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L'Unione informa
 
    16ottobre 2009 - 28 Tishri 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Dio disse: “Faremo l’uomo” (Gen. 1,26). “Faremo” e non “Farò”. Pur potendo agire da solo Dio chiese la collaborazione degli angeli. Questo per insegnare a noi lettori la buona educazione, il garbo e la cortesia. Nessuno deve agire senza prima chiedere il consiglio e la collaborazione anche di coloro che si reputano meno capaci. (Rashì)
"Le file vengono spinte verso la goffa palazzina delle Antichità e Belle Arti, che sorge al gomito del Portico di Ottavia di fronte alla via Catalana, tra la Chiesa di Sant'Angelo e il Teatro di Marcello. Ai piedi della palazzina si stende una breve area di scavi, ingombra di ruderi, qualche metro più bassa che la strada. Entro questa fossa venivano raccolti gli ebrei, e messi in riga ad aspettare il ritorno dei tre o quattro camion, che facevano la spola tra il Ghetto e il luogo dove era stabilita la prima tappa. Quegli autocarri erano coperti da tendoni impermeabili (continuava a piovigginare) scuri o, secondo altri, tinti addirittura in nero: come pure di nero, dicono quegli stessi, sarebbero stati tinti anche i camion.E' più probabile che quel nero ce l'abbiano veduto gli occhi del dolore e dello sgomento..." (Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, pubblicato inizialmente sulla rivista "Mercurio" nel dicembre 1944). Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Qui Roma - 16 ottobre 1943. Mai dimenticare

marrazzo zingaretti16 ottobre 2009. A 66 anni dal "sabato nero" del ghetto di Roma, giorno in cui le SS alle 5 del mattino invasero le strade del Portico d’Ottavia rastrellando 1024 persone, si moltiplicano gli eventi in agenda per la celebrazione della giornata. Il presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio
Berlusconi, ha inviato al presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, un messaggio di solidarietà in memoria del tragico giorno. "Giorno dopo giorno ciascuno di noi deve continuare ad impegnarsi per estirpare le radici dell'antisemitismo, deve rifiutare con fermezza l'inerzia di chi assiste senza reagire alle intolleranze ed alle discriminazioni".-  scrive il Premier - “Il tempo trascorso dal 16 ottobre 1943 non attenua lo sgomento di fronte all'inaudita violenza attuata dai nazisti all'alba del terzo giorno di Succoth confronti di bambini, donne, uomini innocenti, cittadini di religione ebraica. A tutti i Romani che ricordano parenti e amici tragicamente perduti ed a tutti coloro che portano dentro di sé, generazione dopo generazione, il trauma profondo dell'immensa ferita inferta agli ebrei, vanno oggi i miei sentimenti di solidarietà ed affetto".

coroneTestimonianze di solidarietà alla Comunità Ebraica romana sono giunte questa mattina anche dal Sindaco di Roma Gianni Alemanno e dai Presidenti di Provincia e Regione Nicola Zingaretti e Piero Marrazzo che hanno partecipato insieme a Riccardo Pacifici ed al Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, alla cerimonia ufficiale di deposizione di 6 corone di alloro che si è svolta davanti al Tempio Maggiore. ''Questa giornata testimonia che ci sono valori che uniscono e non dividono. Bisogna attivare e incrementare questi momenti anche su valori importanti come l'accoglienza, la solidarietà, la memoria, per condividerli maggiormente, per dare alle nuove generazioni la percezione che ci sono temi imprescidibili''. Ha commentato Pacifici a margine della cerimonia.
 Il corteo si è poi trasferito  velocemente in via della Lungara per una cerimonia analoga. Ma l'impegno di Regione e Provincia nell'ambito delle celebrazioni di questa giornata non si ferma qui: a Villa Piccolomini, in via Aurelia Antica la Regione Lazio ha presentato la nuova edizione del progetto quinquennale 'Il Percorso dei Giusti'. Dopo Frosinone, Viterbo, Rieti e Roma gli studenti delle scuole di Latina raccoglieranno il testimone da quelle di Roma e parteciperanno ad un progetto di sensibilizzazione sulla capacità di riconoscimento dell'altro e di integrazione etnica e culturale. Gli studenti premiati si recheranno in visita allo Yad Vashem insieme al presidente Piero Marrazzo. A Palazzo Valentini è stato invece presentato il libro Gli Anni Spezzati a cura di Lia Tagliacozzo e Lia Frassineti, per la casa editrice Giunti, in collaborazione con la Comunità Ebraica di Roma. Il libro raccoglie quattro storie sulla Shoah attraverso le parole dei sopravvissuti, le voci sono quelle di Susanna e Liliana Colombo, Piero Terracina, Enrico Modigliani e Nando Tagliacozzo. I dati sulla deportazione contenuti nel libro sono tratti da Il Libro della Memoria  - Gli Ebrei deportati dall'Italia di Liliana Picciotto.
Al Palazzo della Cultura, sede della scuola ebraica, Adolfo Perugia, presidente dell'Associazione Nazionale Miriam Novich ha portato le testimonianze della Shoah attraverso i documenti del Dipartimento di Stato USA, mentre la seconda Università di Roma Tor Vergata celebra la giornata attraverso la proiezione del film di Carlo Lizzani 'L'Oro di Roma' (1961).
Due gli eventi di ieri. A palazzo Valentini, alla presenza del Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e del Presidente della Provincia Nicola Zingaretti, è stato presentato il libro "La rivincita del bene" testimonianza inedita di Giuseppe Di Porto sopravvissuto ad Auschwitz. Il volume sarà distribuito in tutte le scuole superiori di Roma e provincia. La sala della Protomoteca del Comune di Roma ha invece ospitato la presentazione della ricerca di Gianpaolo Pellizaro sulla strage della Sorta del 4 giugno 1944, evento organizzato dal Benè Berith in collaborazione con il Comune di Roma. Sono intervenuti fra gli altri, il Presidente del Benè Berith e consigliere Ucei, Sandro Di Castro, Laura Marsilio assessore alle politiche di promozione della famiglia e dell'infanzia del Comune di Roma e Claudio Procaccia dell'Archivio storico della Comunità Ebraica di Roma.
Domani la Comunità di Sant'Egidio propone il “Pellegrinaggio della Memoria” marcia silenziosa che si snoderà nei vicoli di Trastevere percorrendo a ritroso il percorso compiuto il 16 ottobre 1943 dai deportati che furono condotti al Collegio Militare a Trastevere prima di essere chiusi nei 18 vagoni piombati che li condussero ad Auschwitz. Il corteo giungerà a Largo 16 ottobre 1943, nel cuore del vecchio ghetto, dove prenderanno la parola il Rav Riccardo Di Segni, il presidente della Comunità Ebraica romana Riccardo Pacifici, Gianni Alemanno sindaco della capitale  Andrea Ricciardi  e Matteo Zuppi della Comunità di Sant'Egidio.

l.e.
 



Qui Milano - Eugenio Colorni: socialista, europeista, resistente
In un convegno il ritratto del grande intellettuale ebreo italiano

colorni Tre voci fra le tante al grande convegno dedicato alla figura di Eugenio Colorni che si svolge a Milano. La complessità di Colorni, socialista, europeista, resistente antifascista che fu assassinato a Roma nel 1944 mentre operava in clandestinità per abbattere la dittatura è stata evocata da molti esperti, che hanno più volte fatto riferimento alla identità ebraica del grande intellettuale italiano.
Nel suo intervento, di cui un ampio stralcio è stato già anticipato nel primo numero del nuovo giornale ebraico nazionale Pagine Ebraiche, il giornalista e storico Sandro Gerbi ha parlato di un Eugenio Colorni ebreo suo malgrado.
La famiglia di Gerbi era molto vicina a quella dell’intellettuale milanese. “Ebreo suo malgrado” è un’efficace sintesi di questo controverso rapporto con le proprie origini. Un apparente distacco, dunque, anche se in realtà l’ebraismo ha permeato, nel bene e nel male, l’intera esistenza di Colorni. Nato in una famiglia del ceto medio ebraico, classe sociale emancipatasi dopo il Risorgimento e generalmente tendente all’assimilazione, crebbe in un ambiente colto e laico in cui non si rispettavano le regole della kasheruth e dove il kippur era un giorno come un altro. C’è, tuttavia, una fase della sua adolescenza che lo segna profondamente: l’avvicinamento al sionismo di sinistra. Un’esperienza che lo condizionerà moltissimo nell’impegno e nell’attivismo politico degli anni successivi. Fu tuttavia solo nel 1938, anno in cui furono promulgate le leggi razziste, che si rese conto sulla propria pelle (“suo malgrado”) di essere ebreo. “Un brusco risveglio”, evidenzia Gerbi. Incarcerato per la sua militanza antifascista, i giornali, saputa la notizia del suo arresto (con oltre un mese di ritardo) gridarono al complotto ebraico ed al piano sovversivo sionista sventato efficacemente dalla polizia fascista. Solita litania che avrebbe fatto da preambolo a vicende ben note, con Colorni a pagarne le conseguenze in prima persona, ucciso da alcuni militi fascisti della banda Koch.
C’è un momento della vita di Colorni tra i più culturalmente proficui ed intensi, quello della sua permanenza a Trieste. Quattro anni (dal 1934 al 1938) nei quali entrò in contatto con numerosi intellettuali locali, soprattutto ebrei. Ebrei e laici, proprio come lui. “Sarebbe interessante che la sociologia studiasse più approfonditamente la subcultura dell’ebraismo italiano, in particolare quello non osservante” propone Tullia Catalan, effervescente storica triestina. “Il cosmopolitismo, il rigore etico e di azione, il rapporto particolare con la propria madre, la spinta all’universalismo laico (confluito spesso e volentieri nell’internazionalismo) – spiega - sono aspetti che accomunano la quasi totalità di questi ebrei laici. Colorni incluso”. Eppure la numerosa comunità ebraica triestina (quasi cinquemila iscritti) di quegli anni è una comunità fortemente eterogenea, per la presenza di diverse etnie ed orientamenti politici. Cosa che non sorprende più di tanto, considerata la nota multiculturalità di Trieste. Ed è in questo ambiente stimolante che Colorni conosce, tra gli altri, Bruno Pincherle, Eugenio Curiel e Fabio Forti, con i quali condivide giornate molto intense di studi e riflessioni. Non mancheranno, inoltre, frequentazioni con la forte componente di ebrei sionisti presenti in città e con i primi scampati alla furia nazista, rifugiatisi in Italia con la speranza (per molti vana) di sfuggire allo sterminio.
Tanti incontri significativi, uno in particolare: quello con un Umberto Saba. Forse l’esperienza più rilevante di quegli anni. Ne parla Alberto Cavaglion, affermato studioso dell’ebraismo, ultimo relatore della giornata di giovedì. “Il mio poeta”, le parole che Colorni usa per descrivere l’intellettuale triestino. È un Saba depresso e sconfortato, quello che conosce tra la fine del 1937 e l’inizio del 1938 nei pressi del colle di San Giusto. Un uomo che stava precipitando in una grave crisi nervosa, che si acuirà con l’imminente promulgazione delle leggi razziste. “È vantaggioso avere come maestro un malato”, scriverà tuttavia di lui Colorni, affascinato, se non stregato, dal grande intellettuale triestino. Dopo quell’incontro, infatti, non sarà più lo stesso: “Da quel giorno mi sento più libero e mi sembra di capire di più”. Abbandonerà la metafisica tradizionale e avrà una propensione, sempre crescente, all’attivismo politico. Guarirà dunque la sua “malattia filosofica” con l’intensificarsi dell’impegno. Una trasformazione che avviene grazie alla introspezione psicanalitica. “Non sarà, comunque, un confronto sereno, quello tra i due. Più volte assomiglierà ad un match di pugilato, che lascerà entrambi i contendenti senza fiato e fisicamente provati”, sottolinea con efficace metafora Cavaglion in conclusione del suo intervento. Un incontro/scontro tra due uomini così eminenti ed allo stesso tempo, così diversi.

Adam Smulevich
 
 
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  ruru modanFumetto - Rutu Modan e il formato comic book

Nel libro intervista “Eisner/Miller conversazioni sul fumetto”, le prima pagine sono dedicate al formato dei fumetti. Soprattutto negli USA il formato comic book è una certezza editoriale, così come in Italia il formato Bonelli e in Francia l’album.
Tutti questi formati nascono da tradizioni e scelte soprattutto produttive. Il comics book non è altro che un quotidiano piegato più volte fino ad arrivare a quel 17x26 cm che ha fatto sudare più di uno stampatore.
Nella storia del fumetto diversi autori hanno cercato di superare questo limite esplorando nuove soluzioni. In Italia non possiamo dimenticare gli esperimenti del gruppo di Linus o di Frigidaire. Mentre negli Stati Uniti lo stesso Miller con il volume “300”, ha realizzato un libro orizzontale, con pagine ampie dove le tavole esplodevano in tutta la loro potenza espressiva.
Will Eisner però ricorda come la leggibilità non è solo legata alla capacità di un autore di produrre una storia che abbia senso, ma anche al fatto che il layout della storia disegnata sia riconoscibile dai lettori. La stessa differenza tra leggere da sinistra o da destra. Insomma Eisner apprezza l’innovazione, ma da buon educatore, sa che c’è sempre il rischio che si perda qualcosa del messaggio se non si rispettano certe regole.
Rutu Modan (nella foto in alto) fa parte di alcuni fumettisti che ha esplorato con particolare intensità l’uso del web per raccontare storie attraverso il disegno. Proprio anni fa Franco Carlini ne “Lo stile del web” ricordava come le prime forme di comunicazione dell’uomo, dopo i gesti e i suoni, sono stati i disegni, quegli “affreschi” nella caverna di Lascaux, ha iniziare il cammino dell’uomo. È l’immagine a essere la forma più naturale e antica della nostra comunicazione. Il web è nato scritto, ma via via è ritornato in quella caverna. Il fumettista in questo caso si può trovare a suo agio.
Rutu Modan ha curato nel 2007 un blog disegnato dove non ha fatto altro che trattare 
gli argomenti di qualunque blogger, ma disegnando.

fumetto2Così l’incarico di portare la nonna dal parrucchiere diventa l’occasione per confrontarsi con lei sul futuro di donna. Mentre il periodo della gravidanza e del successivo parto, sono l’occasione per parlare dell’esigenza del riposo.
Infine un’altra nonna racconta di Varsavia e del suo arrivo a Tel-Aviv.
L’interessante lavoro di Modan è aver combinato formato del fumetto con formato della pagina web. In realtà il web ha rilanciato una vecchia forma… il rotolo. Le pagine si srotolano sul nostro programma di navigazione. Ed ecco che Modan ha scelto il percorso più naturale per disegnare i suoi racconti. Invece di realizzare immagini quadrate, tipo vignette, che vanno lette girando pagina (cioè cliccando su un simpatico bottone), ha disegnato le storie tutte in unico rotolo che scrolla si legge in un’unica pagina web.
La modalità narrativa perciò cambia. Il testo si alterna alle immagini, scompaiono le nuvolette, le immagini sono “fermi immagine” del pensiero della autrice.
Un interessante lavoro di composizione della pagina web, che sfrutta forse una delle funzioni più scomode del web, lo scrolling della pagina, ma nello stesso tempo lo trasforma in un modo innovativo di raccontare, rompendo la banalità delle parole.

Andrea Grilli

 
 
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Dunque anche quest’anno, in un periodo vivacemente autunnale, giungiamo al 16 ottobre, data che per l’ebraismo italiano ha un significato peculiare. Come molti dei lettori sapranno si ricorda oggi la ricorrenza del rastrellamento nazifascista del quartiere ebraico di Roma, altrimenti detto «ghetto» in omaggio ai suoi trascorsi. Gli eventi, consumatisi in un oramai lontano 1943, sono ai più noti, tanto da non necessitare d’essere richiamati. Così li racconta Federico Cohen nel suo «16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma»: «La grande razzia nel vecchio Ghetto di Roma cominciò attorno alle 5,30 del 16 ottobre 1943. Oltre cento tedeschi armati di mitra circondarono il quartiere ebraico. Contemporaneamente altri duecento militari si distribuirono nelle 26 zone operative in cui il Comando tedesco aveva diviso la città alla ricerca di altre vittime. Quando il gigantesco rastrellamento si concluse erano stati catturati 1022 ebrei romani. Due giorni dopo in 18 vagoni piombati furono tutti trasferiti ad Auschwitz. Solo 15 di loro sono tornati alla fine del conflitto: 14 uomini e una donna. Tutti gli altri 1066 sono morti in gran parte appena arrivati, nelle camere a gas. Nessuno degli oltre duecento bambini è sopravvissuto». Sono diverse le testate che ce ne parlano (ma non tutte, si badi bene, e le assenze un significato ce l’hanno sempre), ma noi prendiamo gli articoli di Edoardo Sassi, sul Corriere della Sera e di Aldo Chiarle su l’Avanti, per argomentare del nostro. Mentre la storia di quegli eventi è sufficientemente assodata (basti rimandare ai molti testi che la pubblicistica ci offre), diverso è invece il discorso sull’esercizio della memoria, tanto più a sessantasei anni dai fatti. Poiché la seconda non è mai la meccanica riproduzione della prima, mutando semmai nel corso del tempo in quanto prodotto plastico del pensiero umano, necessita di una costante revisione critica. Un esempio, al riguardo, lo si può trarre dalla lettura dell’articolo di Pascal Ceaux, che compare oggi su l’Express, riguardo al lavoro svolto da Patrick Desbois, che si è impegnato a identificare e portare alla luce le fosse comuni dove furono gettati i corpi degli assassinati durante le fucilazioni di massa nei territori sovietici occupati dall’esercito tedesco tra il 1941 e il 1944. In Italia è stato istituito oramai da quasi dieci anni un «Giorno della memoria», quello che cade il 27 gennaio, la cui funzione è di ricordare e commemorare le vittime dalla Shoah e delle deportazioni. Si è più volte detto, e non a torto, che la funzione di quella ricorrenza è rivolta non tanto a coloro che subirono le persecuzioni naziste e fasciste quanto semmai a chi, a così grande distanza di tempo, è chiamato a serbarne memoria. In questo senso è un esercizio rivolto all’intera cittadinanza italiana – e, in una sorta di afflato ideale, a quella europea – nella stragrande maggioranza dei casi, come ben sappiamo, di origine non ebraica. La scelta del 27 gennaio, ossia del giorno in cui, nel 1945, i reparti sovietici aprivano i cancelli di Auschwitz, liberandone finalmente coloro che vi erano ancora imprigionati, vuole infatti indicare la natura continentale di quella tragedia, i cui effetti si misurano sull’intera collettività, indipendentemente dalle origini. Non di meno, da quella terribile esperienza, proprio laddove si misurò la massima gratuità della violenza e l’esasperazione totale dei crimini, si è inteso trarre elementi di educazione civile, ovvero di pedagogia diffusa, volendo così contrastare il significato  stesso che i nazisti attribuivano alle persecuzioni, ossia la morte del senso (oltre che dei corpi delle loro vittime). Rimane il fatto che spesso gli ebrei europei e, segnatamente, quelli italiani, si sono visti così attribuire, più o meno correttamente, un ruolo di sensibilizzazione e di formazione di quella parte della collettività, in particolare modo i giovani, che per dato anagrafico, biografico e culturale maggiormente è destinataria privilegiata di questo genere di messaggi. Si veda in tal senso, allora, la presentazione, avvenuta ieri, a Roma, della benemerita pubblicazione che raccoglie la storia di Giuseppe Di Porto, scampato ad Auschwitz. Ne fa menzione, tra gli altri, Fabio Perugia su il Tempo. Oppure, poiché il libro rimane il vettore più importante nella rievocazione di queste drammatiche esperienze, quanto va commentando Piero Fallai per il Corriere della Sera, parlando dell’uscita di un testo a più mani, «Anni spezzati». Nel lunario ebraico esiste peraltro una specifica scadenza, lo Yom ha-Shoah, dedicato alla memoria dei congiunti e dei correligionari assassinati nelle camere a gas. Coincide con il 27 di Nissan, in primavera. La natura delle due distinte giornate indica la diversa funzione che assolvono, pur rivolgendosi entrambe alla collettività: nel caso del giorno della memoria il discorso pubblico è rivolto a coloro che non vissero quella tragedia; nel caso di Yom ha-Shoah, invece, prevale il memento mnestico familiare, ancorché ricorrenza inserita all’interno di un calendario nazionale e come tale adempiuta e rinnovata. Specularmente capovolta all’attualità di quella memoria, come dell’antifascismo, è la prassi quotidiana del perdurante neofascismo, ovvero il fatto che tale ideologia continui a costituire per segmenti significati di popolazione, composti da giovani ma anche da meno giovani, una idea più che credibile se non coinvolgente. E di coinvolgimenti, ossia di militanze politiche ma anche culturali, ci parlano Tommaso Cerno e Claudio Pappaianni che, sull’Espresso, firmano un articolo che monitora i nuovi circoli, spesso organizzati alla stregua di centri sociali autogestiti, dove crescono i “fascisti del Terzo millennio”. Si tratta perlopiù di insediamenti stabili, disseminati nella rete metropolitana delle grandi città, dove è molto più facile fare proselitismo. La raccolta di consensi e adesioni è trasversale rispetto alle classi sociali ma risulta particolarmente accentuata tra i componenti di quel nuovo proletariato urbano che residua dalla crisi dei ceti medi. Non sorprende più di tanto questo fenomeno a chi ha seguito la parabola della destra radicale in questi anni: da area autoreferenziata, frequentemente in odore di collusione con gli apparati deviati dello Stato, soprattutto negli anni della cosiddetta «strategia della tensione», nonché gelosa titolare della tragica eredità dei fascismi al potere durante le due guerre, si è successivamente trasformata, adeguandosi allo spirito dei tempi. Peraltro non gli è mai stato estraneo il richiamo a un modernismo culturale inteso come incontro di gusti e di pensieri, pur rileggendoli alla luce di ciò che definisce esotericamente «tradizione», ossia un corpo di valori e idee imperiture, destinate a non mutare con il trascorre delle epoche. Oggi il modo in cui questo atteggiamento è declinato – raccogliendo non poche adesioni, anche al di fuori del proprio recinto – demanda al differenzialismo, inteso come atteggiamento di (falso) rispetto delle diversità, proprie e altrui. La seduttività di questa proposta sta nel fatto che impone a tutti di “essere padroni a casa propria”, nobilitando – per così dire – atteggiamenti che altrimenti sarebbero letti come puramente razzistici poiché basati sull’esclusione. In realtà chi condivide una tale posizione deve assumersi anche gli oneri della sua pratica che si traduce nella vocazione all’apartheid culturale, economico e sociale. Il facile richiamo alla coincidenza tra identità e suolo, infatti, costituisce la strada più celere per erigere steccati insormontabili, che cristallizzano i rapporti di forza tra individui e gruppi sociali, fingendo di non vedere quello che c’è immediatamente dietro l’angolo, laddove ad ogni collocazione formale corrispondono disuguaglianze effettive. Siamo in presenza, quindi, di un finto consensualismo, basato sulla filosofia dell’ovvio e del banale (“si è nel giusto quando si sta al proprio posto”) e come tale suadente perché demandante all’idea che l’unica eguaglianza possibile sia il riconoscere il fatto che ogni «nazione» o «popolo» (oppure ceto sociale) siano intrinsecamente diversi e che quindi nhttp://www.moked.it/unione_informa/091016/ulla e nessuno debba intervenire per mettere in discussione il precario equilibrio dell’immobilità, prime tra tutte le aborrite migrazioni. Laddove dovessero sopraggiungere contaminazioni occorrerebbe, secondo la falsariga di questo pensiero, intervenire per separare. La finta ovvietà sta nell’idea che ciò che noi chiamiamo con tali nomi (ma anche con «etnia» o addirittura «razza») sia il prodotto di una essenza eterna, di una materia interiore che non muterebbe mai con il trascorre del tempo. Nulla di più falso, fittizio e, soprattutto, antistorico. Ogni comunità è in costante mutamento, essendo il prodotto di continue ibridazioni. La vicenda storica dell’ebraismo invita a pensare alla continuità attraverso la differenziazione. Sul Medio Oriente, al quale concediamo oggi uno sguardo limitato (poiché ci è chiaro che prima o poi, prepotentemente, tornerà alla ribalta da sé) si possono leggere le cronache di Vittorio Da Rold, per il Sole 24 Ore, dove vengono raccolte  le voci che si rincorrono sulla presunta morte dell’ayatollah Alì Khamenei, «guida suprema» della Repubblica islamica dell’Iran, di Paola Caridi per l’Espresso, sulla non facile situazione a Gerusalemme, di Dan Segre su il Giornale e di Alberto Stabile su la Repubblica nel merito degli archivi del Mossad. Edoardo Castagna, infine, sul Corriere parla del recentissimo libro di Giulio Meotti dedicato alle vittime civili del terrorismo in Israele. Rassegna sufficientemente ricca, in un giorno di ricordi e di pensieri, insomma.

 Claudio Vercelli

 
 
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Israele, alla Mobileye nasce l'auto intelligente                                Gerusalemme, 15 ott -
Parla come un navigatore, lampeggia come una spia: gialla se l’ostacolo è ancora lontano, rossa se s’avvicina, inchioda come un freno a mano se la velocità è da città. L’Auto Intelligente non ha ancora un nome, però ha già un mercato. L’ha messa a punto un istituto d’elettronica applicata di Gerusalemme, Mobileye, e il brevetto è stato venduto agli svedesi della Volvo che lo monteranno fin dall’anno prossimo, sul nuovo modello S60. L’Auto Intelligente “vede” il pedone che attraversa a 35 metri di distanza, avverte l’automobilista con un segnale sonoro e, se alla guida c’è un distratto, provvede da sé: rallentando o frenando con decisione, a seconda della situazione. Secondo Amnon Shashua, il docente d’informatica all’Università ebraica che ha guidato l’équipe di ricerca, “permetterà di salvare molte vite umane e diventerà presto, più che un optional, un irrinunciabile dotazione di qualsiasi vettura”.
 
 
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