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    30 ottobre 2009-12 Cheshwan 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Dio disse al primo ebreo: “Conta le stelle. Puoi forse contarle? Così saranno i tuoi figli” (lekh lekhà). Significa forse che non sarà possibile contare gli ebrei? Eppure spesso nella Torà essi vengono contati e il loro numero definito. Il versetto in realtà significa: anche se le stelle non si possono contare tu Avraham dovrai provarci ugualmente. Se lo farai allora da te nasceranno dei figli che impareranno a non fermarsi di fronte a ciò che sembra impossibile. Questa è la caratteristica che ha reso grande Israele (rav ‘Zolty)
Abbiamo fatto l'abitudine a molti orrori, ma a questo proprio non riesco ad abituarmi: la terribile, spietata indifferenza della gente ai morti, ai corpi
abbandonati davanti a loro. Quella persona che scavalca il corpo del morto ammazzato dalla camorra ieri a Napoli non è diversa da chi ha sparato. La differenza è che possiamo arrestare e mettere in galera gli esecutori dell'assassinio, ma non chi continua indifferente a camminare, fare spese, nuotare in piscina vicino a corpi morti che solo poco prima erano vivi, come loro. Contro questo possiamo fare pochissimo, nulla forse. La pietà è ormai morta, e nessuno ci fa caso.
Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  berlin 36Hitler e la campionessa ebrea

Durante gli ultimi Mondiali di atletica leggera a Berlino, è giunta la notizia di un caso sportivo a sfondo sessuale. Caster Semenya, la 18enne sudafricana medaglia d’oro negli 800 metri, è uomo, donna o ermafrodita? Mistero scottante ma allo stesso tempo curioso. Perché Berlino non è nuova a vicende che cavalcano l’androgino confine tra uomo e donna. Così “Berlin 36”, il nuovo film del regista tedesco Kaspar Heidelbach, racconta proprio l’assurda vicenda che, alle Olimpiadi naziste del 1936, ebbe come protagoniste una brillante atleta ebrea tedesca e una compagna di squadra dalle coordinate sessuali indefinite.
Il film, che ha fatto il suo esordio nelle sale tedesche il 10 settembre e che in Germania ha già ricevuto critiche positive - “emozionante” per lo “Spiegel”, “commovente” per la “Zeit” -, ha come interpreti, oltre a Sebastian Urzendowsky e Axel Prahl, la berlinese Karoline Herfurth. Recentemente vista in “The Reader” con Kate Winslet, interpreta la (struggente) storia vera dell’ebrea tedesca Gretel Bergmann.

doraUn prodigio del salto in alto che però, subito dopo l’avvento di Hitler, viene costretta ad abbandonare la natale Germania. È il 1933 e la diciannovenne Gretel si rifugia in Inghilterra. Dove continua a raggranellare record nazionali nel salto in alto.
Ma ecco che gli americani fanno pressione sui tedeschi. Alle Olimpiadi di Berlino 1936, vetrina della superiorità fisica ariana secondo i piani di Hitler, gli Stati Uniti chiedono espressamente ai tedeschi di inserire nelle loro squadre atleti di origine ebraica. Pena il boicottaggio dei Giochi. Il Führer allora decide di non rischiare. Anche perché nelle precedenti Olimpiadi di Los Angeles gli americani hanno stravinto con 103 medaglie – contro le sole 20 dei tedeschi. Dimostrare la “superiorità ariana” senza gli Usa sarebbe patetico. E così nel 1935 la Bergmann viene reintegrata nella squadra nazista. Gretel si allena strenuamente e nell’ultimo mese eguaglia anche il record tedesco nel salto in alto (1,60 m). Una medaglia alle Olimpiadi sembra assicurata.
Il mendace meccanismo si inceppa però sul più bello. I tedeschi, dopo aver illuso gli americani, danno un clamoroso benservito alla Bergmann, perché “non soddisfatti” delle potenzialità mostrate in allenamento. Il tutto a due settimane dall’inizio dei Giochi. Gretel emigra, stavolta per sempre, a New York.
La sua sostituta sarà la compagna di stanza Dora Ratjen. Un’atleta dagli atteggiamenti spesso insoliti. “Quando facevamo la doccia tutte assieme non si faceva vedere mai nuda”, ricorda proprio la 95enne Bergmann in un’intervista recentemente concessa allo “Spiegel”. “C’era una porticina con un bagnetto, dove solo Dora poteva entrare. 'Che strano' pensavamo tutte. Ma non avrei mai immaginato quello che poi ho scoperto dopo molti anni”.
E cioè che Dora, che a Berlino 1936 arriverà quarta, è in realtà un uomo. Molte atlete lo sospettavano. Ma la conferma definitiva arriverà solo due anni dopo. Quando alla stazione di Magdeburgo, di ritorno dagli Europei di Vienna del 1938 – dove ha appena infranto il record mondiale del salto in alto – la Ratjen viene notata da due donne. “Dora”, vero nome Hermann, ha sì la gonna, ma anche quell’accenno di barbetta incolta che gli inglesi chiamano “delle 5 del pomeriggio”. Arrivano medico e polizia e la carriera sportiva di Hermann “Dora” termina miseramente, costituendo l’unico caso accertato di frode sessuale alle Olimpiadi moderne.
“Io invece l’ho scoperto solo nel 1966, dal dentista, mentre leggevo il Time”, dichiara la defraudata Bergmann. Dora-Hermann verrà allo scoperto nel 1957, dichiarando alla stampa come fu “costretto” dai nazisti a travestirsi da donna. Da quel momento, si sa che ha fatto il cameriere ad Amburgo e Brema. Poi quasi più nulla, sino alla morte il 22 aprile 2008.
La Bergmann invece farà di tutto per dimenticare la Germania. Non vi tornerà più sino al 1999 quando, quasi controvoglia, sarà nella città natale di Laupheim per presenziare alla cerimonia di uno stadio locale, a lei intitolato. Ma Gretel avrà dimenticato la sua madrelingua. E per parlare con i suoi (ex) connazionali chiederà un interprete.

Antonello Guerrera



Qui Roma -  Musica, canti yiddish e tanti amici
nella serata in ricordo di Alberto Nirenstein


alberto nirenstein Un invito a conoscere e a studiare la Resistenza ebraica è stato lanciato dal Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici in occasione della serata dedicata alla memoria di Alberto Nirenstein, giornalista, scrittore, combattente per la libertà, un uomo che seppe non soltanto credere in un ideale, ma anche combattere per questo e per le proprie idee.
Alla serata dedicata ad Alberto Nirenstein, hanno preso parte lo psicologo e direttore del Master in didattica della Shoah David Meghnagi, Ernesto Galli della Loggia editorialista del Corriere della Sera e professore Ordinario di Storia Contemporanea e il giornalista Luciano Tas.
Fra il pubblico seduto in sala era presente ovviamente la famiglia di Alberto Nirestein, le figlie Fiamma (giornalista e deputata del Pdl), Susanna (giornalista per La Repubblica), Simona musicista e musicoterapeuta, e la moglie Wanda Lattes oltre che Olga D’Antona (deputata del Pd).
La serata organizzata dal Master internazionale di didattica sulla Shoah,che ha raccolto studenti arrivati da ogni parte di Italia, e dal Centro di Cultura Ebraica, ha ripercorso non soltanto la storia personale avventurosa e appassionante di Alberto Nirenstein, ma anche, attraverso musiche e letture, la sua carriera di scrittore e le sue passioni. I canti in yiddish eseguiti da Miriam Meghnagi, hanno rievocato la lingua natale di Alberto Nirenstein oltre che la cultura di un mondo scomparso, quella dello shetl polacco in cui era nato a Baranow nel 1915, con il quale l’unico legame possibile a seguito della distruzione nazista era quello nostalgico.
Come sottolineato da David Meghnagi, Alberto Nirestein fu uno storico antesignano della ricerca sulla Shoah, ma di una ricerca condotta sul campo, caratterizzata da un forte pathos. Basti ricordare il più importante degli scritti storiografici di Alberto Nirestein “Ricorda cosa ti ha fatto Amalek” in cui la ricostruzione storiografica si fonde con l’imperativo 'ricorda' della tradizione ebraica,divenendo un dovere morale.
Della sua prosa Meghnagi ha sottolineato la capacità semantica, la ricchezza apportata nel linguaggio dalla contaminazione linguistica, dalla sovrapposizione fra la lingua polacca natia, lo yiddish e la la lungua italiana ospitante. Tutto ciò conferiva alla sua prosa una inconfondibile polisemia.
Ed effettivamente ascoltando la lettura di brani tratti dai suoi libri si resta sorpresi dalla capacità di descrivere l’atrocità mischiando la durezza realista dell’orrore e la compassione.
La moglie Wanda Lattes, che conobbe Alberto Nirenstein a Firenze quando quest'ultimo si arruolò nella Brigata Ebraica risalendo l’Italia per combattere i nazisti dopo lo sbarco avvenuto a Salerno, ha sottolineato la sua capacità di storico della Shoah, mai abbastanza riconosciuta. Ricordando di come negli anni '60, tutto ciò che oggi sembra acquisito nella didattica del ricordo e del racconto della Shoah, in realtà fu allora il frutto di una ricerca pionieristica, fra l’altro condotta sulle fonti direttamente a Varsavia, dove Alberto Nirenstein fu tenuto prigioniero per 4 anni dopo la fine della guerra, quando vi tornò per raccogliere documenti. Proprio a Varsavia, Alberto Nirestein potè guardare in faccia la catastrofe nelle rovine del ghetto e ricercare piani di trasporto Hitleriani, i documenti della resistenza ebraica e delle cariche politiche cittadine che collaborarono con i nazisti.
Sia Ernesto Galli della Loggia che Luciano Tas hanno sottolineato tratti del carattere di questo studioso fuori dalle convenzioni, ricordandone la vita avventurosa, la fuga dalla Polonia occupata dai nazisti e l’arrivo nella Palestina del Mandato britannico fino all’arruolamento alla Brigata Ebraica.

Daniele Ascarelli
 
 
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  The big KahnFumetto - The big Kahn di Neil Kleid
e Nicholas Cinquegrani


Nuova graphic novel per Neil Kleid un autore statunitense molto prolifico, come si può ben leggere nel suo sito web, con collaborazioni con Marvel, Dark Horse, Image Comics. 
The big Kahn è una storia particolarmente drammatica e triste. Durante il funerale di un Rabbino, un uomo si presenta e rivela che il defunto non è ebreo. Fu un inganno ideato decenni prima, doveva essere una truffa, ma l’uomo si innamora di una ragazza ebrea ed ecco il pasticcio fatto. Si sposano, lui studia e diventa il Rabbino della comunità.
Tutto ciò che il padre ha insegnato ai tre figli viene messo in dubbio, uno dei quali è anche un giovane Rabbino. Ognuno di loro si confronta con il suo mondo. La figlia è una ribelle, che rifiuta in qualche modo le sue origini ebraiche, ma nello stesso tempo ha i ricordi più dolci e belli del padre. L’uomo appare sempre presente, vicino alla figlia, insegnandole le parole del Signore.

The big Kahn 1Il figlio più piccolo eredita dal padre una scatola dove sono conservati tutti i segreti dell’inganno, giochi di carte, trucchi da prestigiatore. Il ragazzo cerca di applicare quei trucchi, ma gli manca l’esperienza.
Il primogenito si trova nel panico, commette i peccati classici in queste situazioni di sbandamento: dubita del Signore, si ubriaca e pratica sesso prima del matrimonio. Il giovane uomo è sconvolto, il fatto che il padre abbia mentito va a scuotere le fondamenta della sua educazione religiosa, del suo ruolo di figlio, fratello e uomo.
La parola che Kleid ripete più frequentemente è “mentire”, il figlio dice che mentre insegnava la verità, il padre mentiva. Il giovane Eli scioglierà il suo nodo, i suoi dubbi? Riuscirà a risolvere il dilemma del confine tra la menzogna del padre e le fondamenta della sua formazione religiosa? Può la figura di un padre essere così importante da scuotere anche i pilastri formativi della propria fede?
Sembra di si, ci dice Kleid. Questo fumetto ci scuote per i suoi temi drammatici, ci stimola alla riflessione su quali basi si fondano i nostri valori e quanto sia importante la figura dei genitori, non solo nella formazione di uomini e donne, ma nel sorreggere le strade su cui percorriamo la nostra vita.

Per ora pubblicato negli Stati Uniti da ComicsLit della NBM di New York, lo trovate su www.amazon.com

Andrea Grilli
 
 
 
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rassegna stampa    
 
 
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Più che notizie la rassegna stampa di oggi ha a che fare con ritagli di notizie, fatterelli e eventi minori che non si impongono al lettore per una qualche priorità o prevalenza. Facendo un piccolo esercizio di orgoglio nazionale (che non vuole però essere campanilismo, sia ben chiaro) ed evitando di assumere ancora una volta lo stereotipo offertoci dal cinismo, del quale non facciamo mai difetto, nutrendo un bassissimo grado di autoconsiderazione, rimandiamo invece a quegli articoli che raccontano del capitale di credibilità che la nostra missione militare presso l’Unifil nel Libano meridionale, ha costruito e quindi raccolto, soprattutto in Israele, dove i complimenti non sono certo difettati nei confronti dei nostri 2.400 militari, attualmente ancora impegnati in quell’area. Così Gianandrea Gaiani per il Foglio, Fausto Biloslavo sempre sulla medesima testata, ma anche Fabrizio Battistelli per il Corriere della Sera, Alberto Stabile per la Repubblica, Carlo Marroni per il Sole 24 Ore, Andrea Colombo per Libero, Umberto De Giovannangeli per l’Unità, ma anche il Giornale così come il Messaggero. Possiamo andarne legittimamente fieri, insomma. La questione dell’altrui stima è emersa, non a caso, in tempi di avvicendamento, quando al comando italiano dovrebbe presto succedere quello spagnolo. Una telefonata del premier israeliano Benjamin Netanyahu a quello italiano Berlusconi, nel corso della quale il primo pare abbia chiesto al secondo di prolungare di sei mesi la presenza italiana ai vertici Unifil, ha creato tensioni a Madrid ma ha rivelato l’importanza decisiva di una saggia gestione di quel territorio, quando posto sotto la propria giurisdizione. L’azione dei nostri militari ha puntato a una mediazione ragionata e non a un perdente scontro frontale. D’altro canto, se così non fosse stato, in tutta probabilità, oggi dovremmo piangere i nostri morti anche su quel teatro conflittuale. Il comandante, il generale Claudio Graziani, sa sommare alle doti che sono richieste ad un professionista in campo militare l’intelligenza e l’equilibrio di chi ha piena coscienza del fatto che le armi sono senz’altro una importante risorsa ma solo l’ultima e la più estrema alla quale fare ricorso. Più in generale, noi e i contingenti degli altri paesi che partecipano alle attività di «peace keeping» e «peace enforcing», svolta in luoghi martoriati da decenni di guerra civile, abbiamo il fondamentale ruolo di esportare un modello di convivenza possibile. Non si tratta, sia ben chiaro, dell’ennesimo esercizio retorico sui buoni sentimenti, che da sé nulla ottiene né – tanto meno -  riesce a garantire sul lungo periodo, ma la necessaria attenzione per tutti quei passi politici (e di intelligence) che dovrebbero accompagnare ogni missione militare all’esterno. Per gli italiani, che hanno oramai una quasi trentennale esperienza nel paese dei cedri, si tratta ancora di una conferma nei confronti di una linea di condotta che si è quasi sempre ispirata a questi presupposti. Non è questione di cautela bensì di intelligenza. Voltiamo pagina, anche se i temi rimangono quelli legati al Medio Oriente. Si evidenzia, tra i diversi articoli, l’intervista che Lally Weymouth ha fatto al premier israeliano Benjamin Netanyahu, pubblicata in Italia su l’Espresso ma ripresa da Newsweek. I temi dell’agenda del primo ministro sono tutto fuorché inediti: la minaccia nucleare iraniana, sulla quale si soffermano oggi Tatiana Boutourline per il Foglio, Anna Momigliano su il Riformista, e con giudizi molto diversi, Maurizio Stefanini per Libero e Tiziana Barrucci su Gli Altri, non meno della creazione di uno Stato palestinese, costituiscono l’orizzonte di Gerusalemme, al quale deve necessariamente volgere lo sguardo, domandandosi quali possano essere le migliori mosse dinanzi all’incertezza del divenire. In realtà, tra le pieghe del discorso del primo ministro, si coglie la difficoltà che l’attuale esecutivo israeliano ha di intrattenere rapporti profittevoli con l’amministrazione americana. Se fino al tardo autunno dell’anno scorso, quando ancora era in carica George W. Bush, le vedute del primo era quasi pienamente collimanti con quelle della seconda, traducendosi in una unione di intenti che aveva permesso ad Israele di far valere le sue ragioni, oggi il margine di perplessità, che si è fatto sempre più corposo, pare dominare la scena. Diplomaticamente Netanyahu si chiama fuori dall’inevitabile tentativo della giornalista di raccogliere un qualche chiaro malumore ma è certo, se si intende leggere tra le righe delle altrui affermazioni, che la cautela lessicale indichi un mutamento nei rapporti. Peraltro, una «dottrina Obama» per il Medio Oriente fatica ad affermarsi. Al momento sembra prevalere, quanto meno sul piano delle relazioni diplomatiche, una sorta di standby, in attesa che il tempo si incarichi di definire le reali priorità. L’affettuosa intesa degli anni trascorsi è venuta meno, subentrando una sorta di reciprocità fredda, dettata anche dall’apparente stallo dell’iniziativa politica in tutta la regione. Il quale non è dettato tanto dalla volontà (o dall’assenza di volontà) degli americani ma, tra le altre cose, dalla obiettiva difficoltà ad identificare degli interlocutori credibili sia in caso palestinese che in quello iraniano. Dai tempi della diplomazia kissingeriana, quella dello «step-by-step», ad oggi il riuscire ad incidere politicamente sul Medio Oriente è stato per Washington un elemento peraltro premiante, ancorché problematico. Fino agli anni precedenti a Nixon la realtà regionale era stata trascurata, essendo altri i nodi maggiormente critici e le emergenze, a partire dal sud-est asiatico. L’attenzione per quel che avveniva nel Mediterraneo orientale è poi andata lievitando soprattutto con la guerra dello Yom Kippur, nel 1973, e il conseguente «shock petrolifero». Da allora, sia pure con fasi alterne, i conflitti in corso nell’area, a partire da quello israelo-palestinese, hanno assunto una centralità precedentemente inesistente. Per la verità una lettura frettolosa – e meramente ideologica - del legame tra Gerusalemme e Washington ha indotto certuni, soprattutto i detrattori dell’uno come dell’altro paese, ad affermare che esso fosse fondato sulla dipendenza totale, quasi una soggezione permanente, di un soggetto dall’altro. Per quanti si riconoscono nell’”interpretazione” che vede Israele come il prodotto del “neocolonialismo americano”, massima è quindi l’enfatizzazione del nesso che legherebbe lo Stato degli ebrei agli Stati Uniti, essendone una sorta di lunga mano, istituita alla bisogna, per garantire la tutela degli interessi americani in una regione petrolifera, ovvero strategica per la produzione e il commercio dell’energia. Per coloro che invece ribaltano il rapporto, sarebbero gli statunitensi a dipendere dagli israeliani, i quali letteralmente manipolerebbero la politica estera della superopotenza a proprio diretto benefico, riuscendo ad influenzare direttamente le scelte di Washington. In realtà né l’una né l’altra ipotesi hanno una qualche grado di fondamento, se lette come in sé esaustive dello spettro variegato di ruoli e condotte. La politica americana verso Gerusalemme, e in Medio Oriente, pur vantando anche momenti di«special relationship», che è andata confermandosi dagli anni di Ronald Reagan in poi, è sempre stata il prodotto di posizioni articolate se non contrapposte. La tradizionale diarchia in politica estera tra presidenza (in genere più sensibile a Israele) e Dipartimento di Stato (proclive ad accogliere le istanze provenienti dal mondo arabo), spesso trascesa in conflitto di interessi e interpretazioni, rimane quindi la nota dominate nella formulazione della politica mediterranea di Washington. Anche da come verrà risolta da Obama questa differenza competitiva tra due fondamentali istituzioni della politica americana dipendono – quindi - gli indirizzi di fondo degli Stati Uniti verso uno scenario complesso, nel quale l’apparente inerzialità dell’azione politica non implica che, carsicamente, qualcosa non stia trasformandosi.

Claudio Vercelli

 
 
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Per Cossiga mani libere a Israele nei confronti dell'Iran               
Tel Aviv, 30 ott -
Il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, in una intervista pubblicata dal giornale Yediot Ahronot di Tel Aviv, sostiene che Israele dovrebbe avere le mani libere sullo spinoso dossier nucleare di Teheran e poter decidere da solo un eventuale attacco preventivo contro obiettivi iraniani. "Le grandi potenze possono continuare il loro dialogo con l'Iran, ma non devono intralciare Israele nella progettazione di un intervento militare", ha detto Cossiga. "Se io fossi il premier israeliano attaccherei, certo", ha poi aggiunto rispondendo a una domanda precisa di Nahum Barnea, una delle maggiori firme di Yediot Ahronot. A giudizio dell'ex presidente, del resto, "consentire a Israele di distruggere fino alla fondamenta le installazioni nucleari iraniane sarebbe il modo per prevenire un grande conflitto in Medio Oriente". 
 
 
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