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L'Unione informa
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1 dicembre 2009 - 14 Kislev 5770 |
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alef/tav |
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Roberto
Della Rocca,
rabbino |
Israele
è il nome che un padre ha acquistato al duro prezzo di un combattimento
e che ha poi trasmesso alla sua progenie. Se teniamo conto del famoso
episodio biblico in cui assistiamo alla lotta di un uomo contro un
angelo e che si conclude con l’acquisizione di un nuovo nome per
Giacobbe, dobbiamo intendere il nome di Israele come un nome di lotta,
portato da coloro che sono impegnati in un combattimento. Dobbiamo
ovviamente pensare che la Torah non parla della realtà dei personaggi
come fanno gli storici, ma vuole offrirci un’idea dell’uomo sempre
presente, che cambia forma e apparenza a seconda della scena che muta,
come se cambiasse abito, come in una rappresentazione. |
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Chi
cerca la perfezione in tutto finisce per non raggiungerla mai in niente. |
Vittorio
Dan Segre,
pensionato |
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davar |
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Rav Sergio
Josef Sierra z.l.
Questa
notte, 14 kislev, rav Sierra ci ha lasciati, chiudendo la sua vita
terrena in un ospedale di Jerushalaim, circondato dall'affettuosa
presenza di moglie, figli, nipoti ed allievi. Rimangono i
ricordi,
rimane la gratitudine per un Insegnamento costante e profondo.
I
miei primi ricordi dell’operato rabbinico di rav Sierra risalgono alla
mia infanzia, alla Bologna del primo dopoguerra; il Beth Hakeneset
distrutto e via Gombruti 9 e il parallelo vicolo Tintinnaga (oggi via
Mario Finzi) ancora pieno di macerie. E' in questa piccola Comunità
distrutta, colpita anche nelle sue persone, che giunge, subito dopo
aver conseguito una laurea in filosofia e la laurea rabbinica, il rav
Sergio Joseph
Sierra con la giovane moglie Ornella.
Rav Sierra
comprese che in una piccola Comunità tutta la vita ebraica si svolge
attorno al suo rav: dipende da lui se svolgere una attività “formale”
attendendo che ci si rivolga a lui oppure se è lui stesso a promuovere
le attività cercando di far rivivere lo spirito ebraico; ben si
adattava a questa Comunità il versetto del Cantico dei Cantici: “io
dormiva, ma il mio cuore era sveglio”, e rav Sierra cercò quindi di far
uscire questa Comunità dal suo letargo, con una attività intensissima:
iniziarono così le lezioni del sabato pomeriggio e della domenica
mattina, ai bambini ed ai ragazzi, le attività del CGE, le
‘rappresentazioni” dei ragazzi in occasione di Chanuccà e Purim. Un
posto speciale ebbe l’educazione sionista, dalle lezioni di lingua
ebraica al “pensiero” sionista, alla geografia di Eretz Israel.
Una
sala, accanto al Beth Hakeneset distrutto, fungeva intanto da sinagoga
temporanea, fatta eccezione per il giorno di Kippur, in cui si pregava
nella palestra di un liceo cittadino: in questa sala, in una
atmosfera
semichaluzista, nel freddo inverno bolognese, rav Sierra riusciva a
riscaldare l’atmosfera; si pregava con cappotto e guanti, ma nessuno
lasciava il Beth Hakeseneset prima che rav Sierra avesse parlato,
rincuorando la Comunità, parlando del “lume che non si
spegne”.
Riferendosi
all’attività del rabbino in una Comunità egli si sarebbe rifatto
espressamente al discorso di incoronazione a Vienna
del rabbino Chajes;
anni più tardi, ormai ricco di esperienza rabbinica a Bologna e Torino,
rav Sierra avrebbe scritto su “Il Rabbino nella Comunità - Significato
di una presenza” (relazione alla Assemblea Rabbinica): dopo aver
sottolineato che il principale pericolo per l’ebraismo è
l’apatia
degli ebrei verso i problemi ebraici, ritiene che oggi sia
“indispensabile che la Comunità promuova un continuo dibattito nel suo
seno per misurarsi in ampie e libere discussioni con tutti i problemi
della società, esprimendo il punto di vista ebraico, cogliendo la
problematica umana in maniera che l’ebreo sia stimolato a riflettere
sui problemi, facendo uno sforzo di approfondimento dell’ebraismo onde
enuclearne la peculiarità in base alla quale è possibile offrire una
risposta ebraica valida nel tempo in cui viviamo....Indubbiamente gli
aspetti sociali, umani della convivenza quotidiana sono gli aspetti più
importanti e come tali sono avvertiti dalla generalità delle persone, e
non a caso Hillel vide nell’amore del prossimo la quintessenza di tutta
la Torah.” Rav Sierra ha aspirato a farci comprendere che la Torah è
una Torah di vita, che non può essere rinchiusa nel solo Beth
Hakeneset, ma che deve raggiungere ogni aspetto della vita ebraica,
indirizzandola: “Pertanto bisogna fare in modo di evitare quello che
definirei la burocratizzazione della religione cioè evitare che il
rabbino se ne stia nella sua cattedra in posizione statica e relegato
in una funzione che lo limiti semplicemente a negare o consentire ciò
che è proibito o permesso dall’Halachah”, rifacendosi all’insegnamento
del rav Kook: “ciò che è nuovo deve essere santificato, e ciò che è
santo deve essere rinnovato”.
Si trattò del periodo della
ricostruzione: Bologna tornò ad avere la carne casher ed ebbe
finalmente il suo Beth Hakeneset ricostruito, ma rav Sierra faceva
giustamente presente che a poco sarebbe servito l’edificio se non vi
avessimo portato i nostri cuori, se esso non fosse divenuto il centro
dei giovani; particolarmente famoso rimase l’appello di una sera di
Kippur, in cui rav Sierra invitò la Comunità a fare uno sforzo per
avere anche a Bologna una scuola ebraica, sottolineando l’importanza
del Talmud Torah.
Uno
sforzo particolare fece rav Sierra per insegnarci il Valore etico delle
Mizvot, secondo il nome di uno dei suoi più famosi libri;“le
mizvot
dell’Ebraismo - mi disse rav Sierra il giorno del mio Bar Mizvah - che
da oggi tu dovrai compiere, possono e devono servire ad aiutarti a
tenere sempre presente il valore che ha la vita di ognuno di noi che fa
parte della società. I doveri dell’ebraismo - se tu li assolverai con
chiara coscienza di che cosa essi veramente significano- possono essere
per te uno stimolo a fare della tua vita una continua pratica della
virtù possono cioè ispirarti sempre sentimenti di onestà in ogni tuo
pensiero ed azione.”
Naturalmente la presenza di rav Sierra mi
fu particolarmente preziosa quando, pochi anni dopo, decidevo, la prima
sera di un Rosh Hashanà, di cercare di divenire shomer mizvot ed ancor
più quando, trasferitosi ormai rav Sierra a Torino, venivo chiamato
come capo culto della Comunità di Mantova (1961-64). Erano quelli anni
per me particolarmente impegnativi: si può dire che incominciavo a
mettere in atto quanto avevo appreso, rendendomi sempre più conto del
dovere di proseguire a studiare. Il Magistero torinese gli permise
anche di essere alla direzione del Collegio Rabbinico Margulies e anche
la cattedra di ebraico all'Università di Genova va vista nell'ottica
del Maestro che vuole contribuire alla diffusione delle opere ebraiche.
Significativa,
infatti, la qualità delle opere da lui tradotte, tutte di classici
della Torà: rav Sierra ha infatti tradotto il commento di Rashì a
Shemot (Esodo), con note esplicative, opera fondamentale per chi voglia
conoscere il più autorevole commento ebraico alla Torà; il Keter
Malchut (La corona regale di Ibn Ghebirol), "poema religioso di rara
intensità drammatica" che nelle Comunità sefardite si usa leggere dopo
la tefillà serale di Yom Kippur e il Chovot Halevavot (Doveri dei
cuori) di Rabbì Ibn Paquda, vero e proprio Shulchan Aruch della morale
ebraica.
Il fatto che non pochi allievi di quegli anni ci siamo
ritrovati a vivere in Erez Israel, contribuendo ognuno di noi in
diversi campi alla vita ed alla ricostruzione del Paese assieme ai suoi
figli, è certamente uno dei segni migliori che l’insegnamento del
nostro Morè è stato recepito nei nostri cuori: anche qui, appena
arrivato in Israele, ha creato il gruppo del "mifgash haitalkim" per
permettere di approfondire vari aspetti del nostro Ebraismo.
Caro rav Sierra, non solo Ti abbiamo apprezzato, ma anche Ti abbiamo
molto
amato; Tu ci hai insegnato ad accogliere il Volere divino con la
berachà: Baruch Dayan haemet. Cercheremo di essere degni del Tuo
insegnamento, di cui Ti saremo sempre infinitamente grati: far vivere
la Torà nei nostri cuori. Il tuo allievo
Alfredo Mordechai Rabello
Rav Sergio Josef Sierra z.l.
Profondo cordoglio nel mondo ebraico per la scomparsa del rav Sergio
Josef Sierra, scomparso questa notte a Gerusalemme all'età di
85 anni.
"Rav Sergio Josef Sierra z.l. è stato una figura centrale dell'ebraismo
italiano. Guida spirituale, prima di Bologna e, poi, a lungo, di
Torino, ha sempre cercato di diffondere la conoscenza della
Torah e della tradizione ebraica sia nelle Comunità italiane sia
all'esterno di esse - ha dichiarato il rav Giuseppe Laras,
presidente dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia nel tracciarne un breve
ricordo - Preoccupato di alimentare tra i giovani la fiamma della fede
e della conoscenza, ha guidato a lungo (succedendo a rav Dario Disegni
z.l.) la Scuola Rabbinica Margulies-Disegni di Torino. Assiduamente
presente nei dibattiti riguardanti il mondo ebraico, sia in seno alle
nostre Comunità sia rappresentandole con dignità e competenza
all'esterno, è stato per molti anni presidente dell'Assemblea Rabbinica
Italiana, guidandola con sapienza ed equilibrio".
"L'anno in cui ho fatto il mio Bat mitzvà eravamo dodici ed eravamo le
prime ragazze che lui aveva visto nascere e crescere nella Comunità di
Torino - dice la vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane Claudia De
Benedetti nel ricordare con nostalgia i lunghi anni di
studio trascorsi con il rav Sierra - Il discorso che ci ha fatto in
quella occasione era molto particolare poiché ci parlava da maestro ma
anche da padre. Fu quello il momento in cui decisi di iscrivermi e
frequentare la Scuola rabbinica Margulies-Disegni e di studiare sotto
la sua guida. Il suo insegnamento è diventato, in quegli anni, per me
fonte inesauribile di cultura e identità ebraica e punto di partenza
per i miei studi universitari di ebraistica".
"Una notizia molto dolorosa per chi rimane - ha commentato anche il
consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Federico Steinhaus
nell'apprendere la notizia - Ho avuto modo di conoscere rav Sierra z.l.
durante i miei precedenti mandati all’UCEI e ho sempre apprezzato molto
la sua saggezza ed esperienza. E’ stato sicuramente una delle
personalità più degne ed illustri del nostro dopoguerra e gli dobbiamo
molto di quel che di buono c’è nelle nostre istituzioni religiose e
culturali".
Il rav Sierra era nato a Roma il 23 dicembre 1923, dove si era laureato
al Collegio Rabbinico Italiano nel 1949 e in Filosofia all'Università.
Dopo aver svolto il ruolo di Chazan e Morè nella Comunità di Roma, fu
rabbino capo della Comunità Ebraica di Bologna dal settembre 1948 al
dicembre 1959 e rabbino capo della Comunità Ebraica di Torino dal 1960
al 1985.Nella prima metà degli anni '70 ha insegnato ebraico e
letteratura ebraica postbiblica all'Università di Torino e Filologia
semitica all'Università di Genova, pubblicando molti saggi e articoli
nell'ambito della cultura ebraica. Dal 1983 al 1997 ha fatto parte del
comitato scientifico e del comitato di redazione della Rassegna Mensile
di Israel e dal 1987 al 1992 ha svolto il ruolo di presidente
dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia. Dopo una brillante carriera
rabbinica e universitaria ha fatto l'Alyà a Gerusalemme dove ha
continuato a dedicarsi agli studi contornato da figli e nipoti.
Lucilla
Efrati
Qui Torino - Vittorio
Foa, protagonista del Novecento
“Una
cerimonia che non aveva nulla di cerimonioso”. Questo il commento di
Anna Foa all'uscita dalla Sala Rossa del Comune di Torino, dove ieri è
stato commemorato suo padre, Vittorio Foa. È la sua Torino che lo
ricorda, con l'affetto sincero che si prova per i propri figli. Il
profondo legame che ebbe con la sua città ha lasciato un segno
indelebile nei cuori dei torinesi, che già nel 1998 gli conferirono la
cittadinanza onoraria. “Non si può capire né conoscere Vittorio senza
Torino”, dice un suo amico e compagno di tante battaglie politiche e
sindacali, il senatore del Partito Democratico Pietro Marcenaro.
“Torino è il fulcro di tutta la sua esperienza - continua Marcenaro. La
Torino del liceo classico D'Azeglio, prolifica culla di grandi
intellettuali. La Torino azionista, antifascista, quella di Bobbio e
Galante Garrone, di Gobetti e Ginzburg. Poi la Torino delle fabbriche,
delle grandi lotte sindacali. Ma anche la Torino delle montagne: per
tutta la vita Vittorio Foa amò ritirarsi tra le Alpi piemontesi e
valdostane a recuperare le energie, fisiche, morali e intellettuali”.
Anche il sindaco Sergio Chiamparino chiama in causa l'identità
peculiare del suo concittadino onorario: “Vittorio era un esponente
dell'anima culturale dell'azionismo torinese, caratterizzata da una
grande moralità e soprattutto sobrietà, un valore che ancora oggi fa di
quella generazione di uomini politici e intellettuali un punto di
riferimento imprescindibile”.
Il
compito di ripercorre la vita di Vittorio Foa (nell'immagine a fianco),
per forza di cose a grandi balzi, è affidato al presidente del
Consiglio Comunale Beppe Castronovo: “Nato nel 1910, maturò già negli
anni del liceo un'intensa passione politica. Conseguita la laurea in
giurisprudenza, nel 1933 entrò in Giustizia e Libertà, movimento
antifascista, progenitore del Partito d'Azione (PdA). A venticinque
anni - continua Castronovo - fu arrestato per la sua attività politica;
rimase in carcere fino al 1943. Appena liberato prese parte alla
Resistenza. Fu poi tra i padri costituenti, eletto nelle file del PdA.
Fu deputato, senatore e sindacalista, e per un breve periodo anche
consigliere comunale a Torino. Divenne segretario nazionale della FIOM
e fu uno dei massimi teorici della linea politica dell'autonomia
operaia. Entrò nel Partito Socialista Italiano, poi aderì alla
scissione a sinistra del Partito Socialista di Unità Proletaria e ne
divenne dirigente nazionale. L'idea di Foa era quella di creare una
forza politica che orientasse i gruppi rivoluzionari verso una
prospettiva di “governo delle sinistre”. Fu poi tra i promotori, negli
anni settanta, della lista unica della nuova sinistra, Democrazia
Proletaria, dove io ebbi l'onore di conoscerlo e di lavorarci assieme.
Nel 1987 fu eletto senatore come indipendente nelle liste del Partito
Comunista. Fu un grande maestro - conclude Castronovo - in tanti anni
di militanza politica agì sempre nel più assoluto disinteresse; era un
intellettuale coerente e concreto, ricercava la verità oltre gli
steccati politici, mantenne sempre la sua autonomia di pensiero
rispetto ai grandi partiti di massa”.
Un tema che gli fu assai
caro è, nelle parole del sindaco Chiamparino, “un'incomprimibile
tensione verso la libertà di pensiero”. “Un suo grande insegnamento -
spiega Marcenaro, che passa in rassegna alcuni punti centrali della
riflessione di Foa - è che non c'è mai un solo
sguardo possibile, che
in ogni questione c'è sempre un altro lato, occultato dalla retorica e
dagli schemi stereotipati. Il compito degli intellettuali deve essere
proprio quello di squarciare il velo di retorica che avvolge la realtà
ed esaminarne ogni sfaccettatura. Non c'è nulla, per Vittorio Foa, da
combattere con altrettanta tenacia che la politica intesa come adesione
acritica alle idee di un leader o di un partito”.
“Si dice che
Vittorio era un inguaribile ottimista, continua Marcenaro. Io più che
di ottimismo parlerei di fiducia nelle persone, e nelle potenzialità
della loro libertà: non c'è democrazia senza fiducia. C'è anche però
una lucida consapevolezza dei limiti dell'azione dell'uomo; diceva
sempre: 'Fai quel che devi, succederà quel che può'”.
Si vuole
ricordare anche il facile rapporto che aveva con i giovani. Vittorio
Foa instaurava con loro un dialogo paritario, non riteneva che
l'esperienza di un anziano fosse in qualche modo gerarchicamente
superiore a quella di un ragazzo: “È la reciprocità che
distingue la
comunicazione dalla propaganda”, diceva. In questo non solo non
perdeva, ma acquistava autorevolezza.
“Seppe vivere - continua Marcenaro - l'esperienza carceraria come un
uomo libero, si evince dai
suoi scritti di quel periodo: non c'è traccia di vittimismo. Anzi, fu
infastidito dalle lamentele dei terroristi in carcere: c'è una grande e
sostanziale differenza tra stare in prigione sapendo di avere ragione e
starci nella consapevolezza del torto.”
Non si può certo
dimenticare, infine, la sua lunga attività sindacale: il radicamento
nel mondo del lavoro è, per Foa, la raison d'être della sinistra
politica, una profonda comprensione della condizione operaia. “Non
ripeteva mai - ricorda Marcenaro - le sterili, seppur sacrosante,
denunce, bensì guardava sempre al futuro, scommetteva sulle nuove
generazioni operaie. Un'altra grande lezione che ci ha trasmesso è
l'unità sindacale come cultura, non solo come scelta politica: l'unità
è la condizione essenziale per l'azione, diceva sempre, nessun
compromesso è troppo grande”. È un insegnamento mutuato dall'esperienza
del CLN. “Ancora poco prima di lasciarci, il giorno del suo ultimo
compleanno, invitò per un caffè i segretari dei tre maggiori sindacati
italiani, CGIL, CISL e UIL. Era un obiettivo in cui credeva molto”.
La
città di Torino e le sue autorità hanno voluto ricordare, di fronte ad
un pubblico partecipe e commosso, uno degli ultimi grandi uomini della
Repubblica. Antifascista fino al midollo, fiero e convinto democratico,
Vittorio Foa è stato un indimenticabile maestro per tutti coloro che
l'hanno conosciuto più o meno direttamente. Ha mostrato come un grande
intellettuale possa davvero essere vicino ai problemi della gente
comune, e come una salda moralità non possa che ispirare un impegno
civile onesto e disinteressato. Ha insegnato come l'equità sociale non
solo possa, ma necessariamente debba essere congiunta alla libertà.
Manuel
Disegni
Qui Milano - Bombay un anno dopo,
la luce dopo il buio
Un anno
dopo le stragi che insanguinarono l’India, Milano rivolge un ricordo
speciale a rav Gavriel Holzberg e a sua moglie Rivka, i due inviati
Chabad che furono uccisi, insieme ad alcuni ospiti, dai terroristi
pakistani nel centro ebraico che dirigevano.
Una serata di dolore per la scomparsa di questi giovani pieni di
energia e generosità, che non avevano esitato a lasciare una comoda
vita negli Stati Uniti per andare a portare avanti il messaggio della
Torah in una città non facile come quella di Mumbai.
Un filmato ha raccontato chi erano Gavriel e Rivka, la loro infanzia, i
loro studi, e la struttura cui avevano dato vita, la Nariman House,
capace di ospitare turisti e uomini d’affari di passaggio e farli
sentire come a casa propria, di distribuire cibo e vestiario ai
bisognosi, di diventare un punto di riferimento per la comunità ebraica
locale.
La tristezza si mescola, però, alla gioia e alla speranza per il
futuro. A Milano si inaugura in questa occasione il nuovo Milan Jewish
Center, che si propone come un punto di riferimento non solo per
l’ebraismo milanese, ma anche per la città. Un progetto che contribuirà
a mantenere viva nel modo migliore possibile la memoria di Gavriel e
Rivka.
Proprio
questo sottolineano gli interventi della serata, la grande forza che
c’è negli ebrei nel non farsi sopraffare dalla tragedia, ma continuare
a vivere, e a crescere, che rappresenta la più forte risposta al
terrorismo e alla cultura della morte.
Migliorare noi stessi, osservare le mizvot, compiere azioni meritevoli,
tutto questo è proposto come il modo più giusto per onorare i due
giovani schlichim (inviati) che a Mumbai di opere buone ne hanno
compiute tantissime.
Il messaggio di speranza per il futuro, sta nelle decine di giovani
coppie che si sono offerte di proseguire l’opera di Gavriel e Rivka
all’indomani dell’attentato, negli oltre cinquecento bambini nati
quest’anno a cui sono stati dati i loro nomi, nei centri ebraici Chabad
vecchi e nuovi in cui si porta avanti l’ebraismo ogni giorno con
entusiasmo e allegria.
Davanti alla platea affollata e visibilmente commossa, il senso più
profondo di questo momento che ha voluto portare la luce dopo il buio,
è stato espresso dal vibrante e sofferto discorso del rabbino Shimon
Rosenberg, padre di Rivka (nell'immagine).
Rossella
Tercatin
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pilpul |
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Nomi sospetti
Un collega mi ha raccontato la storia di una giovane, promettente
cantante country a cui il manager ha "fortemente raccomandato" di
scegliersi un nome d'arte, perché il suo cognome suona troppo ebraico.
Questo negli USA, nazione notoriamente filoebraica. Visto il mio
sgomento, mi ha consolato spiegando che "anche un cognome italiano
sarebbe improponibile per un country singer". Il pregiudizio si annida
persino nella musica popolare.
Massimo
Bassan |
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rassegna stampa |
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Due argomenti sono protagonisti della rassegna di
oggi: il processo di Monaco di Baviera all'ucraino Demjanuk, accusato
di essere stato quell'aguzzino del lager di Sobibor in Polonia detto
Ivan il Terribile, corresponsabile dell'uccisione di 27.900 ebrei. Lui
nega, si fa schermo dei suoi 89 anni ed esagera sistematicamente le sue
cattive condizioni di salute, che pure secondo i consulenti del
tribunale non erano incompatibili con l'estradizione dagli Stati Uniti
e gli impediscono di partecipare al processo, si atteggia a vittima e
ha l'improntitudine di paragonare la sua condizione "a quelle degli
ebrei". Per ragioni di tempo questo è forse, come scrive Romano Beda
sul Sole e una nota della Stampa, "l'ultimo processo" ai
criminali nazisti e assume quindi un significato simbolico che va al di
là del puro accertamento dei fatti. Ne scrivono fra gli altri Savignano
su Avvenire, Caracciolo sul Mattino, Walter Rauhe sul Messaggero, Mazzolini
sul Giornale: tutti cronisti che
espongono i fatti terribili accaduti nel Lager e le prove contro
Demjanuk, senza lasciarsi coinvolgere dal vittimismo dell'imputato.
L'altro argomento chiave di oggi è la prosecuzione del dibattito sul
referendum svizzero che a grande maggioranza ha incluso nella
costituzione elvetica la proibizione dei minareti, non delle moschee:
una discussione che secondo La Stampa "divide l'Italia".
L'argomento è oggetto di un corposo dossier sull'Avvenire (aperto da un
editoriale di Paolucci), e di un altro sull'"Unità" (fra l'altro
comprendente la cronaca di Mastroluca e l'opinione di Lockhaus), tutti fortemente
contrapposti alla scelta svizzera, e di articoli su quasi tutta la
stampa. Con rare eccezioni (innanzitutto la caute e ponderate parole di
rav Riccardo Di Segni sulla Stampa; e in maniera molto più
polemica Maglie su Libero, Socci su Libero, Sbai su Avvenire) la stampa italiana
accetta per lo più piattamente l'interpretazione del referendum data da
organizzazioni politiche come la Conferenza Islamica e i Fratelli
musulmani, come vengono riassunti anche da Ball sul Wall Street Journal: si
tratterebbe di un "segnale d'odio" (L'Avvenire), cioè un atto di
aggressione alla libertà religiosa, "razzismo contro tutti gli
islamici" (L'Avvenire) che "danneggia la
libertà religiosa" (L'Osservatore romanov) e rischia di "far sfaldare
la società" (ancora L'Avvenire), espressione di
irrazionale intolleranza, insomma un momento di "estremismo", che
rischia di produrre un "effetto domino" per esempio in Olanda e
Danimarca (Avvenire); e inoltre di
radicalizzare ulteriormente l'immigrazione islamica. Infine la
decisione avrebbe sbagliato obiettivo, perché quel che conta non
sarebbe l'architettura delle moschee, ma quel che vi si dice dentro
(Battista sul Corriere di ieri contro cui oggi
polemizza Socci.
La mia opinione è che queste critiche siano improprie e un po'
rischiose. Intanto è evidente che non qui è questione di libertà di
preghiera, che non era assolutamente in gioco nel referendum. Ma certo
la questione non è neppure puramente architettonico/paesistica, come ha
cercato di metterla ieri Cardini sulla Stampa. Il punto, molto
chiaramente dichiarato dalle organizzazioni che hanno proposto il
referendum, sta nel fatto che l'Islam con cui dobbiamo confrontarci
oggi non è una semplice religione, ma una forma politico/sociale oltre
che religiosa, la quale si porta dietro una certa concezione dei
rapporti familiari, un tipo di giustizia, un'idea dello Stato e della
convivenza civile. Non a caso la parola stessa Islam non vuol dire
fede, né indica il fondatore della religione o definisce l'appartenenza
a un popolo, ma significa sottomissione. I minareti, che non sono parte
del culto musulmano più di quanto i campanili non lo siano di quello
cattolico, sono il simbolo della proiezione sullo spazio pubblico del
dominio islamico, non della sua fede.
Il referendum svizzero, com'era già accaduto alle ultime elezioni
europee, è un forte segnale dell'inquietudine di una larga parte della
popolazione (in questo caso quasi i due terzi dell'elettorato svizzero)
per quello che viene percepito come un processo di invasione culturale
e di snazionalizzazione da parte di una cultura aggressiva e
intollerante, in con significativi settori violenti, e in generale
estranea alle conquiste civili della società europea, alla sua
concezione di libertà. Il fatto che forze politiche, governi,
istituzioni, giornali non approvino, condannino, addirittura
scherniscano questa preoccupazione (Zatterin sulla Stampa, Marco Politi sul Fatto) segnala un pericoloso
distacco da queste preoccupazioni maggioritarie di élites
autoreferenziali, molto più ideologizzate di quel che si creda o di
quanto esse stesse credano, di fatto ormai conquistate dal politically
correct e in particolare dal progetto di un'Europa "multiculturale",
cioè almeno in parte da islamizzare, nella migliore delle ipotesi
trasformata in un "melting pot" all'americana o in un comunitarismo di
stile inglese.
Si dà il caso che questo progetto incontri forti resistenze non da
frange minoritarie estremiste ma da una consistente maggioranza
dell'elettorato, anche in paesi tradizionalmente tolleranti e
differenziati religiosamente come la Svizzera. Quando una forza storica
del genere si presenta, è difficile che sparisca di fronte
all'ammonimento o alla "superiore cultura" di vescovi e giornalisti: si
tratta del senso forte di un'identità culturale che non si oppone ad
altre religioni, non rifiuta per esempio affatto l'ebraismo, non teme
tutte le altre identità (non per esempio gli altri europei, coloro che
provengono dall'ex Unione Sovietica), che non fa certo questione di
colore della pelle o di "razza", ma teme specificamente
l'islamismo. Se questa preoccupazione, anche per via del fuoco di
sbarramento multiculturalista cui assistiamo oggi, non trova un canale
politico democratico (com'è accaduto in Svizzera) allora sì che sarà il
caso di preoccuparsi per la possibilità che essa vada ad alimentare le
forze autenticamente razziste e autoritarie che si sono manifestate per
esempio nell'Est europeo.
Sugli altri argomenti, da notare un commento di Carlo Panella sulla
decisione iraniana di costruire dieci nuovi impianti di arricchimento
dell'uranio come sconfitta della politica di Obama su Libero e l'intervista a Luttwark
sullo stesso tema su Liberal. Da leggere infine il
reportage di Terra sulla ricostruzione della
grande sinagoga di Beirut, non sempre equilibrato, com'è ovvio dato il
carattere del giornale, ma qua e là interessante
Ugo
Volli
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili.
Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per
concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross.
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