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L'Unione informa |
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2 novembre 2009 15 Cheshwan 5770 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
La promessa divina ad Abramo è di farlo diventare "un grande popolo" (goi gadol). A parte l'ironia dell'evoluzione linguistica, per cui goi
è passato ad indicare qualsiasi popolo diverso da quello ebraico, c'è
da chiedersi cosa significhi essere grande. La tentazione è di
identificare il concetto di grandezza con la quantità: quanto più
numeroso, tanto più grande. I paragoni con le stelle e i granelli di
sabbia innumerevoli sembrerebbero confermare questa lettura. Ma tutta
la storia ebraica va in direzione opposta, il numero è contato sempre
poco. Abramo fa per il figlio svezzato "una grande festa" (mishtè gadol).
Rashì commenta che era grande per la qualità degli invitati, non per la
quantità degli ospiti o delle portate. Insomma, c'è grandezza e
grandezza. |
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La
notizia dell'arresto da parte dello Shin Bet di Jaacov Teitel, che
sarebbe l'autore di numerosi attentati in Israele, fra cui quello allo
storico Zeev Sterhell, è senz'altro una buona notizia. Ma il profilo di
questo terrorista è inquietante. Teitel, ebreo americano stabilitosi
nella colonia di Shvut Rachel in Cisgiordania, sarebbe l'autore
dell'assassinio di un tassista palestinese a Gerusalemme nel 1997 e di
un pastore palestinese ad Hebron. Successivamente avrebbe compiuto
quattro attentati dinamitardi: contro un convento cristiano, contro una
famiglia di ebrei messianici, contro una stazione di polizia, e contro
Sternhell. Un fondamentalista, certo, per nulla diverso dai kamikaze
islamici. Ma anche un personaggio fuori di testa. Il suo avvocato ha
chiesto una perizia psichiatrica, i suoi vicini dicono che faceva vita
isolata, la motivazione che sembra abbia dato dell'attentato contro il
convento è che i cristiano rubano le anime degli ebrei. C'è del metodo,
potremmo dire, nella sua follia. E qual'è la differenza, in questi
casi, tra follia e ideologia? Speriamo almeno che nessuno ne faccia un
martire e un santo, come è successo con Baruch Goldstein, con Yigal
Amir, e con quanti, portando avanti con determinazione la loro metodica
"follia", hanno causato guasti incalcolabili alla vita di Israele. |
Anna Foa,
storica |
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C'è posta per noi. Ma questa volta è fasulla
Fioccano
lettere sulle redazioni della stampa ebraica italiana. E il fenomeno di
per sé non dovrebbe destare stupore né preoccupazione. Ma le missive
che ormai con cadenza regolare e ritmo crescente pervengono in queste
ore hanno tutte un'impronta comune. Sulle prime si potrebbero
liquidare come appartenenti a quella nutrita categoria di messaggi che
i frustrati solitari talvolta spediscono nella vana attesa di un attimo
di notorietà. Quelle lettere che quando sfuggono a una revisione
attenta e finiscono in pagina si traducono in una catastrofica
figuraccia dei redattori ingenui che le prendono per buone. Distruggono
l'autorevolezza delle testate che cadono nella trappola. E portano
talvolta a una querela. Dicerie, veleni, pretese rivelazioni di fatti
personali risaputi e riferiti ad arte in maniera distorta,
paccottiglia, stupidaggini tese a offendere persone e intelligenze. Fin
qui niente di nuovo. Di robaccia destinata al cestino delle redazioni
che si rispettano se n'è già vista parecchia. Quello che rende invece la situazione attuale degna di segnalazione al lettore e agli organi competenti è ben altro. Qualche
verifica ha consentito di inquadrare meglio la situazione e di mettere
assieme notizie interessanti sugli autori delle missive. Certo,
i mittenti si esprimono esclusivamente utilizzando la posta
elettronica, che garantisce (o almeno così loro sperano) la migliore
delle coperture. Certo, i nomi d'arte utilizzati per le firme risultano
talvolta scippati a persone reali del tutto ignare dell'accaduto e
altre volte creati a tavolino sulla base di una sembianza di
veridicità. Certo, i mittenti di posta elettronica appartengono tutti
alla stessa categoria di webmail. Sono indirizzi che ognuno può
facilmente formare da casa propria, utilizzando generalità di fantasia.
Certo, tutti gli scriventi, una volta contattati con una garbata
risposta interlocutoria, finiscono per dileguarsi e non accettano di
uscire dall'ombra. Certo, a una attenta analisi dei testi delle missive
la coincidenza del vocabolario, la maniera di esprimersi, persino le
imperfezioni lessicali o l'uso della punteggiatura, riportano a
un'unica mano, a un'unica mente contorta. Certo, la delirante
intenzionalità di malevolenze oblique e infondate fa pensare a un unico
tavolo di regia, a qualcuno che spera di gettare discredito, di
sollevare polveroni, di buttare in rissa problemi e argomenti, di
scatenare il caos. Perché tutto questo? Ognuno è libero di
trarre le proprie deduzioni e i giornalisti che volessero veder chiaro
in questa vicenda hanno ancora parecchio da scoprire. Alla redazione
preme intanto sottolineare che chi cerca di disseminare falsità e
disinformazione e chi pretende di strumentalizzare o di intimidire a
questo fine le testate di informazione degli ebrei italiani perde il
proprio tempo e dovrà assumersi l'intera responsabilità del proprio
operato.
gv
Qui Milano - Un nuovo Consiglio per l’Ugei
Il
2010 si prospetta un anno pieno di novità per l’Unione Giovani Ebrei
d’Italia. Un Congresso più che vivace ha espresso un Consiglio in buona
parte rinnovato in cui emerge chiaramente la forte volontà dei giovani
della Comunità ebraica di Roma di assumere un ruolo da protagonisti
all’interno dell’organizzazione. Di Roma sono infatti cinque dei nove
consiglieri eletti, di cui tre alla prima esperienza, David Pavoncello, Edoardo Amati e Daniel Funaro e due già presenti nel Consiglio dello scorso anno. Sono Giuseppe Piperno, che ha ottenuto il maggior numero di preferenze, romano, ma studente all’Università Bocconi di Milano e il tesoriere Federico Raccah. Del Consiglio 2009 rimangono poi le milanesi Tana Abeni,
acclamatissima organizzatrice della Wing, il campeggio invernale
dell’Ugei, che già da tre anni attira un numero sempre crescente di
giovani dall’Italia e da tutta l’Europa, e Giuditta Bassous, oltre alla torinese Amalia Luzzati, unica esponente di una piccola comunità insieme a Benedetto Sacerdoti, padovano che però al momento vive a Roma. Un
Consiglio sicuramente più eterogeneo rispetto a quelli precedenti,
espressione di una base elettorale straordinariamente ampia, quasi 150
votanti. I lavori congressuali hanno prodotto più di venticinque
mozioni approvate prima di procedere al rinnovamento del Consiglio, in
un dibattito dai toni a volte eccessivi, ma sicuramente segno di una
grandissima vitalità e entusiasmo da parte dell’ebraismo giovanile. Il
Consiglio 2010 dovrà portare avanti un super lavoro per rispettare
tutti gli incarichi che il Congresso gli ha conferito. Questi vanno dal
rafforzamento dell’identità ebraica dell’Ugei, a parere dei più troppo
trascurata in passato, al mantenere continuità con la linea politica
degli ultimi anni attraverso iniziative per la difesa dei diritti umani
e dell’integrazione delle minoranze, ma anche per tenere alta
l’attenzione sul caso di Gilad Shalit (bella l’unanimità con cui è
passata la mozione, una delle poche) e per diffondere negli ambienti
giovanili italiani un’immagine diversa di Israele. Non è stato
trascurato poi l’aspetto economico con proposte per reperire maggiori
finanziamenti, né l’attività dei Gruppi locali nelle piccole Comunità,
ma anche a Milano e Roma, con l’idea di creare sinergie con le altre
organizzazioni ebraiche che si occupano del mondo giovanile. Da
segnalare anche i molti progetti sul fronte della cultura, compresa la
creazione di una Commissione ad hoc, e sul rinnovamento dei mezzi di
comunicazione dell’Ugei. Dato fondamentale è stata poi
l’approvazione, con la necessaria maggioranza qualificata di oltre
sessanta voti, di una mozione che dà mandato al Consiglio 2010 di
istituire una Commissione per elaborare una proposta di modifica dello
Statuto, percepito un po’ da tutti come desueto, e di convocare entro i
prossimi dieci mesi un Congresso straordinario per discuterne. L’Unione
Giovani Ebrei d’Italia conferma la sua capacità di esprimere le voci
dell’ebraismo giovanile italiano in tutte le sue sfaccettature e
provenienze. Nei prossimi giorni i nuovi consiglieri, a cui va
un grande augurio di buon lavoro, si riuniranno per assegnare i vari
incarichi e soprattutto per eleggere al proprio interno il nuovo
presidente Ugei, che sostituirà Daniele Nahum il quale, dopo tre anni
di presidenza, ha scelto di non ricandidarsi. Rossella Tercatin
Qui Roma - Pacifico Di Consiglio, il ricordo di un eroe del Ghetto
Posti in piedi nel cortile del Palazzo della Cultura, al Portico d'Ottavia, per assistere alla presentazione de Il Ribelle del ghetto
libro che racconta la storia di Pacifico Di Consiglio, detto
Moretto, attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto, a cura del
giornalista e scrittore Maurizio Molinari e del figlio Alberto di Consiglio. A
fianco al maxischermo, su cui son stati proiettati cinque spezzoni
dell’intervista rilasciata da Moretto alla Shoah Fondation nel 1998,
due bandiere di Israele, così care al protagonista del video, tanto da
desiderare che una bandiera israeliana fosse sepolta insieme a lui. Un
eroe e un punto di riferimento per tanti Moretto perché anche negli
anni cupi della guerra e delle leggi razziste, non ha rinunciato a
tener la testa alta, a combattere per la propria identità con orgoglio,
non sottostando ai soprusi. Scelse invece, già negli anni Trenta, di
dedicarsi alla boxe per esser in grado di rispondere alle offese, colpo
su colpo, come fece con il fascista che gli chiedeva l’umiliazione del
saluto a mano a via Arenula. Come ha detto lo storico Marcello Pezzetti,
Moretto è stato il simbolo di una resistenza ebraica particolare,
tipica di una prima fase del conflitto, quando ancora non erano chiari
i programmi di sterminio nazisti. Lo storico l’ha definita resistenza
“civile”, di autodifesa, legata prima di tutto al desiderio di evitare
l’umiliazione e i soprusi. Secondo il capo rabbino di Roma, rav Riccardo Di Segni,
questa scelta è soltanto apparentemente anticonformista perché si
inserisce in uno schema di comportamento ebraico tradizionale che vede
i suoi simboli nella figura di Giosuè e della rivolta dei Maccabei ed è
improntato alla difesa della propria identità e alla reazione fisica. Nei
video proiettati Moretto racconta gli ultimi anni della guerra quando,
salvatosi dal rastrellamento e dalla deportazione del 16 ottobre
del 1943, torna a Roma e cerca di contattare la Resistenza iscrivendosi
nel Partito d’Azione. Sono vicende avventurose, arrestato,
riesce a evadere dalla caserma PAI in Piazza Farnese gettandosi dalla
finestra. Denunciato e tradito quando cerca di contattare la
Resistenza, viene invece recluso a Regina Coeli in attesa della
deportazione, che evita gettandosi dal camion in corsa. Inizia quindi una seconda fase, in cui Moretto, come sottolineato da Marcello Pezzetti
è cosciente di combattere non solo per la propria dignità ma per la sua
vita, una nuova forma di resistenza ebraica proporzionata al pericolo,
purtroppo dovendosi difendere non soltanto dai nazisti ma anche da chi
collaborò con loro denunciando gli ebrei, magari soltanto per denaro. E
purtroppo furono circa 2 mila gli arresti avvenuti per la denuncia di
delatori. L’ultimo spezzone di video ha raccontato invece una
vicenda successiva, gli anni che seguono la Seconda Guerra Mondiale,
quando in “piazza” iniziano le scorribande di gruppi fascisti, che non
soltanto non si vergognano per il contegno tenuto nel corso della
guerra ma cercano vendetta. Sarebbe infatti ingenuo pensare che decenni
di educazione all'odio razziale potessero esser cancellati dall’arrivo
e dalla liberazione da parte degli Alleati. Fu allora necessario
organizzare un gruppo di autodifesa ebraico, composto da
volontari, e Moretto ne fu la mente, con la sua capacità
organizzativa e capacità naturale di leadership che aveva conquistato
sul campo. Proprio di questi anni ha parlato Renzo Gattegna,
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e grande amico
di Moretto, che insieme a lui organizzò agli inizi degli anni 70 i
turni di sorveglianza per le scuole, il tempio e le istituzioni
ebraiche per evitare che potessero esser colpite o danneggiate. Gattegna
ha ricordato non soltanto l’umiltà dell'uomo, ma anche la sua capacità
naturale di leader, affermando: “Ciò che i consigli comunitari
decidevano sulla carta lui sapeva realizzarlo sul campo, sapeva
comprendere la portata e gli effetti di ciò che faceva”. Ma
soprattutto ha ricordato il suo lavoro di coesione all’interno della
Comunità per superare le divisioni, anche sociali interne, lavoro che
fu tanto importante quando si trattò di accogliere gli ebrei che
arrivavano dalla Libia. Riccardo Pacifici nel ringraziare e salutare Bice Migliau
che con questo evento conclude la sua esperienza lavorativa nel Centro
di Cultura Ebraica da lei fondato e diretto per quaranta anni, si è
interrogato sulla differenza fra il passato e il presente, sulla
maggiore reattività delle Istituzioni nella difesa della Comunità,
certamente positiva, ma che rischia di fare considerare acquisite
certe conquiste alle nuove generazioni che non devono lottare per esse.
Per questo nel libro proprio Riccardo Pacifici ricorda che quando lo
andarono a trovare, oramai negli ultimi giorni della sua vita,
Moretto gli lasciò un insegnamento “continuate a fare bavelle (a
protestare)”, ed era un invito a non dare per scontate le conquiste
ottenute, a combattere sempre, come lui aveva fatto nel corso della sua
vita.
Daniele Ascarelli |
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Dire “tu”
La parola ebraica attàh, “Tu”, scandisce la preghiera e ritma le benedizioni, facendo seguito immediatamente a Barùkh (“Benedetto sei Tu…”). Anche una parola apparentemente semplice come attàh
non è priva di significati teologici e richiede una particolare
attenzione. Le prime due lettere di attàh sono alef e tav. Queste due
lettere sono anche la prima e l’ultima dell’alfabeto ebraico; segnano
dunque l’inizio e la fine e perciò - come insegnano i maestri della
tradizione qabbalistica - rappresentano l’intera Creazione. Tutto ciò
che è stato, è e sarà, accade attraverso le lettere alef e tav, ne
porta il sigillo. Ma messe l’una accanto all’altra le due lettere danno
et, la particella usata in
ebraico per il complemento oggetto. In breve: alef e tav da sole si
riferiscono al mondo trattandolo come un oggetto. Tutto resterebbe
inanimato se in attàh non ci fosse la terza lettera, la he, quasi solo un soffio, che rinvia al Nome di D-o. La he finale è l’anima della parola attàh, è il soffio che, mentre diciamo attàh,
“Tu”, ci porta all’esterno, ci fa uscire dal nostro sé, ci congiunge
con l’Altro e segna così anche il passaggio dal rapporto con l’oggetto
inanimato a quello con un altro soggetto o, meglio, con il Tu. Questo vuol dire che attàh
è una parola sacra. Nel Tu, che rivolgiamo quotidianamente agli altri,
risuona il “Tu eterno” che rivolgiamo a D-o nella preghiera. Nel Tu di
ogni frase quotidiana c’è un frammento nascosto di preghiera. Dire Tu
non è pronunciare una parola qualsiasi; ma significa far riecheggiare
il soffio del vocativo assoluto con cui possiamo dire “io” riconoscendo
l’altro come “tu”. È la riflessione sulla parola ebraica attàh,
di uso comune nell’ebraico moderno, ad aver spinto Martin Buber nel suo
famoso saggio Io e tu, a fare di questa parola ebraica un’esperienza
universale.
Donatella Di Cesare, filosofa
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rassegna stampa |
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Nella
scarsa rassegna stampa di oggi trova posto un tema: l'annuncio
dell'autorità palestinese di non voler aprire le trattative con Israele
nonostante gli appelli di parte americana, in quanto Israele non
accetta la precondizione del blocco totale dell'attività edilizia negli
insediamenti, compresa Gerusalemme Est. C'è stato una modifica
importante nella situazione negoziale: mentre sei mesi fa sembrava che
a rifiutare la trattativa e a ostacolare fossero gli israeliani, ora
Hillary Clinton a nome dell'amministrazione americana riconosce che il
governo israeliano collabora ai tentativi di pacificare la regione,
mentre i palestinesi non lo fanno e ostacolano il processo. Questo è
letto dai palestinesi come un "tradimento" (Michele Giorgio sul Mattino, Eric Salerno sul Messaggero) e non è affatto gradito alla sinistra ideologica che sposa la "narrativa" palestinese, da Udg sull'Unità a Gideon Levi su Haaretz
di ieri) Per costoro, dato che Israele deve avere torto, sono gli
americani che tradiscono, rinunciano, addirittura "distruggono la
speranza" (L'Unità),
non sono più mediatori affidabili. La sola America buona è quella che
maltratta Israele, come vorrebbero i palestinesi e purtroppo anche la
sinistra ebraica in Israele e anche all'estero (è la teoria del "tough
love" dell'amore duro, sostenuta da J Street e da Haaretz. Il luogo in
cui questa teoria, secondo cui la colpa della mancanza della pace è
tutto di Israele, si legge in un articolo grondante odio antisraeliano
di Harry Stigman sullo Herald Tribune,
in cui viene fuori con impressionante chiarezza che la "colpa" non è
del governo o dello stato israeliano, ma del suo popolo, che "non vuole
la pace" perché è "patologicamente" spaventato dal suo futuro e dunque
andrebbe "affrontato" e "sfidato" con le cattive maniere dagli Stati
Uniti. Fra le altre notizie, da sottolineare solo quella del Secolo XIX
della cattura di un israeliano immigrato americano, colpevole di atti
di violenza verso i palestinesi: figura inquietante di patologia
mentale oltre che politica.
Ugo Volli |
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notizieflash |
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Yemen: ebrei sotto la minaccia di attivisti musulmani, gli Stati Uniti li mettono in salvano con una missione segreta Washington, 31 ott - Una
missione segreta per salvare la comunità ebraica dello Yemen è stata
organizzata dagli Stati Uniti. Gli ebrei della zona infatti sono
esposti a un aumento della violenza nei loro confronti da parte degli
attivisti musulmani. L'operazione di trasferimento, organizzata con
l'assenso del presidente yemenita Al Abdullah Saleh, ha portato al
trasporto a New York dal luglio scorso di almeno 60 membri della
comunità mentre altri 100 potrebbero raggiungerli nei mesi a venire. In
tutto nello Yemen erano rimasti questa estate circa 350 membri della
comunità ebraica, che vive nel paese da oltre 2500 anni, raccolti nei
due enclavi di Saada (nel nord) e Raida (al sud). Ma le minacce degli
attivisti musulmani hanno costretto la intera comunità ebraica di Saada
(60 persone) a trasferirsi nella capitale, dove vivono in condizioni
precarie. Gli Usa hanno offerto la possibilità agli ebrei dello Yemen
di trasferirsi in America, concedendo visti con lo status di
perseguitati ed organizzando i loro voli per il viaggio negli Stati
Uniti. La comunità ebraica, isolata per secoli, vive in condizioni di
arretratezza nello Yemen, spesso senza elettricità ed acqua nelle case.
Già negli anni 1949 e 1950 circa 50 mila ebrei vennero trasferiti dallo
Yemen a Israele con un ponte aereo battezzato Operazione Tappeto Magico. Ma circa 2000 ebrei restarono nello Yemen. La comunità è progressivamente diminuita. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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