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L'Unione informa |
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21 ottobre 2009 - 3 Cheshwan 5770 |
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alef/tav |
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![Adolfo Locci, rabbino](http://www.moked.it/unione_informa/091021/Locci.jpg) |
Adolfo Locci, rabbino capo di Padova |
I
figli di Yafet … ciascuno con la sua lingua, secondo la loro famiglia
nelle loro nazioni (Genesi 10, 2-5); Questi sono i figli di Cam secondo
le loro famiglie e le loro lingue (Genesi 10, 20); Questi sono i figli
di Sem secondo le loro famiglie e le loro lingue (Genesi 10, 31). Ed
avvenne sulla terra c’era una lingua unica…confondiamo la loro lingua
cosicché uno non comprenda ciò che dice l’altro (Genesi 11, 1-7). Rabbì
Eli‘ezer e Rabbì Yochanan: uno sosteneva che gli uomini parlavano
settanta lingue e l’altro che parlavano l’unica lingua del mondo, la
leshon ha-kodesh (Yerushalmi, Meghillà 1, 9). Baruch haLevy Epstein (1860-1941) spiega che la leshon hakodesh
(l’ebraico), era la lingua conosciuta e compresa da tutti gli uomini ma
ogni nazione aveva anche un proprio linguaggio specifico. Quando i
popoli decisero di riunirsi nella terra di Shin’ar per costruire la torre, ebbero bisogno di un unico modo d’esprimersi per comunicare tra loro, e cioè della leshon ha-kodesh. L’incomunicabilità fu causata dal fatto che D-o fece dimenticare la leshon ha-kodesh
agli uomini, non si capirono più, interruppero la costruzione e si
separarono definitivamente. Nella Babele dei nostri giorni può accadere
che si riesca a comunicare pur parlando linguaggi diversi o non capirsi
affatto pur parlando la stessa lingua... |
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A
New York si celebreranno i 90 anni di Primo Levi con la presentazione
delle edizioni in arabo e persiano di "Se questo è un uomo". Sarà il
numero di copie vendute in un bacino di lettori che supera il miliardo
di anime a tastare il polso al dialogo fra Islam e Occidente. |
Maurizio Molinari,
giornalista |
![Maurizio Molinari](http://www.moked.it/unione_informa/091021/Maurizio_Molinari1.jpg) |
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Qui Torino - A poche ore dal grande incontro di Champions i ragazzi del Maccabi Haifa con i bimbi delle scuole
A
poche ore dalla partitissima con la Juventus si apre per i giocatori
del Maccabi Haifa fra i sorrisi e l’incitamento degli alunni della
scuola ebraica di Torino (le scuole paritarie dell'infanzia e primaria
Colonna e Finzi e la scuola secondaria di 1° grado Emanuele Artom).
Eyal Golaza, Biram Kial e il capitano Alon Harazi hanno fatto visita in
mattinata agli alunni festanti e rumorosi della scuola di via
Sant’Anselmo. I tre, visibilmente emozionati di fronte al giovane
pubblico, hanno espresso la loro gratitudine per la calorosa
accoglienza e in particolar modo hanno ringraziato la direttrice, Marta
Morello, per l’ospitalità. Harazi, il giocatore di maggior esperienza
fra le fila del Maccabi, ha poi rivelato ai bambini: “Sono molto
emozionato di trovare così lontano da casa dei giovani sostenitori come
voi; mi ha colpito molto vedere dei cartelloni di incitamento scritti
in ebraico” e ha poi voluto sottolineare “la nostra squadra è una delle
poche ad avere giocatori ebrei, mussulmani e cristiani”, una
dimostrazione che la convivenza è possibile. I giocatori hanno poi
regalato alla scuola e alla direttrice sciarpa, bandiera e gagliardetto
del Maccabi Haifa.
Sperando
che la visita sia di buon auspicio per questa sera, la partita si
presenta particolarmente ostica per i verdi di Haifa. La Juventus, che
in serie A non sta brillando, vuole riscattarsi in Champions e giocherà
sicuramente a viso aperto per ottenere gli agognati tre punti. Se da
una parte la Juve vuole uscire dalle difficoltà del campionato, il
Maccabi deve portare a casa almeno un punto essendo ancora a secco
nella competizione europea. L’allenatore Elisha Levi ha dichiarato ieri
in conferenza stampa: “Valiamo molto di più degli zero punti in
classifica, siamo qui per cambiare le statistiche - e ha aggiunto
- siamo venuti a Torino per giocarcela, dobbiamo scendere in campo
concentrati e cercare di fare il nostro gioco”. Levi ha poi dichiarato
che non cambierà il suo stile di gioco veemente e aggressivo, non
importa se di fronte avrà una grande squadra come quella bianconera e
ha affermato: “Dobbiamo giocare come sappiamo senza snaturare il
modulo. Non abbiamo mai giocato per difenderci ed è grazie a questo
spirito che siamo arrivati fin qui”. Harazi, uno dei giocatori più
rappresentativi della rosa, ha sostenuto il credo del suo allenatore:
“Non partiamo sconfitti, scendiamo in campo con la determinazione di
sempre e cercheremo per quanto possibile di aggredire i nostri
avversari”. Nessun timore reverenziale dunque anche se “le farfalle
nello stomaco ci sono sempre in queste occasioni” ha sottolineato il
portiere del Maccabi, Nir Davidovitch “ma - ha poi aggiunto – una volta
scesi in campo, dobbiamo pensare solo ala partita”. Nella
conferenza stampa c’è stato anche un momento di ilarità generale, più
fra gli israeliani a dire il vero, quando un giornalista italiano ha
chiesto all’allenatore Levi “se potesse togliere uno fra Buffon,
Iaquinta, Diego, Amauri, chi leverebbe?” e uno dei reporter israeliani
ha commentato ironico: “Questa è proprio una domanda italiana”. I
pronostici sono tutti a favore della squadra di casa ma, come amano
dire gli esperti del settore, “nel calcio non si può mai sapere”.
Inoltre il Maccabi può contare su dei piccoli tifosi gioiosi ed
entusiasti che questa sera potrebbero essere un’arma in più.
Daniel Reichel
Qui Torino – Oi Va Voi in concerto Fusion di klezmer e rock albionico
Non
capita tutti i giorni di andare ad un concerto rock e sentire cantare
in yiddish. Ancor meno te lo aspetti da una cantante anglo-ghanese,
Bridgette Amofah, un'autentica bellezza dell'Africa Nera col rimmel
della city. E invece è proprio così: è lei la nuova cantante degli Oi Va Voi, gruppo emergente nella scena underground londinese. Oi Va Voi
è una tipica espressione yiddish, l'intercalare più usato. Il gruppo
nasce all'inizio del millennio coll'obiettivo di recuperare i ritmi e
le melodie klezmer, la musica tradizionale dei loro nonni, ebrei
originari dell'Europa dell'est e baltica, reinterpretandoli in chiave
moderna e fondendoli con sonorità rock ed elettroniche. È un
elegantissimo incontro tra l'antico e il moderno, tra i lamenti dei
violini dell'est e le chitarre elettriche distorte, tra la malinconia
mitteleuropea e i le coloratissime trombe gitane, il tutto insaporito
da un tocco molto british. E la cantante ha la pelle d'ebano. Sono
le undici e mezza, all' “Hiroshima Mon Amour”, storico locale torinese
per gli amanti della musica dal vivo, quando Steve Levi, clarinettista,
leader della band, prende il microfono e annuncia che “la prossima
canzone si chiama S'brent: il testo è in yiddish, lo scrisse Mordechai
Gebirtig, famoso poeta e cantore yiddish, nel 1936. Racconta l’episodio
commovente di un villaggio dato alle fiamme.” L'interpretazione della
bella Bridgette fa tremare le gambe alla sala, è struggente. È uno
spettacolo estatico questa donna nerissima e meravigliosa, cantare in
perfetto yiddish la tragica vicenda di un pogrom degli anni '30, rapita
dalla passione, sofferente. “S’brent” è spleen, dal vivo anche più che nel disco, esprime tutta la vitale malinconia tipica della poesia e della musica chassidica. La sala è attonita. Ma S'brent è una parentesi. Subito dopo la musica si fa più veloce e allegra, si ricomincia a ballare. È la simchà chassidica, questa volta, a farla da padrone, con l’aiuto di chitarra e basso. Il
concerto di Torino è una tappa del tour italiano (giovedì 15 ottobre a
Milano, venerdì 16 a Bologna, sabato 17 a Treviso) iniziato per
promuovere l'ultimo disco, “Travelling the face of the globe”, il loro
quarto album. Completamente autoprodotto, è stato registrato in una
sinagoga, l'ambiente più in sintonia con le radici e l’identità
culturale della band. Nel corso degli anni gli Oi Va Voi
hanno cambiato diversi strumentisti; nessuno dei nuovi arrivati ha
radici ebraiche, però rimangono Josh Breslaw, batterista, Nik Ammar,
chitarrista, e Steve Levi, clarinettista, il nucleo storico della band,
e garantiscono che gli Oi Va Voi
conservino la loro identità culturale, che continuino il progetto di
mescolare una sensibilità pop anglosassone moderna con la cultura
ebraica e dell’Est europeo. Il fil rouge di quest'ultimo album
è, come suggerisce anche il titolo, è il tema del viaggio, ma si
affrontano anche argomenti politici, l'immigrazione, la dissidenza. È
un disco musicalmente variegato, tutto attraversato da clarinetti
ipnotici, regala ballate malinconiche (virtuosa la violinista Anna
Phoebe) e incalzanti ritmi balcanici, atmosfere uggiose d'oltremanica
(“Foggy day”) ma anche tamburelli mediorientali, c'è sempre
un’atmosfera agrodolce, un contrasto tra gioia e tristezza. Non solo
nei testi, ma anche per il tipo di strumentazione, l’esuberanza della
tromba contrapposta alla tristezza del violino. E la voce ispirata di
Bridgitte Amofeh dà un tocco intenso ma carezzevole. Gli Oi Va Voi
da Londra, un bell’esempio di quel crogiolo colorato e a volte
turbolento che è sempre stata e continua a essere la capitale
britannica. E i rockettari torinesi a casa chiedono il bis. Concesso.
Manuel Disegni
Opinioni - Israele, "valori da difendere a ogni costo"
Leggo sull' Unione Informa di ieri la lettera del signor Massimo Bassan
in cui chiede la mia censura o sconfessione per la colpa di esprimere
nei miei commenti alla rassegna stampa "opinioni assolutamente
personali" e inoltre "assai discutibili", che non esprimono una "voce
ufficiale dell'Ucei", un commento ufficiale come piacerebbe a Bassan,
cioè qualcosa di simile alle "veline" del Minculpop fascista (o
piuttosto nel suo caso dell'equivalente stalinista). Ringrazio il
direttore Guido Vitale per la
risposta che ha rimesso le cose a posto sul piano del metodo: un
commento firmato è "personale" per definizione, rappresentando il
libero punto di vista di chi lo scrive. Mi sembra però giusto
aggiungere che c'è un problema di merito. Quel che ha scandalizzato il
signor Bassan era una citazione da un'intervista ad Anna Foa
in cui si leggeva che con Israele non si identifica affatto "la parte
più acculturata del mondo ebraico" ma solo "quella maggioranza di ebrei
europei che non va sui giornali e che non partecipa al dibattito
culturale", gli ignoranti, insomma, dato che per loro "gioca ancora
oggi un forte ruolo il trauma della Shoà che non è ancora sanato".
Dunque secondo l'articolo, i non acculturati si identificano con
Israele solo perché non hanno "sanato" il trauma della Shoà. A me
"personalmente" questa sembra un'idea pazzesca e offensiva, tanto che
concludevo il mio pezzo così: "Sono affermazioni preoccupanti, immagino
deformate nell'intervista, che forse meritano una rettifica." La
rettifica non lo abbiamo letta, in cambio è arrivata la lettera del
signor Bassan. Cui mi permetto di chiedere: crede, come pare dalla sua
reazione censoria, che sia proprio giusto dividere gli ebrei in (1)
"acculturati" "non schiacciati su Israele" e (2) "non acculturati"
identificati su Israele ma solo per via del famoso "trauma non sanato"?
E' questa l'Ucei che desidera, lui che ha fatto il delegato all'ultimo
congresso e il presentatore della lista dei giovani alle ultime
elezioni romane: divisa in intellettuali e ignoranti, solo questi
ultimi per Israele, in quanto traumatizzati, magari un poco
handicappati? Io sarò "polemico", mi sbaglierò, ma per non saper né
leggere né scrivere penso invece che gli ebrei italiani in grande
maggioranza amino e ammirino come me lo Stato di Israele, si
identifichino profondamente con esso come una delle cose più preziose
della nostra storia millenaria, da difendere a ogni costo; e
custodiscano la memoria della Shoà come un dovere nei confronti delle
vittime e un compito verso le nuove generazioni.
Ugo Volli |
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pilpul |
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Troppa confusione nel dibattito sull'ora di religione nelle scuole
Sono
talvolta perverse le vie dell'informazione e dei commenti collegati: in
questi giorni ho visto arruolare il rabbino Di Segni tra i sostenitori
dell'ora di religione cattolica dura e pura nella scuola pubblica, poi
di quella islamica ed ho anche letto un lancio ANSA, direi troppo
sintetico, che attribuiva al rabbino capo di Roma un'affermazione non
corretta, ovvero che l'ora di religione ebraica nella scuola pubblica
"esiste già" e che questo diritto è "dunque riconosciuto,anche se non
esercitato". Da articoli più analitici si evince come il rabbino della
capitale avesse invece ben inquadrato il punto. Vale allora la pena di ricordare cosa recitino le Intese con lo Stato (art. 10 - Istruzione religiosa nelle scuole): "La
Repubblica Italiana, nel garantire il carattere pluralista della
scuola, assicura agli incaricati designati dall'Unione o dalle Comunità
il diritto di rispondere ad eventuali richieste provenienti dagli
alunni, dalle loro famiglie o dagli organi scolastici, in ordine allo
studio dell'ebraismo. Tali attività si inseriscono nell'ambito delle
attività culturali previste dall'ordinamento scolastico. Gli oneri
finanziari sono comunque a carico dell'Unione o delle Comunità." Una volta tanto non mi pare si possa dire che un testo di legge non parla chiaro!
Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane |
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Perché Shoah e non Olocausto Per
chiarezza qualsiasi discorso sulla Shoah dovrebbe affermare che essa è
il male estremo. Un evento che proietta la sua ombra su ogni risultato
che il progresso umano possa raggiungere, che ha scatenato una crisi di
valori identificati con la civiltà occidentale e ha scosso la fede
dell'umanità nell'esistenza di Dio. All'inizio degli anni
Novanta, durante un incontro con gli ambasciatori, un anziano
funzionario del ministero degli Esteri israeliano disse che il ricordo
della Shoah si sarebbe dovuto mantenere come intima memoria privata
piuttosto che come esposizione in pubblico delle sofferenze e dei
traumi. Solo così il ricordo sarebbe rimasto autentico e immune da
banalità e strumentalizzazioni. Queste osservazioni, benché
di grande impatto, contrastano con l'esperienza pubblicamente condivisa
sul modo in cui creare e conservare una cultura della memoria. Queste
dichiarazioni sembrano di fatto minare alla base un certo concetto
dell'ethos israeliano che lega la Shoah alla costituzione della patria
ebraica. Già prima della Shoah si pensava che la ragion
d'essere dello Stato d'Israele più che la mera realizzazione del sogno
di ritornare nella Terra promessa, fosse creare un porto sicuro per il
popolo ebraico, disperso e perseguitato nella diaspora. Come,
conseguenza della Shoah è emersa un'ulteriore nozione: che non si
sarebbe mai più permesso il verificarsi di una catastrofe simile.
Israele non è stato fondato a motivo della Shoah, ma se fosse stato
creato prima, essa si sarebbe evitata. Sembra dunque che gli
israeliani siano destinati a vivere in uno stato permanente di paranoia
giustificata. Il 12 agosto 2009 «The New . York Times» ha attribuito
grande importanza alla questione in un articolo intitolato: «E tutto
troppo tranquillo per gli israeliani? Cresce l'apprensione per capire
quale asso i nemici nascondono nella manica». Pare che gli israeliani
non si permettano il lusso di concepire una vita quotidiana priva di
minacce. L'altra faccia di questa medaglia è l'assunzione di un
atteggiamento eroico motivato dall'essere israeliani, invece che gli
ebrei massacrati, indifesi e privi di un proprio Stato. Senza dubbio
coltivare la memoria collettiva di un evento così traumatico unico nel
suo genere, è una necessità perché, con il trascorrere del tempo, i
sopravvissuti scompaiono e il ricordo dei fatti potrebbe sbiadire. I
primi anni Cinquanta furono caratterizzati dal silenzio delle vittime e
degli aguzzini, un silenzio che lentamente si ruppe alla fine di quel
decennio e durante gli anni Sessanta. Nonostante il processo Eichmann
abbia portato a elaborare una nuova formulazione della Shoah fra i
membri della seconda generazione sia delle vittime sia degli aguzzini è
stata proprio la seconda generazione a promuovere più che ogni altra la
cultura della memoria della Shoah. Si ritiene che la memoria
si mantenga viva grazie alla ripetizione. Il tema della Shoah divenne
una parte essenziale della letteratura postbellica e dei mezzi visivi
di comunicazione sociale. Tuttavia l'avere modellato con successo una
cultura della memoria ha causato anche effetti negativi. Con
il passare dei decenni, da quell'evento unico emerse il problema della
sua rilevanza, specialmente quando quegli eventi indescrivibili
dovevano essere spiegati alle generazioni più giovani. Con il
trascorrere del tempo nulla fu più così ovvio e, forse inevitabilmente,
si apri la strada alla banalizzazione. Inoltre, poiché per correttezza
politica si usava il termine «olocausto» per descrivere il male
estremo, la tentazione di etichettare altri eventi come olocausti
divenne politicamente conveniente. Olocausti in Biafra, in Cambogia, in
Burundi o nel Darfur hanno riempito i titoli dei media, contribuendo a
richiamare l'attenzione su eventi che lo meritavano. Tuttavia lo scotto
da pagare è stato il venir meno dell'unicità della Shoah e della sua
memoria. Il termine «olocausto» si è politicamente inflazionato. E
divenuto un mezzo per definire afflizioni politiche e umane di ogni
tipo. «Olocausto» è la traduzione in greco del termine ebraico - Olah, adottata dalla versione dei Settanta. Olah
è un sacrificio in cui tutto viene bruciato sull'altare. Secondo la
Torah l'uso di questo termine religioso non riguardava gli esseri umani
ma nel libro di Geremia (19, 4-5) i tanto esecrati sacrifici umani del
culto pagano di Baai sono definiti, al plurale olot. La Bibbia di
Donay-Rheims (edizione del 1750), che ha cercato di restare il più
possibile fedele alla versione dei Settanta, offre la seguente
traduzione: «E hanno fabbricato altari a Baal per bruciare nel fuoco i
loro figli in olocausto a Baal: cose che io non comandai, né mai mi
vennero in mente». Non è noto se lo stesso termine greco holòkauston si
riferisse a un rito sacrificale pagano o ebraico. Nell'Anabasi, molto
antecedente alla traduzione della Bibbia in greco, Senofonte utilizza
la forma verbale holokàutei
in riferimento al rito sacrificale pagano greco. Il testo di Senofonte
è stato letto praticamente da ogni classe istruita nel corso di tutta
la storia europea. Anche per questo i termini «sacrificio» e
«olocausto» sono stati spesso associati ai riti pagani, con il
significato di «offerta interamente bruciata». Nella
Encyclopédie (1765) di Diderot e D'Alambert, la voce Olocausto, in
trenta righe, non fa alcun riferimento a ebrei o a pratiche ebraiche ma
solo a sacrifici in onore di «divinità infernali». Nel 1929 Winston
Churchill definì le atrocità turche contro gli armeni come «olocausto
amministrativo». D'altra parte, a New York, nel 1932, un annuncio
pubblicitario di una grande svendita promozionale affermava che tappeti
orientali e nazionali erano oggetto di un «grande olocausto del
prezzo». Il termine «olocausto» per indicare lo sterminio nazista degli
ebrei fu utilizzato per la prima volta nel novembre 1942 in un
editoriale del «Jewish Frontier». Tuttavia, anche dopo il 1945, non è
mai divenuto un sinonimo preciso di sterminio degli ebrei, infatti,
fino ai primi anni Sessanta, era usato principalmente nel contesto
della catastrofe nucleare. Fu il pensatore cattolico Francois Mauriac,
nel 1958, nella prefazione al libro di Eli Wiesel La notte
ad adottare il significato religioso del termine «olocausto» utilizzato
in Geremia 1945 per indicare grave peccato: «Per Wiesel (...) Dio è
morto (...) il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe si è dileguato per
sempre (...) nel fumo dell'olocausto preteso dalla razza, la più
ingorda di tutti gli idoli». L'interpretazione di Mauriac può
condurre alla possibilità della formulazione di un impegno cattolico
vincolante, che dovrebbe considerare la negazione dell'olocausto» un
peccato contro Dio. E' interessante osservare come il nome della legge
israeliana che nel 1953 istituì lo Yad Vashem sia Remembrance Authority of the Disaster
and Heroism. In questo caso il termine Shoah è stato tradotto con
«disastro» o «catastrofe», resa abbastanza precisa del suo significato
biblico. Il termine «olocausto» per indicare lo sterminio
degli ebrei era dunque usato raramente e, perfino negli anni Sessanta,
sempre insieme all'aggettivo «ebraico» o ad altri. Negli anni Settanta,
nelle pubblicazioni americane l'uso del termine divenne più frequente
per indicare lo sterminio degli ebrei. Nel 1978 la serie televisiva
statunitense Holocaust fu trasmessa in tutto il mondo occidentale. E
tuttavia il termine non poteva identificarsi esclusivamente con lo
sterminio degli ebrei. Sono numerosi i motivi per cui è
divenuto preferibile il termine Shoah per indicare l'evento, unico nel
suo genere, dell'uccisione sistematica e meccanizzata che portò allo
sterminio di un terzo del popolo ebraico. In primo luogo, esso offre
un'alternativa ai significati, in qualche modo vaghi, del termine
«olocausto». L'unicità è meglio mantenuta con il termine Shoah. In
secondo luogo, utilizzando il termine Shoah si può mostrare rispetto e
solidarietà alle vittime e al modo in cui esse stesse esprimono la
propria memoria nella loro lingua ebraica. Più probabilmente dobbiamo
questa sostituzione di termini al regista Claude Lanzmann, che, nel
1985, ha intitolato il suo acclamatissimo documentario di nove ore
proprio Shoah. Ci ha reso internazionalmente nota questa parola
ebraica. La scelta è condivisa anche da Benedetto XVI, che, in
occasione del settantesimo anniversario della «notte dei cristalli», ha
definito, il novembre 2008, «quel triste avvenimento» inizio della
«sistematica e violenta persecuzione degli ebrei tedeschi, che si
concluse nella Shoah». Gli ebrei, fin dalla seconda generazione dei
sopravvissuti alla Shoah, hanno sviluppato un atteggiamento paranoico
per evitare la dimenticanza. Ci viene mitigato dalla ripetizione o, in
altre parole, dalla memoria ritualizzata. A tutt'oggi accomunare la
loro unica esperienza di vittime con le atrocità commesse contro altre
nazioni sembra equivalere al tradimento di un lascito trasmesso alle
generazioni di ebrei sopravvissuti a quell'evento. Infatti, se la
possibile conseguenza della memoria è la banalizzazione, il prezzo
della dimenticanza è molto più alto. Per questo all'entrata dello Yad
Vashem si possono leggere le parole attribuite al fondatore del
movimento chassidico, il Ba'al Shem Tov: «La memoria è la fonte della
redenzione».
Mordechay Lewy, L'Osservatore Romano, 21 ottobre 2009 |
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Il processo di pace: Ehud Barak incontra Javier Solana “Israele è pronto a far ripartire il processo di pace” Gerusalemme, 20 ott - Il
ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha incontrato il
rappresentante della politica estera dell'Ue, Javier Solana. “Il
governo israeliano è disposto a fare la sua parte per superare gli
ostacoli e far ripartire il processo di pace con i palestinesi", ha
assicurato Barak al leader europeo. E ha aggiunto che il suo Paese
“guarda con favore agli sforzi intrapresi negli ultimi mesi dalla nuova
amministrazione Usa, e dal presidente Barack Obama, per rivitalizzare
il negoziato israelo-palestinese”. Il governo Netanyahu ha ripetuto a
più riprese di essere pronto a riavviare "trattative senza condizioni",
sotto egida americana, con l'Autorità nazionale palestinese del
presidente Abu Mazen. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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