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L'Unione informa |
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4 dicembre 2009 - 17 Kislev 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
Ad
Avraham che mai nascose la sua identità ebraica Dio garantì: "Chi ti
benedirà io benedirò e chi ti maledirà io maledirò". A Iaakòv che si
fece passare per il fratello fu detto: "Siano maledetti quelli che ti
maledicono e benedetti quelli che ti benedicono". Un ebreo che si
maschera da 'Esàv credendo così di acquistare benevolenze e onore dovrà
fare prima i conti con le maledizioni che deriveranno dal suo
travestimento. (Rav Sergio Joseph Sierra z"l) |
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Un
giovane marocchino di 22 anni, Said Bouidria, si è impiccato a
Civitavecchia. Sembra che volesse convertirsi al cattolicesimo e fosse
sottoposto a fortissime pressioni famigliari. E' una tragedia, che
colpisce un giovane, un lavoratore desideroso di integrarsi nella
società italiana, un ragazzo che è andato volontario a soccorrere i
terremotati dell'Aquila. E che voleva solo scegliere il Dio in cui
credere. Il diritto a professare la religione che si vuole, e quindi
anche a cambiare religione, è un diritto umano fondamentale. Un tempo,
lo violava la Chiesa, bruciando come apostati coloro che abbandonavano
il cattolicesimo. Ora, la pena di morte colpisce gli apostati soltanto
nel mondo islamico. Per fortuna, gli ebrei non hanno mai avuto in mano
la spada, e non sappiamo cosa avrebbero fatto ove la avessero avuta. Ma
credo che negare il diritto a convertirsi, da qualunque punto si parta
a qualunque punto si voglia arrivare, non è molto diverso
dall'esercizio della forza nelle conversioni o dalla punizione con la
morte degli apostati. Credere è un diritto, scegliere la propria fede è
un diritto troppo spesso conculcato per cui proprio noi ebrei, che
tanto a lungo siamo stati sottoposti a conversioni forzate e roghi,
dovremmo batterci. Per tutti e in qualunque situazione. |
Anna Foa,
storica |
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davar |
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Qui Milano - Revivim, formazione e cultura ebraica
“Si
spanda come pioggia il mio insegnamento, stilli come rugiada il mio
discorso, come pioggia leggera sul prato, come pioggia fitta sull’erba”
(Devarìm 32,2) Con questa suggestiva metafora sono stati
presentati ieri sera i corsi e seminari del progetto Revivim, “pioggia”
appunto, organizzato dalla Comunità Ebraica di Milano con la
collaborazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, per un
insegnamento su vari aspetti della vita ebraica che raggiunga tutti,
ciascuno secondo le sue necessità. Corsi che costituiscono la
naturale continuazione del seminario di formazione per insegnanti della
scuola primaria in materie ebraiche, giunto al suo quarto anno, ma che
si rivolgono all’intera Comunità, con materie che spaziano dalla
pedagogia ebraica alla storia, dal pensiero ebraico al sionismo, senza
dimenticare le numerosissime proposte relative allo studio della Torà,
e a vari aspetti religiosi, dal significato delle feste, a quello della
Parashà settimanale. Il progetto è stato illustrato dalla responsabile Moria Maknouz,
insegnante e coordinatrice per l’ebraico-ebraismo della scuola per
l’infanzia della Comunità. “Da molti anni avevo in mente di realizzare
qualcosa che permettesse di approfondire diverse questioni relative
all’identità ebraica e allo stesso tempo che consentisse di ottenere un
attestato concreto della formazione acquisita – ha spiegato – Così è
nato dapprima il seminario per morot, e ora, grazie alla collaborazione
e all’incoraggiamento di tante persone che ringrazio, proseguiamo con
Revivim, che è un progetto completo perché consente di occuparsi degli
aspetti più diversi dell’ebraismo e non solo in chiave didattica.
Speriamo di trovare sempre maggiori adesioni per i nostri corsi, in
particolare tra i giovani, e di creare collaborazioni con le altre
comunità ebraiche del Nord Italia”. Sull’importanza e sul significato del concetto di studio della Torà, si è concentrato il rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib,
docente di vari dei corsi di Revivim, con un piccolo Davar Torà che ha
voluto presentare il progetto nel modo più consono al suo
spirito. “Secondo il mio punto di vista, lo studio della
Torà è fondamentale per la vita della nostra Comunità – ha sottolineato
rav Arbib – Ma cosa significa studiare Torà?”. A questo interrogativo
si può rispondere, secondo il rav, con un Midrash. Quando arrivò il
grande momento della Rivelazione sul Monte Sinai, si trova scritto che
D-o scese tra il popolo per il Matan Torà, il dono della Torà. Allo
stesso tempo però è narrato che Mosè salì sul Monte a riceverla. In che
modo le due indicazioni si possono conciliare? Fu D-o a scendere o Mosè
a salire? Il Midrash racconta che quando D-o diede al popolo ebraico la
Torà, prese il cielo, lo ripiegò, e lo stese sul Monte, come una
tovaglia, rendendolo tutt’uno con la terra. “Il cielo – ha spiegato rav
Arbib – rappresenta il nostro intelletto, la razionalità, la terra
invece sono i sentimenti, gli impulsi, l’istinto. Non sempre
l’intelletto prevale sull’istinto, ma quando studiamo Torà, in quel
momento, le due componenti dell’animo umano si fondono. Cielo e Terra
diventano un’unica entità. Questo significa studiare Torà” ha concluso
rav Arbib, con l’augurio che durante questi corsi si riesca, almeno in
parte, a realizzare questo intento.
Rossella Tercatin
Qui Torino - L’iniziativa Jstone, l'accordo Matimop e CRT e le sinergie fra imprese italiane e internazionali
Presentato
a Torino il primo accordo di cooperazione stipulato tra una fondazione
bancaria italiana, la CRT, e Israele. Al centro dell’accordo siglato
con il Matimop (Israeli Industry Center for R&D, braccio operativo
del Chief Scientist israeliano) la promozione
di attività bilaterali nel campo della ricerca e dello sviluppo
industriale, tra soggetti italiani e israeliani, riguardante la
creazione di nuovi prodotti, applicazioni o processi da vendere sul
mercato globale. L’iniziativa rientra nel più ampio e ambizioso
progetto “Jstone”, la management company costituita nell’ambito della
Fondazione Sviluppo e crescita Crt, “il cui scopo” ci racconta Dario Peirone,
amministratore delegato di JStone e presidente dell’associazione
Italia-Israele, “è quello di creare una sinergia, un contatto vero fra
imprese italiane, nello specifico piemontesi, e partner
internazionali”. Un ponte per mettere in relazione esperienze diverse,
volto in particolare a valorizzare il cosiddetto “science to business”,
il contatto fra innovazione scientifica e tecnologica e il mondo
industriale. Il nome, Jstone, pietra, è sia un“omaggio agli
amici israeliani”, ma soprattutto rappresenta il tentativo di fare da
cerniera fra il passato e il futuro dell’industria. “Come le pietre di
Gerusalemme - ci spiega Dario Peirone - fanno da raccordo fra la storia
e la modernità, essendo il materiale di edifici antichi quanto delle
costruzioni recenti”. Jstone nasce nel luglio del 2008 per mano di
Peirone, in collaborazione con Angelo Miglietta, segretario generale di
Fondazione CRT. “Abbiamo cercato di trovare per le eccellenze
piemontesi dei partner validi e professionali, nei paesi, come Israele,
in cui ci sia un’ottima immagine dell’Italia e una preparazione tecnica
di primo livello”. “JStone - spiega il presidente managment company, Mario Rey
- cerca di colmare la carenza di interfaccia che fino ad oggi ha
caratterizzato il Piemonte, incontrando le esigenze e richieste che si
sollevano dal mondo istituzionale e industriale che da subito si sono
dimostrati favorevoli ed entusiasti di questo progetto”. Il primo contatto è già stato creato. Alla presentazione nella sede della Fondazione Crt sono presenti come ospiti interessati Michel Hivert, direttore generale del Matimop, e Pietro Perlo,
dirigente del Centro Ricerche Fiat. Nel pomeriggio Hivert ha visitato
proprio il centro ricerche della casa automobilistica torinese. Forse
il primo passo per un sodalizio fra una delle aziende cardine del
panorama italiano e le istituzioni israeliane. Tornando
all’accordo con Israele, Peirone sottolinea che “non è stata un’intesa
con i singoli ma volutamente con l’intero sistema israeliano”. Una
collaborazione ad ampio spettro dunque, in modo da avvicinare le
aziende piemontesi all’efficienza e preparazione della realtà
israeliana. Ma sono le idee che vengono premiate, non basta avere
un’impresa, è necessario promuovere l’innovazione e la ricerca. “Noi -
spiega il direttore generale Hivert - finanziamo i progetti, non le
compagnie. Abbiamo speso trecento milioni di dollari lo scorso anno in
settecento iniziative. La metà di questi soldi arriva dalle royalties,
per cui ci autofinanziamo tramite i brevetti”. In Israele
l’investimento sulle nuove tecnologie e sulle scoperte scientifiche è
tale che il paese si trova, nel panorama internazionale, ai primissimi
posti per le iniziative di ricerca e sviluppo. “Il livello di
approfondimento e attenzione - sostiene Pietro Perlo, ricordando uno
dei primi progetti condotti da Fiat con Israele - è incredibile. La
professionalità è su tutti i livelli, persino gli investitori conoscono
tutti i dettagli delle iniziative - e aggiunge scherzando - a volte mi
trovavo con finanziatori più preparati di me su un progetto di cui il
capo, però, ero io”. Poi Perlo presente un progetto che potrebbe far
gola proprio per un investimento israeliano, ma non solo: una macchina
coperta di pannelli fotovoltaici. “L’era del petrolio è finita” e se lo
dice un’esponente della Fiat forse bisogna crederci. Proprio la
casa automobilistica torinese è un ottimo esempio della necessità di
incoraggiare l’impulso all’innovazione, caposaldo della missione di
Jstone e della Fondazione Crt. “Come fondazione portiamo avanti un
discorso di venture philanthropy - sostiene il segretario generale Angelo Miglietta
- non facciamo solo investimenti a fondo perduto ma cerchiamo di
partecipare attivamente per valorizzare il territorio. Puntiamo sul
futuro, sulla ricerca, l’arte, sul sociale” poi scherza “a
dimostrazione che noi piemontesi non siamo dei bugia nen (che non si
muovono)”. In un periodo in cui in Italia assistiamo inermi alla
ormai nota “fuga dei cervelli” e in cui sempre più giovani guardano
all’estero come meta futura, un’iniziativa di questo genere è un
segnale significativo. Guardare avanti, all’innovazione, alla ricerca,
è la chiave; il problema è avere il coraggio di usarla per aprire la
porta.
Daniel Reichel
Qui Roma - Università di Tor Vergata, Walter Veltroni e il ricordo della Shoà
Proseguono
gli incontri di riflessione, promossi dalla facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Tor Vergata e dal Centro Romano di Studi
sull’Ebraismo (CeRSE), in vista del Giorno della Memoria. Martedì 1
Dicembre, alla presenza di circa 250 studenti delle scuole romane, e di
molte autorità accademiche, Walter Veltroni
– in veste di copresidente del Summit dei premi Nobel per la Pace - è
intervenuto sul tema: “Auschwitz e il principio di responsabilità
civile, morale e politica oggi”. L’incontro, come ha spiegato
nell’introduzione Marina Formica,
docente di Storia moderna e vicepreside della facoltà di Lettere e
Filosofia, si inserisce in un’idea precisa: quella di arrivare al
Giorno della Memoria avendo compiuto, in via preliminare, un’esperienza
di approfondimento e riflessione. Veltroni è il politico che prima di
altri ha mostrato una sensibilità particolare nei confronti del tema
della Memoria legata alla Shoà e della trasmissione di questa stessa
Memoria ai giovani, come dimostra il progetto di viaggi ad Auschwitz,
da lui portato avanti, dal titolo: “Noi ricordiamo”, esperienza di
“viaggio-conoscenza” con le scolaresche romane nei campi di
concentramento. “Noi”, d’altra parte, è anche il titolo del suo ultimo
romanzo che ripercorre, attraverso quattro generazioni, la storia del
nostro paese a partire proprio dalla deportazione degli ebrei romani il
16 ottobre del ‘43 fino ad un ipotetico futuro nel 2025. In questo
contesto, Marina Formica ricorda anche l’impegno dell’Università di Tor
Vergata nei confronti del ricordo della Shoà. Affermandosi come luogo
deputato alla ricerca e richiamandosi a valori etici imprescindibili
per ogni genere di formazione, l’Università ha anch’essa organizzato i
viaggi negli ex campi di concentramento, oltre che lezioni e incontri
volti a sensibilizzare gli studenti su questo tema. La finalità è di
evitare di “storicizzare Auschwitz” per non considerare il nazismo come
uno di tanti fenomeni di intolleranza del passato, ma come un evento
particolare dopo il quale “niente sarà più come prima” come afferma una
frase “lapidaria” interna al romanzo “Noi”. Nel corso della mattinata, Riccardo Pacifici,
presidente della Comunità Ebraica di Roma, ha sottolineato l’importanza
di saper raccontare il dramma della Shoà alle nuove generazioni, non
solo sotto l’aspetto delle emozioni, nel momento in cui non ci sarà più
il contributo dei sopravvissuti- testimoni. L’immagine sempre viva
della Shoà deve servire quale costante “anticorpo” ai diversi tipi di
razzismo che ciclicamente si ripresentano nella storia sotto forme
diverse. [...]
La versione integrale dell'articolo è sul Portale dell'ebraismo italiano moked.it
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Con questi sampietrini non si scivola più nell'oblio
Si chiama Stolperstein,
che in tedesco vuoi dire pietra d'inciampo, ed è un normale sampietrino
ricoperto da una lamina d'ottone con il nome, l'età, il giorno, la
destinazione finale e, se nota, anche la data di morte di un deportato
dai nazisti. Dopo la giornata della Memoria, dal 28 gennaio prossimo,
in sette municipi di Roma saranno poste trenta pietre d'inciampo
davanti agli edifici da cui, nel '43 e nel '44, i deportati per motivi
razziali, politici e militari uscirono per non fare più ritorno.
«Purtroppo mancano i deportati rom e sinti, perché a loro non siamo in
grado di risalire» dice la curatrice del progetto Adachiara Zevi, figlia di Tullia, la prima donna ad aver presieduto l'Unione delle comunità ebraiche italiane.
Il progetto, coordinato dagli Incontri internazionali d'arte e promosso
da istituti e associazioni ebraiche e non, rilancia l'iniziativa
dell'artista tedesco Gunter Demning, che sarà a Roma il giorno
dell'inaugurazione. Nel 1993, Demning era a Colonia per realizzare
un'opera sulla deportazione di rom e sinti, ma una signora polemizzò:
nella sua città non erano mai stati deportati. Da allora Demning si
mise sulle tracce dei perseguitati dal nazismo scomparsi: ebrei,
politici, rom e sinti, omosessuali, militari. Finora ha installato
cinquemila Stolpersteine in
Europa. «È una commemorazione che non vuole essere monumentale.
L'inciampo, più visivo e mentale che fisico, è forse più perturbante.
Infatti in alcune città gli inquilini hanno protestato» dice Zevi. Ogni
Stolperstein, finanziata
privatamente, costa dai 75 ai 95 euro, installazione compresa. E il
Comune si impegna a mantenere queste memorie d'inciampo.
Paola Zanuttini, Il Venerdì di Repubblica, 4 dicembre 2009 |
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Partiamo
da una non notizia o, per meglio dire, da un brusio di fondo che
commenta l’altrui assenza invece della presenza. Seguendo la partitura
del teatro dell’assurdo, elevato in Medio Oriente a criterio
quotidiano, ancora una volta dobbiamo riscontrare come al convulso
susseguirsi di «rumors», ovvero di voci sempre più insistenti, che
nelle ultime settimane accreditavano come imminente la liberazione del
caporale Gilad Shalit, fino ad ora nulla sia successo. Come si temeva,
vale ancora una volta il detto per cui «tanto rumore [è] per nulla». Al
di là della difficile vicenda umana, sua e dei suoi congiunti, e oltre
al vivace dibattito innescatosi in Israele, al quale rimanda Sergio
Romano su Panorama,
nel merito della liceità politica e alla opportunità morale di uno
scambio che consegnerebbe alla libertà almeno un migliaio di detenuti
per ragioni di terrorismo, quel che residua dallo svolgimento delle
defatiganti trattative e - soprattutto - dal modo in cui si è dato
contro in pubblico delle medesime è, ancora una volta, l’obbligo di una
riflessione sul sistema dei media. Che sempre più condizionano i tempi
sociali e della vita politica, se ci è concesso annoverare la vicenda
di Shalit in quest’ultimo capitolo. Un grande studioso dei sistemi di
informazione (categoria ben più ampia di quanto non si pensi), ovvero
Marshall McLuhan, ha formulato l’assunto per cui il terrorismo si
alimenta essenzialmente (forse unicamente…) di eclatante visibilità e
questa gli è offerta dai grandi mezzi di comunicazione. Nessuna
organizzazione e nessun misfatto di matrice terroristica avrebbero vita
lunga se non esistesse un proscenio sul quale rappresentare, dinanzi ad
un pubblico nel medesimo tempo inerte, inerme e coinvolto, le tragedie
di chi è chiamato in causa dall’altrui violenza. Il ventitreenne Shalit
pare poi avere le «physique du role», acerbo com’è d’aspetto, con un
volto spaurito e trasognato da moderno Bambi, che raccoglie e orienta
la fantasia dell’osservatore verso la sua irrisolta fanciullezza. Le
sue immagini sono quindi altamente performative, quanto meno nella
misura in cui il proiettarle in televisione o, comunque, in pubblico,
demanda a qualcosa in cui possiamo mentalmente identificarci, ossia
alla fragilità che spesso si accompagna alla giovane età. Chi ha
ripreso il prigioniero, sapeva bene di colpire la sensibilità di quanti
ne avrebbero poi visto la persona, incerta e quasi un poco trasognata,
recitare la partitura impostagli dai carcerieri. C’è quindi una
pluralità di effetti nel moderno terrorismo “mediatizzato”, a partire
da quelli di amplificazione, sovrapposizione, condivisione e di
inibizione, che danno sostanza alla sua azione, conferendole sempre di
più una potenza galvanizzante sul piano degli effetti diffusi, quelli
che maturano e sedimentano all’ombra delle emozioni collettive.
Amplificazione dei singoli gesti, ripetuti nelle immagini che scorrono
sotto i nostri occhi migliaia di volte; sovrapposizione tra l’altrui
esperienza e la nostra, in quest’ultimo caso di osservatori fuori
campo; condivisione affettiva, che ci induce a sentirci parte di una
sorta di comunità, che è legata insieme dal fatto di consumare le
stesse immagini e un identico modo di dare ad esse un significato;
inibizione all’azione, poiché la frustrazione e l’alienazione che
derivano da certe rappresentazioni mediatiche comunicano la percezione
di essere espropriati di un ruolo decisionale, passivizzati dinanzi
all’evoluzione degli eventi, quasi fossero inesorabili e inarrestabili.
Le storie dei soldati rapiti o scomparsi nei territori controllati da
organizzazioni come Hamas, Hezbollah, Jihad islamico ne sono il
riscontro palmare. All’incertezza e all’affettazione che tali eventi
ingenerano nel pubblico, non solo israeliano, difficilmente i governi
possono rispondere in maniera adeguata. Il limite sta non nella
“incapacità” di questi ma nella palese asimmetria che esiste tra la
politica legale, che sempre si deve sottoporre al giudizio della
collettività, e quella oscura e sotterranea, della quale si alimentano
vantaggiosamente le organizzazioni dell’arcipelago della lotta armata.
In questo caso la sproporzione gioca chiaramente a sfavore degli
esecutivi, costretti a muoversi tra l’incudine dell’angoscia collettiva
e il martello di una legalità tanto necessaria quanto vincolante. A
tale riguardo si legga anche ciò che Antonio Picasso firma per Liberal in merito alle ultime, tragiche vicende occorse a Mogadiscio, insieme all’articolo, anch’esso su Liberal,
di Osvaldo Baldacci. Sempre sul Medio Oriente, infine, registriamo una
piccola ridda di pronunciamenti sulla contestata politica israeliana a
Gerusalemme Est. Così l’Osservatore romano, Francesca Marretta su Liberazione, Le Figaro e, infine, Le Monde.
(Quest’ultimo rimanda anche ai difficili rapporti tra Israele e
l’Unione Europea.) Il risultato del recente referendum svizzero, che ha
bocciato la costruzione di nuovi minareti, intesi dai votanti come il
segno di una egemonia culturale che si vorrebbe così cementare,
continua a far parlare di sé, con effetti potremmo dire “a cascata”.
Un’ampia corrispondenza, la cui lettura raccomandiamo, è quella offerta
da Marco Cobianchi e Damiano Iovino su Panorama.
Si tratta di un articolo di grande respiro dove l’attenzione è rivolta
al nostro paese e a quanto si agita nella sua “pancia” rispetto alla
questione dell’immigrazione musulmana, laddove almeno sei italiani su
dieci sarebbero contrari all’edificazione all’ostensione dei simboli
islamici. Liberazione
ci dà poi conto della preoccupata reazione della comunità ebraica di
Berlino, che legge in ciò un passo indietro rispetto al dialogo e allo
scambio interculturale. Segnaliamo poi la recensione di Segre, su il Giornale,
del provocatorio libro di Shlomo Sand intitolato a «L’invenzione
del popolo ebraico», laddove si sostiene la mancanza di un ceppo
originario dell’ebraismo “demografico”, ossia l’inesistenza degli ebrei
in origine come comunità a sé, ed invece il suo costruirsi
essenzialmente come complesso di ibridazioni. Da ciò l’autore del libro
fa inoltre derivare l’“invenzione” della diaspora, utilizzata
strumentalmente dal movimento sionista per accreditare le sue tesi. Al
di là del ballon d’essai che l’incauto ricorso ad affermazioni così
perentorie può scatenare, e tralasciando gli esiti delegittimanti che,
inesorabilmente, una contro-narrazione così forte come quella di Sand
comporta, soprattutto per Israele, il problema non è quello di
rifiutare «in toto» quanto va dicendo ma di leggerci l’evoluzione del
modo in cui gli ebrei hanno pensato a sé (e al mondo circostante) nel
corso del tempo. Il significato che noi attribuiamo a parole come
«popolo», «nazione» e, ancor più, a termini di per sé ambigui poiché
polisemici come «identità» e «religione», è mutato nel corso del tempo.
Il movimento sionista, sorto nella seconda metà del XIX secolo, ha
abbondantemente fatto ricorso a tale repertorio, utilizzato anche da
tutti gli altri movimenti di risorgimento nazionale. Gli storici lo
sanno bene, così come sanno ancor meglio che le cosiddette
«tradizioni», sono spesso il prodotto di profondi mutamenti e non la
risultante di una presunta immodificabilità di comportamenti e
atteggiamenti. Se fosse stato altrimenti, l’umanità non avrebbe fatto
un passo in avanti ma senz’altro due indietro. Non di meno, il
demandare a radici antiche non indica la volontà di falsificare il
passato ma un modo per leggere il proprio presente e orientare, nel
limite del possibile, il divenire. Si avrà modo di tornare su questo
passaggio, cruciale nella costruzione dell’autocoscienza di gruppo, al
quale l’ebraismo ha offerto un contributo inestimabile, permettendo
all’uomo contemporaneo di orientarsi nella babelica modernità dei
nostri tempi. Da ultimo, infine si legga la recensione di Alberto
Crespi su l’Unità
all’ultimo film degli spumeggianti e irriverenti fratelli Coen, «A
Serious Man». Andiamolo a vedere, tralasciando per un po’ i faticosi
pensieri che accompagnano le nostre giornate. Claudio Vercelli |
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Frattini incontrerà Netanyahu e Fayyad in Medioriente per dare una spinta al rilancio del processo di pace Roma, 3 dic - Nell'ambito
dell'attività diplomatica in Medioriente e per una ripresa al più
presto del negoziato di Pace, il ministro degli Esteri Franco Frattini,
il prossimo 9 dicembre sarà in Israele e nei territori occupati.
L'annuncio del prossimo viaggio di Frattini è stato fatto dal portavoce
della Farnesina, Maurizio Massari, nel corso di un briefing con la
stampa, sottolineando che Frattini avrà "incontri ad alto livello" sia
con il governo israeliano sia con l'Autorità palestinese. In
particolare il capo della diplomazia italiana - è stato spiegato -
dovrebbe vedere il premier ed il ministro degli Esteri di Israele,
Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman, ed il primo ministro
palestinese Salam Fayyad. Lo stesso portavoce ha precisato che la
visita del ministro Frattini non “é legata a particolari scadenze o
eventi" e rientra nella "attività diplomatica in Medioriente". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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