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L'Unione informa |
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13 novembre 2009 26 Cheshwan 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
Diritti
del lavoratore. Rabbi Yisrael Lipkin (1810 - 1883), tra i più insigni
Maestri lituani del diciannovesimo secolo, vietò agli alunni della sua
scuola rabbinica di dilungarsi eccessivamente in canti e parole di Torà
durante i pasti sabbatici per permettere ai domestici non ebrei di
tornare in tempo nelle loro case e poter stare con la famiglia (chaiìm
sheièsh bahem). |
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A
Gerusalemme, il terrorista che ha ucciso due palestinesi, ha compiuto
vari attentati, tra cui quello a Ze'ev Sternhell, uno dei maggiori
storici del Paese, ed è anche sospettato di avere ucciso due
poliziotti, è stato rinviato a giudizio. "E' stato un piacere e un
onore servire il mio Dio", ha affermato davanti al tribunale, dopo aver
rivendicato i suoi atti. Mentre sui giornali israeliani si dibatte sui
suoi presunti rapporti con lo Shin Bet (l'idea del complotto infuria
anche in Israele, evidentemente!), qui il caso ha poco rilievo, è
liquidato come un atto di pazzia individuale. Ma non era un atto di
pazzia individuale anche quello di Baruch Goldstein quando sparò sui
palestinesi in preghiera ad Hebron? Non era un atto di follia
individuale quello di Yigal Amir, quando assassinò Rabin? Qual'è il
confine tra terrorismo e follia? Solo l'appartenenza ad
un'organizzazione? I kamikaze di Hamas sono terroristi (e
giustamente!), mentre i nostri terroristi, perché agiscono per
convinzione individuale, sarebbero solo dei pazzi? E il convincimento
di uccidere e morire per Dio non è altrettanto pericoloso, se non di
più, di un'organizzazione che ti mandi a farlo? Sottovalutare questi
atti e il clima di cui sono indizi non serve a difenderci dai nostri
nemici, ma ci impedisce di combattere il male che cresce
fra di noi. |
Anna Foa, storica |
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Noterelle - Ebrei e italiani, il cammino interrotto
Nei mesi estivi, quando il libro di Arrigo Levi, Un paese non basta,
(Il Mulino, 2009, pp. 293, euro 16) iniziava a circolare, si è aperta
in Italia una discussione sul centocinquantesimo anniversario
dell’Unità. Fin dal suo titolo il libro lascia intendere di avere le
carte in regola per essere utilmente adoperato da chi non si rassegna
all’idea che il tema debba essere relegato fra le chiacchiere da
spiaggia in vista delle manifestazioni del 2011. Un paese non basta
ha come punto di forza da un lato la memoria risorgimentale degli
antenati ebrei modenesi, che “cooperarono” (il verbo è di Croce) al
formarsi di una coscienza nazionale italiana; dall’altro lato è la
testimonianza della prima guerra d’indipendenza, che nel 1948
accompagnò il sorgere dello Stato d’Israele e vide fra i suoi
combattenti, nel deserto del Negev, un giovanissimo Arrigo Levi. Dal
taccuino di quei giorni lontani sono riprodotti nell’autobiografia
frammenti originali, che costituiscono uno dei punti letterariamente
più alti del testo. Per altri snodi, riferibili ad una storia più
vicina a noi, penso soprattutto al periodo travagliato della direzione
della “Stampa”, e del modo come essa ebbe a concludersi, il libro è
invece singolarmente laconico. Qui il filo conduttore è dato dalla
storia dell’idea di nazione e dalla memoria che essa può lasciare di
sé: mezzo secolo, nel caso di Israele; un secolo e mezzo, nel caso
dell’Unità d’Italia. Arrigo Levi, con intelligenza e lucidità,
ricostruisce la sua formazione culturale, legando la sua partenza per
Israele nel 1948 alla radice ottocentesca e romantica del Risorgimento
modenese, qui simbolicamente rappresentata dal suo concittadino Angelo
Usiglio, il “piccolo dolce Angelo”, come lo chiamava Mazzini. Leggendo
in estate i giornali, molti avranno ricavato la sensazione che la
discussione, concentrandosi sulla mancanza di progetti credibili, o
sulla lottizzazione del comitato di esperti, abbia eluso il problema
che Arrigo Levi pone invece al centro della sua vicenda personale. La
rimozione del Risorgimento, quello italiano e quello del primo
sionismo, è invece un (doppio) problema antico. Accanirsi contro chi,
come la Lega o i commentatori faziosi della tragedia mediorientale,
rinnegano il Risorgimento, o paragonano il sionismo a una forma di
razzismo, significa scambiare la causa con l’effetto. Nel
secondo dopoguerra la memoria del Risorgimento è stata rimossa,
pensando, con buoni motivi (ma non sempre), che il fascismo l’avesse
macchiata. Così, è calato il silenzio sulle origini socialiste dello
Stato d’Israele (documentabili dai primi pezzi giornalistici che Levi
inviò alla “Critica Sociale” di Ugo Guido Mondolfo nel 1948-‘49). Le
forze politiche dominanti dopo il 1945 erano eterodirette: il PCI
guardava a Mosca, la DC al Vaticano, la terza forza, cui Levi si
ricollega, è rimasta schiacciata in mezzo. Non si può dire che la
biografia di Cavour scritta da Rosario Romeo abbia avuto un successo
comparabile con altri classici della storiografia, marxista o
cattolica. E la politica estera della Destra storica ricostruita da
Federico Chabod, così come il binomio sionismo-mazzinianesimo - negli
anni degli ondeggiamenti medio-orientali andreottiani e delle
incursioni libiche in direzione della “Stampa”- erano due momenti
storici guardati con pari diffidenza, cautamente evitati. Dentro
l’ebraismo le cose non andavano meglio: il dibattito, per ovvie e
comprensibilissime ragioni, era telecomandato dalle guerre che Israele
ha dovuto combattere, la prima delle quali con l’apporto di giovani
italiani come Levi, non immemori del loro essere nipoti del
Risorgimento. Sebbene il libro contenga pagine serene e oneste
sulla scia di sangue nel “triangolo della morte”, l’esperienza della
lotta partigiana rimane un po’ nell’ombra nelle memorie di Levi, per
conseguenza del forzato suo esilio, durante il secondo conflitto
mondiale, in America Latina. E così l’analisi degli albori del
fascismo, a Modena e dentro la comunità, non tiene conto del fatto che
il regime di Mussolini spezzò fra gli ebrei italiani il nesso fra
Nazione e Libertà che il Risorgimento aveva istituito. Dentro lo stesso
ramo materno dei Donati non possiamo infatti sottovalutare il prologo intra moenia
della futura guerra civile fra italiani. Fra 1921 e 1922 la violenza
fascista a Modena aveva reso altissimo il livello della tensione:
scontri a fuoco, assalti a Camere del Lavoro, sedi del partito
socialista. Contro il deputato socialista ebreo Pio Donati, “lo zio
Pio”, si scaricarono desideri di vendetta. L’assalto al suo studio di
avvocato, di cui si parla a lungo nel libro, fu fermato dalle Guardie
che presidiavano la casa. Nella successiva sparatoria, su cui si
sorvola, un altro ebreo, che apparteneva agli assalitori, Duilio
Sinigaglia, 24 anni, morì insieme ad altri sette giovani. Tra 1921 e
1938, la memoria ebraica a Modena – al pari di tutta quanta la città –
è lacerata dalla stratificazione di quella ferita infracomunitaria. Pio
Donati incarnava la memoria dell’opposizione, ma ogni anno la tomba di
Sinigaglia era meta di pellegrinaggi dell’altra metà della comunità
cittadina. Con inevitabili paradossi, dopo il 1938 e ancora nel 1943. Queste
memorie sono oggi rivisitate con giusto distacco. L’eroe eponimo è
l’arcitrisavolo Nathan Nathan, da cui discende, per letterale
traduzione dall’ebraico, Donato Donati, che importò nel ducato un
cereale utile per sfamare i superstiti alla peste manzoniana. Levi si
serve di lui come una variante ducale del Nathan di Lessing, per volare
alto sopra il fascismo modenese e attingere alla saggezza di Giobbe
(1,21), che sul verbo “nathan” (“ha dato”) ha coniato un insegnamento
fondamentale: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto”. All’aura
sapienziale che tende a curare le ferite lontane, si sottrae soltanto
il tema politico della nazione: i problemi del neonato Stato d’Israele
non sono diversi da quelli che dovettero affrontare i primi governi
italiani dopo il 1861. Il ruolo che gli ebrei hanno avuto nel costruire
lo Stato italiano è fondamentale, il guaio è che oggi nessuno se ne
ricorda. E’ così potuto accadere che la tesi di Arnaldo Momigliano
sulla “nazionalizzazione parallela” di ebrei e italiani, che alcuni,
come chi scrive, si ostina a considerare convincente, sia caduta
rapidamente in disgrazia. Chi si è impegnato a demolire quella tesi,
oggi, di fronte alla “disgregazione parallela” che colpisce la società
italiana e insieme con essa molte comunità della penisola, leggendo le
prime pagine di questo libro, farebbe bene a ripensarci. Come gli
stessi modenesi rischiano di dimenticare di aver combattuto insieme ai
napoletani per diventare italiani, così tutti gli ebrei italiani
dovrebbero ritornare a riflettere sul loro essere diventati italiani
insieme ai napoletani e ai modenesi. Per chi a quella tesi rimane
affezionato, un libro come questo è motivo di conforto per cercare di
riprendere il cammino interrotto.
Alberto Cavaglion
Qui Roma - Il Maccabi vince sul campo di Lottomatica
Lottomatica Roma 90 - Maccabi Electra 92 Dopo
la doppia sfida tra Maccabi Haifa e Juventus, una squadra israeliana e
una squadra italiana sono tornate a confrontarsi su un campo di gioco.
Non più sul tappeto erboso di uno stadio di calcio, ma sul ben più
ruvido parquet di un palazzetto dello sport. Con un’ulteriore
differenza. Mentre nel football le compagini italiane, a meno di
clamorose disattenzioni, hanno generalmente la meglio, nel basket la
situazione si ribalta o quantomeno si riequilibra. E quando regna
l’incertezza, di solito se ne vedono delle belle. Come ieri sera,
quando al PalaLottomatica di Roma, impianto annoverato tra i
capolavori dell’architettura razionalista italiana, Lottomatica e
Maccabi Electra si sono sfidate in un match molto intenso e
emozionante, incerto sino alla fine. In palio c’era la leadership del
girone C dell’Eurolega, la Coppa Campioni della pallacanestro, e
nessuna delle due squadre voleva farsi sfuggire l’occasione di mettere
qualcosa più di un piede nella Top 16, seconda fase della competizione
alla quale accedono le migliori quattro classificate di ogni
raggruppamento. Così, per decretare un vincitore, sono stati necessari
cinque minuti supplementari, dopo che i tempi regolamentari si erano
conclusi sul risultato di parità (73-73). A rischiare maggiormente
la sconfitta, comunque, è stato il Maccabi. La Lottomatica, infatti, ha
giocato un’ottima partita e solo una tripla di negli ultimi secondi di
gioco di Wisniewski ha permesso agli israeliani di giocarsi la vittoria
nell’extra time. Eppure l’inizio di partita sembrava profilare una
serata più tranquilla per i tifosi del Maccabi, con il quintetto messo
in campo da Pini Gershon apparentemente in grado di bloccare le
incursioni dei pericolosi esterni romani e maggiormente propositivo
sotto canestro. Un’illusione, appunto. Il match, almeno nei primi venti
minuti di gioco, faceva infatti registrare un sostanziale equilibrio.
Il primo quarto si chiudeva in parità (17-17) e il secondo vedeva il
Maccabi lievemente in vantaggio (33-35), dopo un tentativo di fuga
(21-30) andato a vuoto. Poi, al ritorno in campo dopo l’intervallo,
spinta da quasi seimila tifosi, la Lottomatica prendeva in mano la
partita. I giocatori di casa, fino a quel momento un po’ imprecisi al
tiro, collezionavano un filotto di canestri da due e tre punti, con
Winston sugli scudi (4/7 dalla lunga distanza), che permetteva loro di
ribaltare il risultato (59-51). Otto punti di vantaggio, fattore campo
e solo dieci minuti al termine, i romani sembravano davvero vicini al
poker di vittorie consecutive in Eurolega (mentre per il Maccabi
si sarebbe trattata della seconda sconfitta stagionale). Ma qualcosa si
è inceppato nei meccanismi, fino a quel momento quasi perfetti, della
squadra di casa. Forse ha pesato la minore esperienza internazionale o
forse l’assenza di due titolari fondamentali come Datome e Vitali, sta
di fatto che il Maccabi, grazie anche ad un ottimo Alan Anderson
(saranno ventisette i punti realizzati alla fine) è riuscito a
pareggiare per il rotto della cuffia. Poi, nell’extra time, non senza
ulteriori emozioni, gli israeliani hanno fatto loro la partita. 90-92
il risultato finale, che proietta il Maccabi in testa alla classifica
insieme alla Lottomatica e al Caja Laboral.
Adam Smulevich
Qui Roma - Il dramma di Gilad Shalit in copertina su Shalom di novembre
A
un Ghilad Shalit, spento, umiliato e
prigioniero, che appare in compertina, sono dedicati i servizi di apertura del numero di novembre
di Shalom. Il mensile della Comunità ebraica di Roma ricorda con forza
il soldato israeliano nelle mani di Hamas da oltre 500 giorni e la
necessità di liberarlo. L'immagine, tratta dal filmato di circa tre
minuti diffuso dai rapitori, ritrae come è noto un ragazzo avvilito
dalla lunga prigionia, ma apparentemente in buona salute. Nelle pagine
seguenti la rivista riporta la versione italiana di un articolo di
Ze'ev Segal che apparve sul quotidiano israeliano Haaretz
lo scorso 5 ottobre e che pone in rilievo il divario fra le accuse
rivolte a Israele nell'ambito dell'operazione Piombo fuso e il
rapimento del giovane militare israeliano. Su 452 pagine, solo due
si occupano della vicenda del soldato israeliano, "Il video dettato dai
sequestratori in ogni minimo dettaglio, potrebbe venire erroneamente
considerato un sufficiente sostituto dei dovuti incontri fra Shalit e
il personale della Croce Rossa. E invece bisogna come minimo ricordare
che questo filmato non è stato consegnato dai terroristi palestinesi
per rispondere a una minima richiesta umanitaria internazionale, bensì
come frutto esso stesso di un atroce ricatto..." Un altro articolo
titolato "Il dilemma del prigioniero" e firmato dal Rav Michael Ascoli
si domanda, sempre riferendosi alla questione Shalit, in che modo
accettare le richieste di riscatto e qual è il prezzo giusto da pagare . Sempre
rimanendo sulle questioni mediorieintali, Fiamma Nirenstein torna ad
occuparsi del Rapporto Goldstone. Secondo la giornalista e deputata del
Pdl infatti, l'odio contro Israele è il frutto della politica a mano
tesa di Obama. Con lo sguardo rivolto alla atomica iraniana,
Angelo Pezzana prende poi in esame il discorso di Netanyahu
all'Assemblea delle Nazioni Unite. "La maggioranza terzomondista
dell'ONU - rileva Pezzana - non ha mai contribuito a rendere quella
tribuna un luogo di confronto corretto con Israele, essendo la maggior
parte delle risoluzioni non contro le dittature islamiche ma contro la
democrazia dello Stato ebraico". Sempre di Iran e di bomba atomica
si occupa Emanuele Ottolenghi che nell'analizzare l'accordo stipulato
il 21 ottobre a Vienna fra Iran, Francia, Russia e Stati Uniti in
materia di nucleare iraniano, sostiene che solo apparentemente esso è
un successo della strategia americana di dialogo con Teheran "Ma una
lettura attenta dei suoi termini, sostiene Ottolenghi, dimostra il
contrario e lascia molte cruciali questioni irrisolte", secondo
Emanuele Ottolenghi tale accordo "non risolve i problemi più critici
del programma nucleare, sollevando invece cinque problemi"che rimangono
aperti. Nell'articolo i cinque problemi vengono esaminati attentamente. Lasciamo
il Medioriente e voltiamo pagina. Francesca Bolino intervista il
direttore di Libero quotidiano Maurizio Belpietro: "Come valuta lo
stato dell'informazione in Italia?" gli domanda. Belpietro risponde
prendendo a prestito le parole della Federazione europea dei
giornalisti di qualche anno fa sull'onda delle polemiche sulla libertà
di stampa e sostiene che "esiste il conflitto di interessi nel settore
tv, ma nel nostro Paese esiste un'informazione plurale". E rispondendo
ad una domanda della giornalista sul problema dell'immigrazione rileva:
"L'immigrazione in Italia è disordinata. A differenza di altri Paesi,
l'Italia la subisce non la governa. Non sceglie chi far entrare e con
quali attitudini professionali, ma cerca di contrastare l'ondata come
può e non sempre ci riesce". Il giornale pubblica anche due
articoli dedicati alla tradizione ebraica: "Dopo Auschwitz esiste
ancora, e forse con un significato più forte, la speranza e la certezza
della verità e del Chèsed" afferma Gavriel Levi nel prendere in esame
il "dopo- Shoah", mentre il rav Benedetto Carucci Viterbi, intervistato
da Marco Di Porto, spiega alcune regole ebraiche che riguardano la vita
sessuale nella coppia. In questo numero appare la seconda parte
delle considerazioni di Piero Di Nepi, che si interroga su quale ruolo
dovrebbe avere un giornale ebraico. Secondo Di Nepi in passato
"l'informazione fu precisa, puntuale ed anche 'alternativa': ma se ieri
abbiamo avuto la capacità di far sentire forte e chiara la nostra voce
e di trovare alleanze non equivoche [...] oggi non possiamo nasconderci
la realtà. La redazione è brava, il giornale ben fatto, ma di fronte
alla situazione complessiva la vera voce della nostra Comunità risulta
forse un po' flebile". In tema di libri, Shalom propone, fra gli
altri, il volume di Gad Lerner "Scintille", nel quale il giornalista
racconta la sua storia familiare che, come rileva il direttore Giacomo
Kahn, "è storia di un popolo, quello ebraico lacerato da fughe, ritorni
allontanamenti, che attraversa luoghi e tempi in perenne ricerca di una
sua identità e di una sua terra promessa". |
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Comix - Le sfacciataggini del signor Ginzberg
E'
il 1944, la guerra è verso la fine, ma non è chiaro a tutti. Max
Ginzberg fonda la EC Comics, Entertaining Comics. In realtà Ginzberg,
conosciuto come Gaines, aveva prima fondato la All-American
Publications insieme a Harry Donenfeld e aveva pubblicato supereroi
come Green Lantern, Wonder Woman, e Hawkman. Quando la società si fonde
con la DC Comics, Gaines fonda la EC Comics. All'inizio le sue
pubblicazioni sono educative, del tipo "Picture Stories from the
Bible", ma nel 1947 muore in un incidente stradale e tocca al figlio
William Gaines prendere in mano la gestione della
società. William (nato a Brooklyn nel 1922) decide di cambiare
il tenore dei fumetti. Siamo in un momento critico, i supereroi che
combattono contro i nazisti cominciano ad andare in crisi. Ci vuole
un'idea nuova. William
arruola attorno a sé un gruppo di autori che faranno la storia del
fumetto statunitense, rimanendo però spesso in seconda fila, tranne Kurtzman. Nascono
intanto nuove serie dettate da forti tematiche adulte. Ma non si
intende "erotismo" o "porno". No, Will e i suoi autori, tra i quali Al
Feldestein, Kurtzman, Wally Wood, Al Williamson, Frank Franzetta e
tanti altri caratterizzano i loro lavori con una grande realismo,
plasticità, anatomie precise con profonde caratterizzazioni dei
personaggi. Le
storie durano poche pagine, dirette, senza fronzoli, immediate nella
lettura, portano i lettori nel mondo dell'horror, del mistero, della
fantascienza, del noir. I titoli delle serie sono essi stessi
significativi: Tales from the Crypt, The vault of horror, Weird
Science, Crime Superstories e così via. In una America sempre
più chiusa in se stessa, con un senato pronto ad additare chiunque come
pericolo per la nazione in tutti i sensi, non solo comunisti, i fumetti
della EC Comics vengono travolti da una inchiesta parlamentare. Un
pseudo-medico il dottor Fredric Wertham scrive una serie di articoli
dove spiega "scientificamente" che i fumetti sono diseducativi. E'
l'inizio della fine per la EC Comics. Nasce il Comic Code, un codice
degli editori di fumetti per informare i genitori se il fumetto che
stanno comprando sia o meno diseducativo. Chi non si adegua viene
tagliato fuori dalla distribuzione.
Will
Gaines non si piega. Le serie chiudono, ma un combattente è un
combattente, così nasce Mad (ottobre-novembre 1952 il primo numero), la
più famosa rivista satirica del mondo. Mentre negli anni settanta
qualcuno si ricorderà di quei fumetti così veri, autentici e realizzati
con grande maestria, nascono così le serie televisive e i film dedicati
a Tales from the Crypt. William Gaines è morto il 3 giugno del
1992 dopo aver assistito alla sua rivincita. Nel 1971 sarà proprio la
Marvel Comics a proporre una storia dell'Uomo Ragno dedicata al
problema della droga senza l'approvazione del Comics Code. Piano piano
nei decenni successivi il mondo dei fumetti si libererà di questa
macchia nella sua storia. I fumetti della EC Comics sono oggi
ristampati negli USA, mentre in Italia l'editore 001 Edizioni sta
riproponendo le storie più belle.
Andrea Grilli |
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rassegna stampa |
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C’era
da aspettarselo poiché la politica palestinese è non meno dorotea di
quella italiana. Le elezioni legislative e presidenziali palestinesi,
in un primo tempo previste per il 24 gennaio del 2010, non si terranno.
Ce ne parla diffusamente Barbara Uglietti su l’Avvenire,
articolo che prendiamo quasi in esclusiva considerazione nella rassegna
di oggi, dove ancora una volta registriamo scarsità di notizie («no
news, good news»?). Ad esso si corredano quanto scritto da il Fatto quotidiano e la Voce repubblicana.
La motivazione ufficiale offerta dalla Commissione elettorale che aveva
l’incarico di prepararle è che non sussiste nessuna garanzia rispetto
al fatto che a tutti i cittadini palestinesi sia concessa, nel medesimo
modo, la possibilità di votare spontaneamente e segretamente, senza
essere fatti oggetto di coazioni o quant’altro. Due sono le aree
critiche, ovvero la striscia di Gaza, dove governa Hamas, e Gerusalemme
est, laddove viene denunciato l’atteggiamento del governo israeliano
che sarebbe contrario allo svolgimento del voto. Se è ben chiaro il
primo problema un po’ più difficile è inquadrare il secondo. Senz’altro
da Gerusalemme e Washington è temuto un processo elettorale al buio,
dove il rischio è che, come già avvenne tre anni fa, gli elettori
consegnino una cambiale in bianco agli islamismi. Quanto però tale
preoccupazione condizioni Israele e gli Stati Uniti, al punto da
osteggiare la tornata elettorale (non di meno, avendone la forza di
condizionarne il loro svolgimento), è difficile dirlo con assoluta
sicurezza. Comunque sia, la Commissione si è rivolta ad Abu Mazen,
presidente in carica dell’Autorità nazionale palestinese, chiedendogli
una proroga nelle date. È altamente plausibile che il leader
«dimissionario» - nei giorni scorsi aveva annunciato a gran voce la sua
volontà di non ricandidarsi, a causa della montante delusione che lo
avrebbe accompagnato in questi mesi dinanzi allo stallo nel processo di
pace in Medio Oriente - accolga tali richieste. Suscitando così una
rinnovata salva di astiose polemiche da parte dei suoi avversari
dell’area islamista. Siamo insomma alla entropia della politica
palestinese che sta dimostrando di non riuscire a governare i processi
innescati più di dieci anni fa dagli accordi di pace. Ciò per più
ordini di motivi riconducibili, essenzialmente, a due fenomeni tra di
loro intrecciati: da un lato c’è la frattura, ai limiti della
irrimediabilità, tra i sostenitori di Hamas e quelli del Fatah;
dall’altro c’è l’oramai cronico regime di «prorogatio» e di traslazione
che fa sì che il legislativo, fortemente fazionalizzato dai membri dei
due partiti maggioritari, e quindi come tale in grado di
autoparalizzarsi, sia incapace di svolgere le sue funzioni, limitandosi
perlopiù alla delega all’esecutivo. In questo frangente il governo
palestinese, presieduto dal dinamico Salam Fayyad, assomma a sé una
parte delle prerogative del Parlamento se non altro poiché è l’unico
organismo capace di funzionare concretamente. Non di meno il Presidente
dell’Autorità nazionale ha continuato a svolgere le mansioni
istituzionali, riconosciutegli nonostante la scadenza del termine del
suo mandato risalisse a quasi un anno fa. Abu Mazen sa bene che le
probabilità di vedere rinnovato il suo incarico sono incerte, essendo
assurto, nell’immagine che parte della popolazione palestinese coltiva
e condivide di lui e dei suoi uomini, a una poco invidiabile
espressione di ciò che c’è di meno desiderabile nella politica locale:
corruzione, nepotismo, clientelismo, inamovibilità ma anche
“collusione” con il nemico israelo-americano. In parte tale congerie di
idee può avere un qualche fondamento, almeno dal punto di vista
palestinese, dovuto però non a una maggiore proclività di Abu Mazen a
tali condotte bensì al minore carisma che egli manifesta rispetto al
suo predecessore Yasser Arafat. Al riguardo si legga l’articolo di
Hillel Frisch su il Jerusalem Post ma anche quello dell’ever-green Uri Avnery, comparso su The Palestine Chronicle e tradotto in italiano l’Internazionale.
L’attuale presidente, che può oramai essere considerato quasi un
gerontocrate, prossimo com’è ai settantacinque anni, sconta il grave
handicap di essere nel medesimo tempo troppo vicino ai veri centri di
potere della politica palestinese, il notabilato urbano delle grandi
famiglie, e troppo lontano dalla possibilità di esprimere
convincentemente un antidoto alla svolta generazionale che Hamas ha
rappresentato. Quest’ultima, infatti, da sempre si candida a
rappresentare le classi di età più giovani, quelle che hanno fatto la
prima e la seconda intifada ma che si reputano escluse dai benefici
degli accordi firmati più di un decennio fa. Del pari a qualsiasi altro
movimento islamista Hamas fa appello alle «forze più giovani» della
società locale, cercando di capitalizzarne il malcontento, che deriva
soprattutto dalle difficoltà economiche e dall’esclusione da un mercato
del lavoro in grave difficoltà. La leadership islamista si presenta con
una immagine di dinamicità, nonché di attenzione ai problemi sociali,
che manca completamente al Fatah, introflesso e ripiegato nelle lotte
intestine di potere. La divisione politica, maturata nel corso degli
anni Novanta, si è quindi trasformata in uno scontro tra due segmenti
del mondo palestinese, fortemente inclinata verso una guerriglia
civile. L’insediamento su base geografica dei due gruppi politici, il
forte peso che hanno nell’economia locale, il buon seguito che riescono
a raccogliere tra la popolazione, rende ancora più nette le linee di
separazione. Hamas ha capitalizzato essenzialmente tre fattori: il
primo è la crisi delle ideologie laiche, conseguente al 1989, e il
bisogno, tra diversi strati della società locale, di rifarsi ad una
concezione del mondo di natura messianico-salvifica, che
l’organizzazione islamista ben rappresenta; il secondo è il tracollo
morale e la grave crisi di legittimità che ha coinvolto (e in parte
travolto) i vecchi organismi di rappresentanza del mondo palestinese,
quelli costituitisi all’inizio degli anni Sessanta con la nascita
dell’Olp, oramai senescenti così come i loro leader; il terzo è la
perdurante crisi economica che attanaglia Gaza, facendo sì che i suoi
tassi di sviluppo siano costantemente compressi da una evoluzione
demografica e una crescita urbana troppo veloci, ovvero convulse.
D’altro canto, sessanta e più anni di separazione tra Gaza e la
Cisgiordania hanno consegnato l’evoluzione delle due società a
dinamiche diverse. Mentre la popolazione palestinese della Giudea,
della Samaria e della Galilea ha conosciuto un adeguamento agli
standard medio-alti di alcune delle società locali, a partire da quella
giordana, diversa è stata la difficile traiettoria di Gaza. Anche da
ciò deriva quindi l’incapacità (se non l’impossibilità) di parlarsi.
Plausibile quindi il ragionare di due entità palestinesi, poiché il
conflitto, oggi, attraversa la locale comunità araba non meno di quanto
la ricomponga quando essa deve contrapporsi ad Israele. Sempre su Gaza
e Hamas segnaliamo anche le riflessioni di Luigi Manconi, pubblicate da
l’Unità. In conclusione un rimando a quanto scrive Annalena Di Giovanni su Terra
quando ci informa che a Beirut è stato varato, dopo mesi di estenuanti
trattative, il nuovo governo, presieduto da Saad Hariri, che assomma la
bellezza di una trentina di ministri. Quando uno dice Italia e non
s’avvede di cosa sia il Mediterraneo... Claudio Vercelli |
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notizieflash |
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Il cardinale Kasper: “Uniti nella lotta all'antisemitismo” Città del Vaticano, 12 nov - Cattolici
e ortodossi lottano insieme contro "i nuovi fenomeni di antisemitismo,
che oggi rappresentano certamente un grande pericolo", lo ha detto il
presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani e della
Commissione per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo, il cardinale
Walter Kasper, rientrato ieri da Minsk, capitale della Bielorussia,
alla Radio Vaticana. Il cardinale era stato invitato dal metropolita
ortodosso Filarete a un convegno dal titolo "Il dialogo tra
Cristianesimo e Giudaismo: i valori religiosi come base del rispetto
reciproco". Fra le altre cose il cardinale Kasper ha ricordato che "il
Concilio Vaticano II ha chiaramente sottolineato che ogni forma di
xenofobia e ogni forma di antisemitismo sono contro la dignità umana e
che noi abbiamo un rapporto unico e particolare con gli ebrei, con loro
condividiamo molti articoli di fede come quello dell'Unico Dio, dei
Dieci Comandamenti, dei profeti dell'Antico Testamento. Su queste basi
possiamo comunicare ed insieme anche cooperare. Speriamo che il futuro
- ha concluso il cardinale ricordando l'annunciata visita del Papa alla
sinagoga di Roma nel prossimo gennaio - sia più positivo del
passato". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
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