adam
Sandzer, un laureato all’Università di Nottingham, ha studiato e
lavorato a Pechino nell’ultimo anno. È molto positivo rispetto alla sua
vita da ebreo in Cina. “Ogni venerdì sera vado da Chabad. Dopo la
cena, i giovani vanno insieme in discoteca o nei bar”. Molti vanno
nella zona di Sanlinut dove i drinks sono economici e le discoteche
animate. Sandzer si entusiasma per una lezione sulla Parashà della
settimana tenuta dal rabbino canadese Nosson Rodin un giovedì sera
“C’erano più di trenta persone”. “Pesach era incredibile” aggiunge “Al Renaissance Hotel c’erano più di duecentocinquanta persone per il Seder”. Daniel
Nirven ha vissuto a Pechino per due anni e ha sviluppato rapporti
stretti con molti cinesi. “Vorrei sottolineare che l'identità ebraica è
considerata una cosa molto positiva dai cinesi. Quando dico loro che
sono ebreo la reazione normale è: ‘Oh! Devi essere molto intelligente.
Noi cinesi vogliamo essere come gli ebrei, sappiamo che siete molto
bravi negli affari’. Poi finiscono per citare Einstein o Marx, i due
grandi modelli della società cinese oggi. Così quando dici che sei
ebreo gli stereotipi sono tutti positivi”. Nivern racconta come
una gran parte della sua vita sociale gira attorno ai suoi amici
cinesi: “I cinesi amano fare affari intorno alla tavola. Così partecipo
a questi grandi banchetti con molto alcool. Dopo ti portano al karaoke”. Il
karaoke è preso molto sul serio in Cina. Per tutta la città ci sono bar
con corridoi di stanze insonorizzate contenenti poltrone e karaoke.
Cantare insieme I Will Survive di Gloria Gaynor sembra essere un
rompighiaccio efficace quando ebrei e cinesi si trovano insieme. Per
adesso, comunque, la comunità ebraica di Pechino sta facendo molto di
più che sopravvivere. Dice Klayman: “C’è così tanta diversità tra gli
ebrei qui che puoi farti prendere totalmente dallo stile di vita
ebraico che preferisci”.
Samuel Selmon (The Jewish Chronicle - settembre 2009) versione italiana a cura di Rocco Giansante
Pagine - Il "Bollettino" di Milano sul dialogo fra le religioni
Il
dialogo interreligioso, specialmente tra le tre grandi religioni
monoteiste, è un’esigenza sentita in una società che diventa di giorno
in giorno sempre più multietnica. All'argomento è dedicata molta
attenzione sul numero di ottobre del Bollettino della Comunità Ebraica
di Milano. Con il titolo di copertina “Le nostre radici comuni, voci a
confronto tra le diverse culture”, il giornale offre numerosi spunti,
elogiando chi costruisce “ponti di dialogo” e annuncia per questo
ottobre la visita del papa alla sinagoga di Roma che in realtà dovrebbe
tenersi nelle prime settimane del prossimo anno. Nel suo editoriale il
direttore Fiona Diwan afferma che “Le radici comuni per molti non
contano nulla, specie quando c’è un ebreo in giro da incolpare per
qualche crisi economica”. Parole riferite alle recenti minacce rivolte
al professor Giorgio Israel, “oggetto di un tentativo di linciaggio e
mistificazione" che il direttore definisce "senza precedenti”.
L’intervista a uno dei politici italiani più in vista, Pierferdinando
Casini, costituisce il pezzo forte di questo numero. Una chiacchierata
col leader dell’Unione di Centro, partito da sempre molto vicino alle
posizioni del Vaticano, che verte sugli sviluppi nelle relazioni tra
mondo ebraico e mondo cristiano e sulla figura di Ratzinger, al quale
Casini riconosce il merito di “aver smentito quanti in passato hanno
tentato di arruolarlo nella cerchia dei sostenitori dello scontro di
civiltà”. Si parla poi anche dei rapporti diplomatici tra Italia e
Israele, “due Stati che – nelle parole dell’ex presidente della Camera
- hanno un ampio nucleo di valori condivisi che traggono origine dalle
comuni scelte di libertà e democrazia” e delle tensioni che
attraversano da decenni il Medio Oriente. Thomas Friedman, celebre
giornalista americano e firma del New York Times, è stato invece
intervistato a Urbino, dove si trovava per ritirare un premio
giornalistico e dove ha visitato la sinagoga. “Un reporter che ha
lavorato nel mondo musulmano in un’epoca dove il conflitto
arabo-israeliano ha fatto diventare la frase I am Jewish qualcosa di
potenzialmente pericoloso”, si definisce così l’editorialista di
Minneapolis, che nell’intervista ricorda anche il collega ed amico
Daniel Pearl, assassinato da un gruppo di fondamentalisti islamici nel
2002. Il resoconto dedicato alla Giornata della cultura ebraica,
riferisce che migliaia di cittadini hanno partecipato agli eventi
organizzati dalla Comunità di Milano. La visita alla sinagoga di via
Guastalla di Pier Luigi Bersani, candidato alla segreteria del Partito
Democratico, l’incontro di Piero Fassino con i giovani dell’Ugei, la
simbolica presenza dell’imam Sergio Pallavicini alle celebrazioni
(“partecipo a questa importante manifestazione con tutta la mia
famiglia per ascoltare la lezione di una minoranza fraterna”), alcuni
dei momenti più importanti della giornata nel capoluogo lombardo. Altri
articoli affrontano in questo numero temi diversi. Dalla storia degli
ebrei di Mumbai, comunità millenaria da sempre ben integrata con il
resto della popolazione, ma teatro di un tragico, recente attentato,
alle risposte del presidente dell'Assemblea rabbinica italiana rav
Giuseppe Laras sul significato della festa di Succot, dai significati
dei dipinti della Cappella Sistina a un’analisi che denuncia la
crescita dei fenomeni di violenza e di teppismo nella società
israeliana.
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Fumetto - I ragazzi d'acciaio che inventarono Superman
Uno
dei più grandi rimpianti di Will Eisner fu di aver rifiutato la
proposta di pubblicare un fumetto su un supereroe ideato da due giovani
ebrei di Cleveland. La storia in effetti dimostrerà che quei due
visionari autori avevano inventato uno dei personaggi più longevi e
famosi della storia del fumetto. Stiamo parlando di Superman e di Jerry Siegel e Joe Shuster. Su di loro si possono leggere molti libri in materia, ma Boys of Steel: The Creators of Superman
di Marc Tyler Nobleman con le illustrazioni di Ross Macdonald racconta
la loro storia con grande semplicità e con una dose di emotività
pionieristica. Infatti spesso lo studioso dimentica le emozioni,
i sentimenti e le vicende umane che hanno motivato la nascita di
un’idea. Invece questo libro racconta con una modalità ricca di
spontaneità l’origine dell’uomo d’acciaio. Il libro è dedicato a un target giovane che ha modo di conoscere come questi due ragazzi (oggi li avremo definiti nerd),
non frequentassero le classiche attività giovanili, come la squadra di
football oppure fossero attratti dalle canzonette dell’epoca. Ma
passassero il loro a tempo leggere i pulp magazine e ad emozionarsi per
eroi come The Shadow. Uno,
Jerry Siegel, scriveva le storie, l’altro Joe Shuster, le disegnava.
Una notte, la leggenda narra, che Jerry ebbe l’idea, corse dall’amico
che subito si mise a gettare una serie di bozzetti. Poco tempo dopo si
concretizza Superman. E soprattutto un progetto editoriale che
all’inizio, proprio come fece Eisner, fu rifiutato da diversi editori
dell’epoca.
Sarà
la DC Comics nel 1938 ad acquistarne i diritti e anche la proprietà.
Così il 30 giugno appare nelle edicole statunitensi il numero 1 della
rivista Action Comics. Il mondo dell’immaginario non sarà più lo
stesso? La S sul petto di quell’alieno proveniente da Krypton forse fu
un omaggio che gli autori fecero ai loro cognomi: Siegel e Shuster.
Oppure a uno dei loro eroi più amati The Savage. Sicuramente tutti riconosciamo quella S, così come il simbolo del pipistrello. Kal-El,
il suo vero nome, significa in ebraico “la voce di D-o” e diversi
autori hanno voluto vedere in Mosè la figura biblica che ha ispirato il
personaggio; anche se non si può non identificare diverse analogie con
Sansone: la superforza, il punto debole, l’assenza di un rapporto
famigliare sicuro. Superman ha una seconda famiglia, Sansone nasce
sotto il cappello di una volontà divina che gli prospetta già il suo
destino, cancellando le naturali aspirazioni dei genitori. La figura
paterna è annullata dalla presenza, anche ingombrante, del Creatore. Questo
personaggio è diventato l’icona di una nazione, ma anche un oggetto
dell’immaginario collettivo imprescindibile per capire la società
occidentale. Su di lui hanno pubblicato, prodotto, ideato di tutto, non
esiste settore della nostra società che non sia stato toccato dalla S. Sotto
la camicia di ogni ragazzo per intere generazioni, si è nascosta una
calzamaglia, una S. Tant’è che quando è morto, la stampa mondiale lo ha
trattato come un essere umano vero, una autorità che meritava il suo
coccodrillo. E forse diversamente dal solito non era pronto il
coccodrillo (sembrerebbe che tutti i giornali del mondo abbiamo i
coccodrilli già pronti di tutte le persone celebri), perché Lui è
Superman, l’uomo invincibile. Una nota finale: in Superman 4
quando il nostro eroe salva l’aereo, entra negli alloggi dei
giornalisti e chiede a Lois Lane come sta… non avete pensato: “è
tornato”?
Andrea Grilli |
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rassegna stampa |
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Mattinale
scarno, privo di grandi suggestioni, sui giornali. La mancanza di un
argomento che faccia da traino per l’intero palinsesto delle notizie si
nota a partire dalle prime pagine dei giornali, dove la tendenza alla
diversificazione nella titolazione (quindi negli ordini di priorità) è
l’indice palese di una fatica a trovare un baricentro. Se campeggiano
le notizie sulle grandi tragedie naturali, consumatesi nell’emisfero
meridionale del mondo, per quello che concerne la nostra rassegna
stampa possiamo soffermarci solo su un numero limitato di articoli,
individuando le tendenze di fondo dell’informazione nel merito degli
argomenti che sono nostri, chiamandoci in qualche modo in causa.
Interessante, da questo punto di vista, è l’intervista, tradotta in
italiano e pubblicata dall’Espresso,
che Mahomud Ahmadinejad ha rilasciato al periodico «Newsweek». Il
quadro di riferimento è sufficientemente chiaro: l’Iran sta alzando la
soglia dello scontro sul tema del nucleare. Al momento si ipotizza che
sia in possesso di una quantità sufficiente di uranio per potere
costruire un ordigno nucleare, da subito o in tempi relativamente
brevi. Nel mentre le intelligence occidentali scoprivano un secondo
impianto segreto per la produzione di uranio arricchito, infatti, il
paese ha sperimentato due missili con nuove testate e a lunga gittata,
in grado quindi di colpire sia Israele che l’Europa meridionale. Non di
meno l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, incaricata di
compiere le ispezioni nei siti nucleari, ha ripetutamente lamentato la
scarsa o nulla collaborazione degli iraniani. Teheran, per parte sua,
usa il programma nucleare per più scopi. È questo senz’altro uno
strumento di consolidamento del consenso intorno all’attuale
Presidente, che lo ha legato ai sogni, mai venuti meno, di fare della
Repubblica islamica dell’Iran una potenza regionale in grado di
condizionare gli equilibri dei paesi limitrofi. Da questo punto di
vista, l’influenza durevole passerebbe attraverso Israele o, per meglio
dire, per il tramite della politica di ricatto che il possesso della
bomba atomica concederebbe perpetuamente agli iraniani. Per gli
analisti è evidente come Ahmadinejad, quando pronuncia il nome di
Gerusalemme, pensi a Damasco, a Bagdad, a Beirut e così via. Potere
mantenere un braccio di ferro con quella gli è funzionale al
condizionamento di queste. Dopo di che è impossibile dire fino a che
punto le minacce si tradurrebbero immediatamente in vie di fatto,
nell’eventualità in cui dovesse disporre per davvero della bomba. La
userebbe o no? Il potere di uomini come Ahmadinejad non si basa mai
sull’amministrazione ordinaria delle cose della politica ma sulla
costante mobilitazione della popolazione contro un qualche nemico. E
non a caso il programma atomico viene populisticamente presentato come
l’espressione del più verace «carattere popolare» del paese, ovvero
come una sorta di «atomica dei poveri». Insomma, l’energia nucleare è
una cartina di tornasole per misurare il consolidamento del consenso
degli strati socialmente ed culturalmente più svantaggiati, il cui
controllo costituisce la vera garanzia di continuità del potere per gli
ultraconservatori. Il problema, quindi, non è solo evitare che il
satrapo di Teheran riesca a dotarsi di una forza nucleare d’offesa ma
che possa addivenire alla produzione di energia atomica tout court,
poiché già anche solo quest’ultima gli darebbe da sé un vantaggio
competitivo, rispetto ai paesi circostanti, tale comunque da
condizionare l’evoluzione futura del Medio Oriente. Si comprendono,
quindi, le perplessità espresse da chi, come Fiamma Nirenstein, che ne
scrive oggi su il Giornale,
pensa che il tempo giochi a sfavore del mondo occidentale. La stessa
discussione comune, ripetutamente invocate da Teheran, a favore del
disarmo globale, al di là di ciò che viene messo a bella posta in gioco
(il sogno di un mondo senza armi di distruzione di massa), sarebbe un
tentativo di prendersi ancora quello spazio di tempo necessario per
arrivare agli obiettivi che ci si è autonomamente prefissi. A
rafforzare questa opinione si aggiungono le ripetute denunce, fatte
dall’opposizione iraniana in esilio, nel merito di impianti e siti
atomici nascosti o celati allo sguardo altrui, delle quali Marta
Allevato, sempre per il Giornale, parla oggi intervistando un oppositore. Altri però, come Daniele Castellani Perelli su Europa,
si attestano su posizioni più possibiliste o, almeno, con una
connotazione maggiormente sfumata, recuperando toni più trattenuti. Ha
ragione l’articolista a far notare che gli Stati Uniti, con la
presidenza Obama, sono passati dal novero dei falchi a quello delle
colombe. È evidente come per Washington l’insoddisfacente andamento del
conflitto in Iraq e in Afghanistan costituisca un pesante precedente,
sgradevolmente ereditato dal passato inquilino della Casa Bianca. Di
certo gli statunitensi sono assai meno propensi - oggi - a fare del
ricorso alla linea interventista il più importante tra i loro pilastri
in politica estera. Poiché di questa si raccolgono perlopiù dei cocci e
pare del tutto insostenibile, a fronte della perdita di potenza nello
scenario internazionale che gli Usa hanno misurato negli ultimi anni,
mantenere uno stile muscolare com’era invece accaduto nel passato.
Sempre per rimanere in tema di Medio Oriente si segnalano, in
contemporanea, due articoli dedicati a Suad Amiry, architetto,
fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation
di Ramallah, da noi conosciuta però soprattutto per i romanzi che ha
scritto. La sua ultima fatica, il libro intitolato «Murad, Murad», è
stata ora tradotta in italiano e pubblicata per i tipi di una
importante casa editrice. Sia Antonello Guerrera, per il Riformista, che Leonardo Servadio, su Avvenire,
commentano gli spunti offerti dalla scrittura dell’autrice. Il fuoco
delle affermazioni ruota intorno alla condizione dei palestinesi
residenti nei Territori dell’autonomia, ed in particolare in
Cisgiordania. La difficile situazione in cui si trovano, tra
impedimenti amministrativi, check point, barriere è raccolta nello
stesso romanzo, dove si narra dell’avventurosa notte trascorsa da un
gruppo di lavoratori che varcano il confine con Israele, per andarci a
lavorare poiché meglio retribuiti. Non possono sfuggire a una
valutazione del contesto, che non deve mai prescindere da un giudizio
di umanità, gli elementi raccolti nel romanzo, a partire dal senso di
alienazione che accompagna i protagonisti durante le loro
vicissitudini. Rimane però un fatto che, senza prescindere dalle
concrete condizioni (anzi, proprio perché si confronta con esse), va
comunque richiamato. La questione del futuro dei Territori palestinesi,
in questi ultimi dieci anni, è andata perdendo la specificità di
problema politico per assumere sempre di più quella di vicenda
umanitaria. I meccanismi che hanno generato questo esito sono complessi
e rimandano, inesorabilmente, alla mancata soluzione del conflitto di
sovranità che è alla base del confronto tra israeliani e palestinesi.
Quel che residua oggi, per parte palestinese, prima ancora che una
rivendicazione di indipendenza politica è la richiesta di essere
considerati, nell’agone internazionale, come la parte vittimizzata per
definizione del conflitto medesimo. Da ciò deriva un surplus di
attenzioni e di disponibilità che, se da un lato, possono fare
occasionalmente aggio a chi ne è destinatario, dall’altro lo condannano
a non potersi emancipare dalla condizione nella quale versa. La
letteratura palestinese riecheggia costantemente questi motivi, a
discapito, invece, di una evoluzione verso la meta dell’indipendenza.
Elemento, quest’ultimo, che costituisce un problema poiché è assai
improbabile che un popolo ripiegato su di sé possa dimostrarsi capace
di fare le cose che ogni autonomia chiama inevitabilmente in causa. Da
ultimo, ossia tra le spigolature, citiamo l’intervista che Manuela
Borracino de l’Avvenire
ha fatto al cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio
consiglio per il dialogo interreligioso. Ritornando sul viaggio
compiuto da Benedetto XVI in «Terra Santa» questa primavera (e in
attesa del Sinodo vescovile sul Medio Oriente, previsto per l’ottobre
del prossimo anno), l’intervistato recupera la vecchia e mai smentita
posizione della Santa sede in merito a Gerusalemme, rivendicando per
quella parte della città che è «intra muros», laddove maggiore è il
numero e la rilevanza dei siti religiosi, che ne sanciscono il
carattere «unico e sacro», la necessità di concedere uno statuto
speciale garantito a livello internazionale. Si tratta della versione
rivista e ridotta dell’originaria intenzione che faceva di Gerusalemme
e dei suoi sobborghi, una area sottratta alla giurisdizione dello
Stato, sottoponendola a una non meglio precisata curatela da parte del
diritto internazionale. Il Vaticano non ha mai derogato da questa
posizione, che nella sua radice demanda a sessant’anni fa, ossia a un
scenario completamente diverso da quello odierno. Segno, questo, della
fragilità di proposta politica dei soggetti in campo.
Claudio Vercelli |
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notizieflash |
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Israele - Hamas scambio avvenuto, per il video di Gilad rilasciate 19 detenute Tel Aviv, 2 ott - Gilad
è vivo e lucido. Il filmato appena ricevuto da Hamas per mano del
mediatore tedesco, in cambio della liberazione da parte israeliana di
20 detenute palestinesi, è autentico. A divulgare la notizia è stata la televisione
israeliana. A
poche ore fa risale lo scambio. Diciotto delle donne palestinesi sono
sono state consegnate al valico di Bitunyeh
(Cisgiordania). Un'altra ex detenuta palestinese è attesa al
valico di Erez,
fra Israele e Gaza, dove Hamas sta organizzando in suo onore una
manifestazione popolare. Finora Hamas ha impedito a qualsiasi
osservatore indipendente
di verificare le condizioni di salute del soldato israeliano rapito tre
anni fa. Ancora non è noto se nel
pomeriggio il filmato sarà divulgato - tutto o anche in parte - dalle
autorità israeliane. Da un lato Israele preferirebbe astenersi dalla
pubblicazione, "per non fare il gioco - ha spiegato la radio militare -
della macchina propagandistica di Hamas". D'altra parte viene anche
tenuta in conto la possibilità che proprio Hamas possa mostrarlo. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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