se non visualizzi correttamente questo messaggio, fai  click qui  
 
  logo  
L'Unione informa
 
    27 novembre 2009 - 10 Kislev 5770  
alef/tav   davar   pilpul   rassegna stampa   notizieflash  
 
Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Il valore numerico della parola ‘Esav è 376, come quello della parola shalòm. ‘Esav rappresenta l’ebreo che è sempre in pace con sé stesso. Se le cose non vanno, i colpevoli son sempre gli altri. (Shem Mishmuel
Vorrei oggi ricordare ai nostri lettori uno storico di valore che ieri ci ha lasciato prematuramente, quando ancora aveva il mondo davanti, curiosità, libri da scrivere, idee da sviluppare, Victor Zaslasky. Ebreo, era nato a San Pietroburgo negli anni più bui del totalitarismo comunista, da una famiglia bolscevica. Ricordo di averlo udito raccontare delle sue classi, a scuola, di ateismo. Ne parlava con ironia e mitezza, come era nel suo carattere. Allontanatosi dall'URSS, naturalizzatosi canadese, viveva da molti anni in Italia, dove insegnava. Un percorso quasi emblematico dei figli del suo mondo, degli ebrei dei suoi anni. I suoi libri sul comunismo, sulla sua fine e sul post-comunismo, su Katin, sono opere preziose, su cui riflettere. A me, hanno insegnato molto. Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
  torna su
davar    
 
   Zrubavel, pelle nera su schermo bianco
 

zrubavel Zrubavel è il primo lungometraggio israeliano con cast e troupe composti interamente da israeliani di origine etiope. Girato in digitale, con mezzi minimi, questo film sprigiona quella particolare energia che contraddistingue le opere prime dei giovani di talento.
Shmuel Beru mette in scena la storia di una famiglia di immigrati Etiopi che, con grandi sacrifici, cerca di integrarsi nella realtà dello Stato ebraico.
Il capofamiglia Getei lavora come spazzino: non parla l’ebraico ma ha un figlio morto da soldato per Israele. Getei risparmia per mandare l’unico figlio rimastogli, Gil, alla Scuola militare. Una figlia è sposata infelicemente con l’ultraortodosso Issachar mentre la minore, Almaz, sogna di diventare una cantante.
L’azione si svolge per le strade di un quartiere periferico dove abitano solo immigrati etiopi. L’unica presenza altra è quella della polizia che pattuglia le strade.
Lo squallore dei condomini popolari e lo sterile paesaggio cementificato lasciano lo spazio, nelle inquadrature, alla pulsante vitalità della comunità falasha. I giovani del quartiere si ritrovano per ballare e cantare, mettere in scena spettacoli, discutere. Come in un film di Spike Lee traspare, qui, l’intenzione di mostrare una minoranza oltre i luoghi comuni.
Le difficoltà dell’integrazione rischiano di distruggere la famiglia. Getei, che vuole un’integrazione all’interno della tradizione, è pronto ad ogni sacrificio; i figli, invece, vogliono staccarsi dalla tradizione per avere la libertà di fare quello che vogliono.
Shmuel Beru è arrivato in Israele all’età di 8 anni. A scuola, nessuno dei compagni aveva mai visto prima un ragazzo di colore. Ha subito nel corso degli anni diversi episodi di razzismo. Questo è un film quasi autobiografico ma la storia che racconta è quella di tutti gli immigrati che, una volta arrivati nel loro nuovo Paese, devono ricominciare da zero e cercare di ricrearsi una nuova identità senza dimenticare quello che sono stati.
Il nipotino di Getei va in giro per il quartiere con una videocamera: vuole documentare la sua gente, raccontarne le storie, come ha fatto il suo idolo Spike Lee in America. L’autorappresentazione è una fase fondamentale nel processo d’integrazione di una minoranza. Per questo Zrubavel è un film prezioso.

Rocco Giansante



Qui Torino - Culture del Sionismo,
la delusione di Gershom Scholem


Scholem“Non possiamo mai arrivare del tutto a casa”. È uno sconsolato Gershom Scholem a pronunciare questa frase. È da poco giunto in Israele.
Fra le tante “culture del sionismo”, presentate nell'ambito del significativamente omonimo convegno torinese, c'è anche il sionismo fallito. Il sionismo smarrito, il sionismo decaduto, degradato da suprema istanza religiosa e mistica a mero nazionalismo statuale, profano e secolarizzato. “Non tutti i giorni hanno una sera”, perennemente incompiuto è il destino del popolo ebraico, eterna la sua vocazione diasporica.
Ampio spazio, nei lavori del convegno sul sionismo organizzato dall'Università del Piemonte orientale insieme alla Fondazione Camis de Fonseca e al Goethe Institut, è dedicato ad un percorso sulla figura di Gershom Scholem. A tenere le fila del pomeriggio di studi sono un docente di giudaistica all'università di Vienna, professor Klaus Davidowicz, una studiosa di cultura ebraico-tedesca, professoressa Claudia Sonino, e una studiosa di filosofia e storia intellettuale ebraica, docente universitaria in Germania e rabbinessa in una sinagoga riformata di Gerusalemme, Eveline Goodman-Thau.
Il sionismo di Scholem si discosta da tutte le correnti politiche sviluppatesi o confluite nel seno del movimento fondato da Teodoro Herzl. Egli non era tanto interessato all’aspetto politico del sionismo, quanto a quello spirituale, culturale, sociale. “Sion era per me piuttosto un ideale mistico-religioso che geografico”. Appare veramente disperato, nei suoi scritti degli anni venti e trenta, per la totale perdita della dimensione spirituale da parte del mondo sionista. Da una parte lo sciovinismo di destra di Jabotinsky, dall'altra le correnti d'ispirazione socialista, entrambi hanno messo da parte il sogno della rinascita del popolo ebraico, del suo ricongiungimento con le radici, della preparazione dell'avvento del Messia. Hanno confuso l'ideale di Sion con un vuoto nazionalismo secolarizzato, non hanno capito che Israele non deve essere uno Stato come gli altri, ma un posto vibrante di vitalità mistica, un “focolare per la rinascita spirituale del popolo ebraico”, vessato e sulla via dell'assimilazione. La costruzione di uno un stato in Palestina, alimentato da una copiosa immigrazione piccolo borghese occidentale e ispirato a una gretta ideologia nazionalista, è la definitiva capitolazione del sogno di Sion. Sul piano spirituale non è cessata la condizione di Esilio. Di qui la paradossale “disperazione del vincitore”.
Gershom Scholem nasce a Berlino, nel 1897, in una famiglia ebraica appartenente alla borghesia liberale tedesca, del tutto assimilata. Fin da giovanissimo, dall'età del bar-mizvah, avverte l'esigenza di riavvicinarsi alle radici ebraiche abbandonate dalla famiglia. Ciò lo porterà a vivere un profondo conflitto culturale, diviso tra due realtà inconciliabili: la febbrile ricerca di un'identità ebraica culminerà nella definitiva rottura con il padre. “Quella borghesia deve sanguinare”, scrive in un'invettiva particolarmente violenta contro quel mondo dal quale, con dolore, si congeda.
Vede nel sionismo un'alternativa all'assimilazionismo che ha colpito il popolo d'Israele nella diaspora occidentale. Per Scholem la rinuncia alla tradizione ebraica è un colossale autoinganno, ribellarsi al quale è preciso dovere di ogni ebreo, poiché ne va del destino di un intero popolo. Per queste ragioni si avvicina, parallelamente, agli studi talmudici e ai gruppi giovanili sionisti.
Studia filosofia e matematica in Germania e si entusiasma per il pensiero di Martin Buber; “Ogni ebreo deve passare la sua bubertà”, scriverà anni dopo. Negli ambienti che frequenta conosce molti Ostjuden, ebrei dell'Est, influenzati dalla cultura chassidica che tanta importanza avrà nella sua vita. Stringe anche una profonda amicizia e un saldo legame intellettuale con Walter Benjamin, il celebre pensatore ebreo marxista. Benjamin è uno dei fondamentali punti di riferimento nella vita di Scholem; la loro intesa spirituale è rimasta scritta nella storia intellettuale dell'ebraismo. Nel 1975 Scholem pubblicherà “Walter Benjamin, storia di un'amicizia”.
Diviene uno dei membri più attivi dei movimenti giovanili sionisti ma contemporaneamente approfondisce gli studi religiosi, indirizzandoli verso il misticismo messianico.
Nel 1923 compie l'alyiah, la salita a Eretz Israel, con appresso i duemila volumi della sua biblioteca, e va ad abitare a Gerusalemme, non lontano dal quartiere ortodosso di Meah Shearim. È con l'arrivo in Israele che si consuma la sua tragica disillusione. Essa riguarda la mancanza di un contenuto spirituale nelle azioni e nelle speranze dei pionieri, interessati soltanto a perseguire obiettivi politici, alla creazione di un'entità statuale sul suolo palestinese che poco ha a che fare con la Terra Promessa, per come è intesa nella prospettiva messianica. Scholem si sente “una sentinella sull'orlo del nulla”. Il sionismo mistico-religioso è stato messo in scacco da istanze politiche e bellicose. “Si è persa un'occasione irripetibile – scrive prima della seconda Guerra Mondiale – è fallita la funzione storica del sionismo. E questo a causa della brama nazionalista”. Decide così di fondare Brit Shalom, un gruppo pacifista che propugna una soluzione binazionale, vuole una convivenza pacifica di arabi ed ebrei sulla medesima terra. Intrattiene accese polemiche con tutto il mondo intellettuale ebraico; celeberrimo un infuocato carteggio con Hannah Arendt degli anni quaranta. “E' quasi meglio Ben Gurion di una comunista antisionista come te”, le scrive.
Per lo sconforto cessa l'attività politica per dedicarsi esclusivamente a quella di studioso presso l'Università ebraica di Gerusalemme.
Sin dalla giovane età la ricerca della propria identità e delle proprie radici gli aveva suscitato un forte interesse storico. Il campo in cui indirizza la sua ricerca è quello della Qabbalah, la tradizione esoterica degli ebrei dell'Europa orientale. Diviene il più importante storico della Qabbalah e compie un'operazione culturale importantissima: riporta alla luce il mondo del Chassidismo, riscopre una parte pressoché dimenticata della storia ebraica, spesso disprezzata e rinnegata come oscurantista, fino ad allora quasi del tutto sconosciuta all'ortodossia occidentale. S'interessa al particolarmente al sabbatianesimo, l'eresia di Shabbetay Zewi, il falso Messia apostata vissuto nel XVII secolo. Traduce e commenta lo Zohar, il Libro dello Splendore, il testo più importante della tradizione mistica ebraica redatto nel XII secolo da rabbini castigliani.
Ma il pathos presente nella sua opera è spia di un interesse diverso da quello dello studioso. La vita di Scholem è una ricerca di sé stesso, del proprio ebraismo. E la sua  speranza è unicamente la rifondazione del popolo ebraico in Eretz Israel. Egli vede nella Qabbalah, nella cultura misterica e spirituale, improntata a un fervente messianesimo, l’elemento vivificante dell’ebraismo, la forza che gli ha consentito di sopravvivere spiritualmente nonostante le condizioni della vita diasporica. A una generazione per la quale le realtà dell’esilio e della precarietà dell’esistenza diventavano sempre più opprimenti e crudeli, la Qabbalah, con la profondità e la larghezza delle sue visioni, offre risposte di incomparabile valore, che illuminano il senso dell’esilio. Ma l'Esilio vero, per Scholem, è spirituale. E la storia gli ha dimostrato che il popolo ebraico non può giungere a casa, il suo destino rimarrà incompiuto. “Non tutti i giorni hanno una sera”.

Manuel Disegni



Qui Firenze - Continua il dialogo tra ebrei e musulmani

dialogo interreligiosoSe il dialogo con il mondo cristiano talvolta si inceppa, ma tutto sommato procede abbastanza bene, quello con il mondo islamico è sicuramente più arduo e pieno di difficoltà. Ci sono iniziative, però, che tentano di superare le reciproche incomprensioni. Come succede a Firenze, dove sono stati organizzati una serie di incontri a cui partecipano membri delle comunità ebraica e islamica cittadina. L’ultimo di questi importanti appuntamenti si è svolto nella locale moschea qualche giorno fa e vi hanno preso parte i leader religiosi delle due minoranze, Joseph Levi e Elzir Izzedin.
Primo a prendere la parola è stato Rav Levi, che ha parlato dei meeting interreligiosi della Ethnic Understanding (che tra l’altro ha sollecitato l’incontro fiorentino), fondazione nata inizialmente per contrastare l’intolleranza e il razzismo nei confronti dei neri e che dal settembre del 2001 ha iniziato ad interessarsi al dialogo tra ebrei e musulmani. Negli ultimi anni la Ethnic Understanding ha organizzato molteplici iniziative, tra cui un gemellaggio tra una moschea e una sinagoga americana e vari eventi che hanno coinvolto imam e rabbini statunitensi. “Pur consapevoli di non poter porre fine al conflitto mediorientale con questi incontri – ha spiegato il rabbino capo di Firenze – i partecipanti hanno perlomeno cercato di risolvere i problemi locali”. Un modello di dialogo da adattare alla realtà fiorentina, su questo ambo le parti sono sembrate concordi, anche se, si lamenta Rav Levi, “è un peccato che le iniziative interreligiose finora realizzate in Italia siano state generalmente organizzate da altre comunità religiose, bisogna che ebrei e musulmani prendano l’iniziativa, lavorando insieme per contrastare antisemitismo e islamofobia”. Partendo da progetti concreti, come la costruzione di una vera e propria moschea (quella attuale è un vecchio garage dismesso) in città, iniziativa che era stata più volte appoggiata dalla Comunità ebraica. Qualche anno fa uscì sull’Unità un articolo firmato da Renzo Funaro, presidente dell’Opera del Tempio Ebraico di Firenze, che sosteneva che la costruzione di un luogo di culto dignitoso per i musulmani fosse una necessità e che la moschea sarebbe stata compatibile con il paesaggio urbano fiorentino. L’architetto Funaro, tra l’altro, si era offerto come volontario per dare una mano nella realizzazione del progetto e Izzedin, dal canto suo, aveva scritto un articolo sul medesimo giornale dove si diceva favorevole al restauro della cupola della sinagoga. A questo punto resta da convincere appieno la nuova amministrazione cittadina, anche se Matteo Renzi, sindaco di Firenze dal giugno scorso, ha affermato di non essere contrario “se qualcuno ha soldi e progetti compatibili con la normativa vigente per costruirla”.
“Il dialogo è bello quando è sincero”, ha esordito l’altra sera l’Imam, che ha sottolineato come “l’obiettivo non deve essere quello di arrivare ad avere un'unica confessione religiosa nel mondo, ma quello di potersi confrontare serenamente con le altre”. Un lungo cammino verso il reciproco rispetto che ha coinvolto in prima persona lo stesso Izzedin, che è passato da una fase della sua vita che si potrebbe tranquillamente definire integralista ad una più aperta e tollerante verso gli altri. “Una volta credevo che i non musulmani fossero degli infedeli, adesso invece penso che la reciproca conoscenza aiuti a crescere culturalmente”. Ed è così che ha fatto suo un passo del Corano che dice “se arrivi nel giorno del giudizio e hai una pianta in mano devi piantarla”. Lo stesso deve essere fatto, dice, per la fede, per la spiritualità e per l’incontro con l’altro. “Spero che vengano organizzati al più presto incontri dove si parli di matrimonio, morte, affinità ma anche diversità”, ha concluso. A suggello della serata, il Rabbino ha donato una Torah all’Imam e quest’ultimo ha contraccambiato regalandogli una copia del Corano.

Adam Smulevich
 
 
 
  torna su
pilpul    
 
  Hystrio, il teatro israeliano e quello palestinese

histrio La rivista trimestrale di teatro Hystrio, fondata da Ugo Ronfani nel lontano 1988, dedica il dossier del suo ultimo numero (il quarto e quindi quello di chiusura dell’anno) al teatro israeliano e palestinese. Un binomio spesso presente e di non facile gestione.
La rivista, oggi diretta da Claudia Cannella, ha optato per una soluzione funzionale, ma nello stesso efficace: separati in casa. La prima parte del dossier è dedicata al teatro israeliano, in particolare con un articolo di apertura di Abraham Yehoshua che racconta le sue alterne fortune come drammaturgo. Ma in realtà il cuore degli articoli presenti su Hystrio sono due: “Storia e storie lungo un secolo” di Dani Horowitz e l’intervista a Claudia Della Seta, che da circa quindici anni vive e lavora in Israele come attrice e regista.
L’articolo di Horowitz è un percorso storico e critico del teatro israeliano. Dalle origini del movimento sionista che non può che prediligere una forma artistica che aiuta alla formazione di una coscienza collettiva, fino ai giorni nostri con tutte le problematiche del teatro moderno. Intanto un numero a sottolineare che ci troviamo in un altro pianeta. Se in Italia il teatro giace morente con poco pubblico, tanti teatri e compagnie che non possono fare del teatro la loro vita; in Israele i numeri sono completamente diversi: 7.000.000 di abitanti e 12.000.000 di pubblico... in pratica ogni israeliano, senza esclusioni, va almeno due volte all’anno a teatro! Ci sono sei teatri pubblici e un canale distributivo, il Fringe, che permette a tutti di avere la sua occasione di presentare un prodotto teatrale. Le opere drammaturgiche riflettono diversi aspetti della società israeliana come della sua storia. Dopo la caduta del muro per esempio l’arrivo di ebrei russi ha determinato la nascita del Gesher Theater di Yevgeny Arye. Esistono diverse esperienze di teatro arabo-ebraico. Si tratta di una realtà ormai matura, complessa, figlia inevitabilmente di una società che si è andata via via formando dal 1948 in poi.

coverIl teatro ha avuto il merito, (ma quando non ha avuto questa funzione?), di offrire uno specchio al suo pubblico, di permettergli di confrontarsi con i temi che lo coinvolgevano di più: la corruzione, la guerra, la difficile integrazione tra soldati zabar ed ebrei sefarditi, ma anche all’inizio la mitologia del pioniere, la Shoah e infine un teatro più intimista, esistenzialista fortemente condizionato dal teatro francese.
Un quadro quindi complesso, ricco, che come spesso accade comincia a sentire anche gli effetti della televisione, come di una programmazione, almeno per il teatro ufficiale, un po’ condizionata dalle esigenze dello show. Eppure quanto presentato nella rivista Hystrio è un quadro particolarmente interessante e vivace.
La seconda parte del dossier è dedicato al nascente teatro palestinese. Peccato che non troviamo articoli di suoi rappresentati, ma di italiani, come l’intervista a Gabriele Vacis, direttore artistico del teatro alessandrino, che ha condotto diversi laboratori e attività teatrali in Palestina e in Italia con giovani attori palestinesi. La situazione qui è tutta in fieri, con note particolarmente coraggiose, come di giovani attori che sfidano i check point per raggiungere i teatri per le prove oppure della presenza di ragazze che coraggiosamente affrontano i principi della propria cultura per vivere nuove esperienze umane e speriamo anche professionali.
Il teatro si presenta come luogo di confronto culturale anche interno, dove non c’è spazio per la violenza e la propaganda, ma per una ricerca della comprensione, della ricchezza e di un modo di vivere che esca dalla guerra eterna. Sotto questo aspetto la presenza di una compagnia che si ispira al metodo di Augusto Boal, è il segno di una ricchezza ideale. Non mancano i rifiuti interni soprattutto quando si interpreta il lavoro teatrale come un tradimento della causa palestinese, vedi per esempio le difficoltà della compagnia Freedom Theatre.
Questo dossier ci sembra abbia il merito di partecipare a quella scoperta della società israeliana e palestinese su posizioni culturali e quindi di ricchezza umana. Emergono due società che con modalità diverse si confrontano e cercano vie per sviluppare le loro coscienze. D’altra parte non è questo il compito del teatro? Non fu Napoleone nei suoi ultimi cento giorni a ordinare ai prefetti di occuparsi dei teatri? Di fatti affermando “Questo ramo dell’amministrazione (il teatro) è importante sotto molti aspetti: interessa la morale pubblica, il mantenimento del buon gusto e il progresso delle lettere”. Se pensiamo queste parole ai giorni nostri non possiamo che pensare a una società migliore, quella che può vantare una scena teatrale ricca, matura o in crescita.

Andrea Grilli
 
 
  torna su
rassegna stampa    
 
 
leggi la rassegna
 
 

Di notizie che riguardano o chiamino in causa il mondo ebraico, oggi, ce ne sono ben poche e se le si trova bisogna averle cercate con il lanternino. La vera novità sarebbe stata la liberazione del caporale Gilad Shalit ma, a quanto pare, nulla si saprà al riguardo fino a lunedì, dopo l’Eid al-Adha, la festa rituale del sacrificio. Al riguardo si veda l’articolo a più mani che ci offre Liberal. Della discussione, civile e appassionata, che è in corso in Israele nel merito della accettabilità di uno scambio che, nella migliore delle ipotesi, comporterà il rilascio di più di un migliaio di detenuti palestinesi, parte dei quali macchiatisi di colpe inemendabili, a partire dai delitti di sangue, poco o nulla recepiamo in Italia. È un segno, tra i tanti, di come l’informazione nostrana sia fortemente indirizzata, se non pregiudicata, da stereotipi e cliché. Da ciò deriva un ordine di priorità nelle quali la realtà altrui non è tanto rispecchiata quanto manipolata ad uso del grande pubblico. Non a caso, si prenda in considerazione l’articolo di Francesca Marretta che compare su Liberazione dove, nel dare di nuovo notizia della scelta del governo Netanyahu di bloccare, sia pure a tempo determinato, la costruzione di nuove abitazione negli insediamenti in Cisgiordania, si evidenzia soprattutto il prosieguo delle attività edilizie che riguardano la zona di Gerusalemme est (che, ma lo si omette di dire, per la legge israeliana non è Territorio palestinese). Sempre sulla medesima testata si intervista poi Khalil Shahin, analista politico palestinese che, ad un certo punto, riconosce che per lo «standard di un governo di destra, non esiste un precedente paragonabile alla sua [di Netanyahu] offerta». I conti, se si confrontano i due testi, non tornano. Assumiamo allora criticamente la lettura del testo del primo articolo di Marretta per dire che il problema di fondo non è mai solo ed unicamente il contenuto di una affermazione (ovvero il giudizio che seccamente contiene ed esprime) ma il modo in cui la si dà, le priorità che si assumono nel costruire una scala di significati, insomma il montaggio che si offre degli eventi resocontati. Quest’ultimo, tutt’altro che innocente, per la carta stampata corrisponde un po’ al tono che si conferisce alla voce nei contatti diretti. Sappiamo tutti che a seconda dei contesti il senso di una parola può mutare radicalmente: le espressioni verbali, così come quelle scritte, non si bastano mai da sole, parlando attraverso un linguaggio che è preventivamente condiviso tra i comunicanti, laddove chi è chiamato allo scambio linguistico sa anticipatamente decifrare il significato di ciò che gli viene detto (o ha detto). La parola scritta, nell’informazione su carta, si decontestualizza rispetto a ciò che deve rappresentare. Più che mai costituisce una realtà a sé, una immagine (che è letteralmente la rappresentazione di una cosa, di una persona, di una circostanza in loro assenza) che si impone al lettore come dato oggettivo. Nessuno è esente dal ricorso a luoghi comuni, ossia ad espressioni inflazionate che demandano ad una conoscenza di superficie, protesa piuttosto a conservare che non ad innovare. La bontà di una informazione critica la si misura allora sulla capacità di evitare la pedissequa ripetizione di crismi consolidati - la cui unica funzione è quella non di offrire nuove cognizioni e competenze ma di sedimentare e cristallizzare quelle trascorse - per andare invece verso sguardi innovativi. L’articolo che abbiamo appena preso in considerazione, tra i tanti che passano quotidianamente sotto i nostri occhi, contiene una pluralità di informazioni (congelamento degli insediamenti, reazioni dei palestinesi e dei settlers, dichiarazioni di Avigdor Lieberman e di esponenti della destra israeliana, minacce contro Netanyahu) ma stabilisce da subito una scala gerarchica dove solo uno degli eventi (l’ipotesi di proseguire nella costruzione di nuovi vani a Gerusalemme), peraltro sempre opinabile nella sua rilevanza politica, deve risaltare agli occhi del lettore. Così, rispetto alla decisione dell’esecutivo israeliano di congelare l’ampliamento delle aree edificate, segno in sé di apprezzabile disponibilità verso i palestinesi, si dice da subito al lettore che questa scelta non solo è parziale ma viziata da tutta una serie di correlati che ne metterebbero in discussione l’effettivo rilievo. Nel corso dell’articolo, poi, si rinnova il luogo comune, espresso a tratti  come implicito, in altri passaggi in forma invece più diretta, per il quale quanto va facendo il governo in carica in Israele, per il fatto stesso che è un governo di un certo colore politico, non sarebbe comunque di per sé credibile. La vera notizia che viene comunicata è, in fondo, questa. Che è per l’appunto un luogo comune non solo perché si basa su una falsa equazione (la destra è sempre guerra) o perché è costantemente ripetuta in tutte le corrispondenze da e su Israele ma poiché costituisce ciò che il lettore di una data testata intende leggere. Quest’ultimo, a ben vedere, è l’elemento più inquietante dell’intero processo poiché ci dice che l’informazione orientata non è quasi mai il prodotto di una trascuratezza o di una ignoranza, e neanche la necessaria risultante di un input politico sovraordinato, bensì la “merce” che molti chiedono, ovvero che intendono leggere ogni mattina, comprando il medesimo quotidiano, al momento di bere il caffè. Tale discorso, va da sé,  concerne buona parte del mondo dell’informazione. Che, prima ancora d’essere schiavo di una qualche signoria diretta, o debitore in un rapporto di dipendenza, è soprattutto in posizione ancillare nei confronti di quelle semplificazioni che se forse possono “informare” di certo non aiutano a formare. Ci basti ricordare, sia pure di sfuggita, che la stampa periodica nasce, nell’età borghese, non solo per svolgere la prevedibile funzione di portare a pubblica conoscenza i fatti della vita ma anche per dare ad essi un significato, ovvero per incentivare la formazione di opinioni. Ha quindi poco senso, in questo contesto, domandare che i primi siano scissi dalle seconde; ma ha certo importanza capitale chiedere che siano dati al lettore gli strumenti per farsi un’opinione propria. Dalla presenza di questi ultimi deriva quindi la distinzione tra buona e cattiva comunicazione. Un altro esempio nel merito del trattamento della stessa notizia, ma di segno completamente diverso, è quello offertoci da Anna Momigliano per il Riformista, laddove c’è lo sforzo lodevole di cercare un equilibrio che invece sembra difettare in molti altre testate. Qui l’economia delle informazioni contenute nell’articolo è assai più equilibrata, permettendo al lettore di seguire, attraverso un percorso logico che non si impone mai ma che costituisce il prodotto di un impegno di chiarezza, di precisione e di completezza, il divenire cronologico degli eventi che si legano alle decisioni assunte da Gerusalemme. La successione è chiara: la scelta dell’esecutivo israeliano; le intenzioni politiche che – plausibilmente – stanno dietro ad essa; le reazioni palestinesi; quelle americane; l’articolazione delle posizioni delle forze politiche israeliane; i potenziali effetti di lungo periodo. L’Unità, per la firma di Umberto De Giovannangeli, intervista Yossi Sarid, uno dei fondatori del partito Meretz. Interessante il richiamo alla necessità, a tutt’oggi fortemente condivisa in Israele, di riportare a casa, sempre e comunque, anche a rischio di riavere indietro a carissimo prezzo un corpo esanime, i propri concittadini rapiti e trattenuti nelle mani dei gruppi di guerriglia terroristica. Chi conosce di quale pasta sia fatto il legame che tiene insieme gli israeliani sa bene che questo è un precetto civile fondamentale, mai disatteso tutte le volte che è stato possibile ottemperarlo con i fatti. Confidiamo allora che alla prossima rassegna stampa, dopo lo Shabbat, ci sia una qualche novità che possa allietare tutti noi ma, in particolare modo, i genitori del giovane, incolpevole prigioniero.

Claudio Vercelli 

 
 
  torna su
notizieflash    
 
 
MO, il professor Nusseibeh va controcorrente:                            "Esiste un legame religioso fra gli ebrei e la Spianata"
Gerusalemme, 27 nov -
'Dove il Cielo e la Terra si incontrano: la Sacra Spianata di Gerusalemme' è un testo accademico di 400 pagine dedicato alla storia della Spianata di  Gerusalemme e scritto congiuntamente da studiosi israeliani e palestinesi che sta destando l'attenzione della stampa locale anche perché include un intervento giudicato "non-conformista" da parte del professor Sari Nusseibeh, presidente della Università al-Quds di Gerusalemme est. Secondo il professor Nusseibeh  - contrariamente alla visione degli integralisti islamici - esiste un legame storico e religioso fra gli ebrei e la Spianata, dove oggi si trovano la moschea al-Aqsa e il Duomo della Roccia. Il libro è stato presentato di recente alla Scuola Biblica di Gerusalemme. In quella circostanza, nota il quotidiano Maariv, Nusseibeh ha preferito non prendere la parola e ha evitato di rispondere alle domande dei giornalisti. Da fonti accademiche il giornale ha appreso che Nusseibeh è adesso minacciato sia per aver cooperato in una iniziativa culturale con un istituto israeliano (Yad Ben-Zvi) sia per il contenuto del suoi essai. Una collaboratrice dello studioso palestinese ha tuttavia negato che egli sia sottoposto a pressioni. Secondo Maariv in questo contesto Nusseibeh ha assunto una posizione non-conformista fra i ricercatori palestinesi ed islamici quando ha affermato che Maometto è giunto a Gerusalemme proprio perché in precedenza era sacra agli ebrei e ai cristiani. "Il suo viaggio a Gerusalemme - prosegue Nusseibeh - aveva per scopo una fusione fra Ebraismo ed Islam, fra tutti i veri fedeli della Divinità ". Scopo dell' intervento di Nusseibeh, spiega Maariv, è di convincere ebrei e musulmani a riconoscere gli uni i legami degli altri con la contesa Spianata. Ma quando il giornale gli ha chiesto di spiegare meglio il suo pensiero, Nusseibeh ha preferito declinare l'offerta. 
 
 
    torna su
 
L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili.
Gli utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste, in redazione Daniela Gross.
Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”.