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L'Unione informa
 
    4 dicembre 2009 - 17 Kislev 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Roberto Colombo, rabbino Roberto Colombo, rabbino Ad Avraham che mai nascose la sua identità ebraica Dio garantì: "Chi ti benedirà io benedirò e chi ti maledirà io maledirò". A Iaakòv che si fece passare per il fratello fu detto: "Siano maledetti quelli che ti maledicono e benedetti quelli che ti benedicono". Un ebreo che si maschera da 'Esàv credendo così di acquistare benevolenze e onore dovrà fare prima i conti con le maledizioni che deriveranno dal suo travestimento. (Rav Sergio Joseph Sierra z"l)
Un giovane marocchino di 22 anni, Said Bouidria, si è impiccato a Civitavecchia. Sembra che volesse convertirsi al cattolicesimo e fosse sottoposto a fortissime pressioni famigliari. E' una tragedia, che colpisce un giovane, un lavoratore desideroso di integrarsi nella società italiana, un ragazzo che è andato volontario a soccorrere i terremotati dell'Aquila. E che voleva solo scegliere il Dio in cui credere. Il diritto a professare la religione che si vuole, e quindi anche a cambiare religione, è un diritto umano fondamentale. Un tempo, lo violava la Chiesa, bruciando come apostati coloro che abbandonavano il cattolicesimo. Ora, la pena di morte colpisce gli apostati soltanto nel mondo islamico. Per fortuna, gli ebrei non hanno mai avuto in mano la spada, e non sappiamo cosa avrebbero fatto ove la avessero avuta. Ma credo che negare il diritto a convertirsi, da qualunque punto si parta a qualunque punto si voglia arrivare, non è molto diverso dall'esercizio della forza nelle conversioni o dalla punizione con la morte degli apostati. Credere è un diritto, scegliere la propria fede è un diritto troppo spesso conculcato per cui proprio noi ebrei, che tanto a lungo siamo stati sottoposti a conversioni forzate e roghi, dovremmo batterci. Per tutti e in qualunque situazione.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Qui Milano - Revivim, formazione e cultura ebraica

Revivim_pubblico“Si spanda come pioggia il mio insegnamento, stilli come rugiada il mio discorso, come pioggia leggera sul prato, come pioggia fitta sull’erba” (Devarìm 32,2)
Con questa suggestiva metafora sono stati presentati ieri sera i corsi e seminari del progetto Revivim, “pioggia” appunto, organizzato dalla Comunità Ebraica di Milano con la collaborazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, per un insegnamento su vari aspetti della vita ebraica che raggiunga tutti, ciascuno secondo le sue necessità.
Corsi che costituiscono la naturale continuazione del seminario di formazione per insegnanti della scuola primaria in materie ebraiche, giunto al suo quarto anno, ma che si rivolgono all’intera Comunità, con materie che spaziano dalla pedagogia ebraica alla storia, dal pensiero ebraico al sionismo, senza dimenticare le numerosissime proposte relative allo studio della Torà, e a vari aspetti religiosi, dal significato delle feste, a quello della Parashà settimanale.
Il progetto è stato illustrato dalla responsabile Moria Maknouz, insegnante e coordinatrice per l’ebraico-ebraismo della scuola per l’infanzia della Comunità. “Da molti anni avevo in mente di realizzare qualcosa che permettesse di approfondire diverse questioni relative all’identità ebraica e allo stesso tempo che consentisse di ottenere un attestato concreto della formazione acquisita – ha spiegato – Così è nato dapprima il seminario per morot, e ora, grazie alla collaborazione e all’incoraggiamento di tante persone che ringrazio, proseguiamo con Revivim, che è un progetto completo perché consente di occuparsi degli aspetti più diversi dell’ebraismo e non solo in chiave didattica. Speriamo di trovare sempre maggiori adesioni per i nostri corsi, in particolare tra i giovani, e di creare collaborazioni con le altre comunità ebraiche del Nord Italia”.
Sull’importanza e sul significato del concetto di studio della Torà, si è concentrato il rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib, docente di vari dei corsi di Revivim, con un piccolo Davar Torà che ha voluto presentare il progetto nel modo più consono al suo spirito. 
“Secondo il mio punto di vista, lo studio della Torà è fondamentale per la vita della nostra Comunità – ha sottolineato rav Arbib – Ma cosa significa studiare Torà?”. A questo interrogativo si può rispondere, secondo il rav, con un Midrash. Quando arrivò il grande momento della Rivelazione sul Monte Sinai, si trova scritto che D-o scese tra il popolo per il Matan Torà, il dono della Torà. Allo stesso tempo però è narrato che Mosè salì sul Monte a riceverla. In che modo le due indicazioni si possono conciliare? Fu D-o a scendere o Mosè a salire? Il Midrash racconta che quando D-o diede al popolo ebraico la Torà, prese il cielo, lo ripiegò, e lo stese sul Monte, come una tovaglia, rendendolo tutt’uno con la terra. “Il cielo – ha spiegato rav Arbib – rappresenta il nostro intelletto, la razionalità, la terra invece sono i sentimenti, gli impulsi, l’istinto. Non sempre l’intelletto prevale sull’istinto, ma quando studiamo Torà, in quel momento, le due componenti dell’animo umano si fondono. Cielo e Terra diventano un’unica entità. Questo significa studiare Torà” ha concluso rav Arbib, con l’augurio che durante questi corsi si riesca, almeno in parte, a realizzare questo intento.

Rossella Tercatin



Qui Torino - L’iniziativa Jstone, l'accordo Matimop e CRT
e le sinergie fra imprese italiane e internazionali


MatimopPresentato a Torino il primo accordo di cooperazione stipulato tra una fondazione bancaria italiana, la CRT, e Israele. Al centro dell’accordo siglato con il Matimop (Israeli Industry Center for R&D, braccio operativo del Chief Scientist crtisraeliano) la promozione di attività bilaterali nel campo della ricerca e dello sviluppo industriale, tra soggetti italiani e israeliani, riguardante la creazione di nuovi prodotti, applicazioni o processi da vendere sul mercato globale. L’iniziativa rientra nel più ampio e ambizioso progetto “Jstone”, la management company costituita nell’ambito della Fondazione Sviluppo e crescita Crt,  “il cui scopo” ci racconta Dario Peirone, amministratore delegato di JStone e presidente dell’associazione Italia-Israele, “è quello di creare una sinergia, un contatto vero fra imprese italiane, nello specifico piemontesi, e partner internazionali”. Un ponte per mettere in relazione esperienze diverse, volto in particolare a valorizzare il cosiddetto “science to business”, il contatto fra innovazione scientifica e tecnologica e il mondo industriale.
Il nome, Jstone, pietra, è sia un“omaggio agli amici israeliani”, ma soprattutto rappresenta il tentativo di fare da cerniera fra il passato e il futuro dell’industria. “Come le pietre di Gerusalemme - ci spiega Dario Peirone - fanno da raccordo fra la storia e la modernità, essendo il materiale di edifici antichi quanto delle costruzioni recenti”. Jstone nasce nel luglio del 2008 per mano di Peirone, in collaborazione con Angelo Miglietta, segretario generale di Fondazione CRT. “Abbiamo cercato di trovare per le eccellenze piemontesi dei partner validi e professionali, nei paesi, come Israele, in cui ci sia un’ottima immagine dell’Italia e una preparazione tecnica di primo livello”.
 “JStone - spiega il presidente managment company, Mario Rey - cerca di colmare la carenza di interfaccia che fino ad oggi ha caratterizzato il Piemonte, incontrando le esigenze e richieste che si sollevano dal mondo istituzionale e industriale che da subito si sono dimostrati favorevoli ed entusiasti di questo progetto”.
Il primo contatto è già stato creato. Alla presentazione nella sede della Fondazione Crt sono presenti come ospiti interessati Michel Hivert, direttore generale del Matimop, e  Pietro Perlo, dirigente del Centro Ricerche Fiat. Nel pomeriggio Hivert ha visitato proprio il centro ricerche della casa automobilistica torinese. Forse il primo passo per un sodalizio fra una delle aziende cardine del panorama italiano e le istituzioni israeliane.
Tornando all’accordo con Israele, Peirone sottolinea che “non è stata un’intesa con i singoli ma volutamente con l’intero sistema israeliano”. Una collaborazione ad ampio spettro dunque, in modo da avvicinare le aziende piemontesi all’efficienza e preparazione della realtà israeliana. Ma sono le idee che vengono premiate, non basta avere un’impresa, è necessario promuovere l’innovazione e la ricerca. “Noi - spiega il direttore generale Hivert - finanziamo i progetti, non le compagnie. Abbiamo speso trecento milioni di dollari lo scorso anno in settecento iniziative. La metà di questi soldi arriva dalle royalties, per cui ci autofinanziamo tramite i brevetti”. In Israele l’investimento sulle nuove tecnologie e sulle scoperte scientifiche è tale che il paese si trova, nel panorama internazionale, ai primissimi posti per le iniziative di ricerca e sviluppo. “Il livello di approfondimento e attenzione - sostiene Pietro Perlo, ricordando uno dei primi progetti condotti da Fiat con Israele - è incredibile. La professionalità è su tutti i livelli, persino gli investitori conoscono tutti i dettagli delle iniziative - e aggiunge scherzando - a volte mi trovavo con finanziatori più preparati di me su un progetto di cui il capo, però, ero io”. Poi Perlo presente un progetto che potrebbe far gola proprio per un investimento israeliano, ma non solo: una macchina coperta di pannelli fotovoltaici. “L’era del petrolio è finita” e se lo dice un’esponente della Fiat forse bisogna crederci.
Proprio la casa automobilistica torinese è un ottimo esempio della necessità di incoraggiare l’impulso all’innovazione, caposaldo della missione di Jstone e della Fondazione Crt. “Come fondazione portiamo avanti un discorso di venture philanthropy - sostiene il segretario generale Angelo Miglietta - non facciamo solo investimenti a fondo perduto ma cerchiamo di partecipare attivamente per valorizzare il territorio. Puntiamo sul futuro, sulla ricerca, l’arte, sul sociale” poi scherza “a dimostrazione che noi piemontesi non siamo dei bugia nen (che non si muovono)”.
In un periodo in cui in Italia assistiamo inermi alla ormai nota “fuga dei cervelli” e in cui sempre più giovani guardano all’estero come meta futura, un’iniziativa di questo genere è un segnale significativo. Guardare avanti, all’innovazione, alla ricerca, è la chiave; il problema è avere il coraggio di usarla per aprire la porta.

Daniel Reichel



Qui Roma - Università di Tor Vergata,
Walter Veltroni e il ricordo della Shoà


VeltroniProseguono gli incontri di riflessione, promossi dalla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Tor Vergata e dal Centro Romano di Studi sull’Ebraismo (CeRSE), in vista del Giorno della Memoria. Martedì 1 Dicembre, alla presenza di circa 250 studenti delle scuole romane, e di molte autorità accademiche, Walter Veltroni – in veste di copresidente del Summit dei premi Nobel per la Pace - è intervenuto sul tema: “Auschwitz e il principio di responsabilità civile, morale e politica oggi”. L’incontro, come ha spiegato nell’introduzione Marina Formica, docente di Storia moderna e vicepreside della facoltà di Lettere e Filosofia, si inserisce in un’idea precisa: quella di arrivare al Giorno della Memoria avendo compiuto, in via preliminare, un’esperienza di approfondimento e riflessione. Veltroni è il politico che prima di altri ha mostrato una sensibilità particolare nei confronti del tema della Memoria legata alla Shoà e della trasmissione di questa stessa Memoria ai giovani, come dimostra il progetto di viaggi ad Auschwitz, da lui portato avanti, dal titolo: “Noi ricordiamo”, esperienza di “viaggio-conoscenza” con le scolaresche romane nei campi di concentramento. “Noi”, d’altra parte, è anche il titolo del suo ultimo romanzo che ripercorre, attraverso quattro generazioni, la storia del nostro paese a partire proprio dalla deportazione degli ebrei romani il 16 ottobre del ‘43 fino ad un ipotetico futuro nel 2025.
In questo contesto, Marina Formica ricorda anche l’impegno dell’Università di Tor Vergata nei confronti del ricordo della Shoà. Affermandosi come luogo deputato alla ricerca e richiamandosi a valori etici imprescindibili per ogni genere di formazione, l’Università ha anch’essa organizzato i viaggi negli ex campi di concentramento, oltre che lezioni e incontri volti a sensibilizzare gli studenti su questo tema. La finalità è di evitare di “storicizzare Auschwitz” per non considerare il nazismo come uno di tanti fenomeni di intolleranza del passato, ma come un evento particolare dopo il quale “niente sarà più come prima” come afferma una frase “lapidaria” interna al romanzo “Noi”.
Nel corso della mattinata, Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica di Roma, ha sottolineato l’importanza di saper raccontare il dramma della Shoà alle nuove generazioni, non solo sotto l’aspetto delle emozioni, nel momento in cui non ci sarà più il contributo dei sopravvissuti- testimoni. L’immagine sempre viva della Shoà deve servire quale costante “anticorpo” ai diversi tipi di razzismo che ciclicamente si ripresentano nella storia sotto forme diverse. [...]

La versione integrale dell'articolo è sul Portale dell'ebraismo italiano moked.it

 
 
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  Con questi sampietrini non si scivola più nell'oblio

SampietrinoSi chiama Stolperstein, che in tedesco vuoi dire pietra d'inciampo, ed è un normale sampietrino ricoperto da una lamina d'ottone con il nome, l'età, il giorno, la destinazione finale e, se nota, anche la data di morte di un deportato dai nazisti. Dopo la giornata della Memoria, dal 28 gennaio prossimo, in sette municipi di Roma saranno poste trenta pietre d'inciampo davanti agli edifici da cui, nel '43 e nel '44, i deportati per motivi razziali, politici e militari uscirono per non fare più ritorno. «Purtroppo mancano i deportati rom e sinti, perché a loro non siamo in grado di risalire» dice la curatrice del progetto Adachiara Zevi, figlia di Tullia, la prima donna ad aver presieduto l'Unione delle comunità ebraiche italiane. Il progetto, coordinato dagli Incontri internazionali d'arte e promosso da istituti e associazioni ebraiche e non, rilancia l'iniziativa dell'artista tedesco Gunter Demning, che sarà a Roma il giorno dell'inaugurazione. Nel 1993, Demning era a Colonia per realizzare un'opera sulla deportazione di rom e sinti, ma una signora polemizzò: nella sua città non erano mai stati deportati. Da allora Demning si mise sulle tracce dei perseguitati dal nazismo scomparsi: ebrei, politici, rom e sinti, omosessuali, militari. Finora ha installato cinquemila Stolpersteine in Europa. «È una commemorazione che non vuole essere monumentale. L'inciampo, più visivo e mentale che fisico, è forse più perturbante. Infatti in alcune città gli inquilini hanno protestato» dice Zevi. Ogni Stolperstein, finanziata privatamente, costa dai 75 ai 95 euro, installazione compresa. E il Comune si impegna a mantenere queste memorie d'inciampo.

Paola Zanuttini, Il Venerdì di Repubblica, 4 dicembre 2009
 
 
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Partiamo da una non notizia o, per meglio dire, da un brusio di fondo che commenta l’altrui assenza invece della presenza. Seguendo la partitura del teatro dell’assurdo, elevato in Medio Oriente a criterio quotidiano, ancora una volta dobbiamo riscontrare come al convulso susseguirsi di «rumors», ovvero di voci sempre più insistenti, che nelle ultime settimane accreditavano come imminente la liberazione del caporale Gilad Shalit, fino ad ora nulla sia successo. Come si temeva, vale ancora una volta il detto per cui «tanto rumore [è] per nulla». Al di là della difficile vicenda umana, sua e dei suoi congiunti, e oltre al vivace dibattito innescatosi in Israele, al quale rimanda Sergio Romano su Panorama, nel merito della liceità politica e alla opportunità morale di uno scambio che consegnerebbe alla libertà almeno un migliaio di detenuti per ragioni di terrorismo, quel che residua dallo svolgimento delle defatiganti trattative e - soprattutto - dal modo in cui si è dato contro in pubblico delle medesime è, ancora una volta, l’obbligo di una riflessione sul sistema dei media. Che sempre più condizionano i tempi sociali e della vita politica, se ci è concesso annoverare la vicenda di Shalit in quest’ultimo capitolo. Un grande studioso dei sistemi di informazione (categoria ben più ampia di quanto non si pensi), ovvero Marshall McLuhan, ha formulato l’assunto per cui il terrorismo si alimenta essenzialmente (forse unicamente…) di eclatante visibilità e questa gli è offerta dai grandi mezzi di comunicazione. Nessuna organizzazione e nessun misfatto di matrice terroristica avrebbero vita lunga se non esistesse un proscenio sul quale rappresentare, dinanzi ad un pubblico nel medesimo tempo inerte, inerme e coinvolto, le tragedie di chi è chiamato in causa dall’altrui violenza. Il ventitreenne Shalit pare poi avere le «physique du role», acerbo com’è d’aspetto, con un volto spaurito e trasognato da moderno Bambi, che raccoglie e orienta la fantasia dell’osservatore verso la sua irrisolta fanciullezza. Le sue immagini sono quindi altamente performative, quanto meno nella misura in cui il proiettarle in televisione o, comunque, in pubblico, demanda a qualcosa in cui possiamo mentalmente identificarci, ossia alla fragilità che spesso si accompagna alla giovane età. Chi ha ripreso il prigioniero, sapeva bene di colpire la sensibilità di quanti ne avrebbero poi visto la persona, incerta e quasi un poco trasognata, recitare la partitura impostagli dai carcerieri. C’è quindi una pluralità di effetti nel moderno terrorismo “mediatizzato”, a partire da quelli di amplificazione, sovrapposizione, condivisione e di inibizione, che danno sostanza alla sua azione, conferendole sempre di più una potenza galvanizzante sul piano degli effetti diffusi, quelli che maturano e sedimentano all’ombra delle emozioni collettive. Amplificazione dei singoli gesti, ripetuti nelle immagini che scorrono sotto i nostri occhi migliaia di volte; sovrapposizione tra l’altrui esperienza e la nostra, in quest’ultimo caso di osservatori fuori campo; condivisione affettiva, che ci induce a sentirci parte di una sorta di comunità, che è legata insieme dal fatto di consumare le stesse immagini e un identico modo di dare ad esse un significato; inibizione all’azione, poiché la frustrazione e l’alienazione che derivano da certe rappresentazioni mediatiche comunicano la percezione di essere espropriati di un ruolo decisionale, passivizzati dinanzi all’evoluzione degli eventi, quasi fossero inesorabili e inarrestabili. Le storie dei soldati rapiti o scomparsi nei territori controllati da organizzazioni come Hamas, Hezbollah, Jihad islamico ne sono il riscontro palmare. All’incertezza e all’affettazione che tali eventi ingenerano nel pubblico, non solo israeliano, difficilmente i governi possono rispondere in maniera adeguata. Il limite sta non nella “incapacità” di questi ma nella palese asimmetria che esiste tra la politica legale, che sempre si deve sottoporre al giudizio della collettività, e quella oscura e sotterranea, della quale si alimentano vantaggiosamente le organizzazioni dell’arcipelago della lotta armata. In questo caso la sproporzione gioca chiaramente a sfavore degli esecutivi, costretti a muoversi tra l’incudine dell’angoscia collettiva e il martello di una legalità tanto necessaria quanto vincolante. A tale riguardo si legga anche ciò che Antonio Picasso firma per Liberal in merito alle ultime, tragiche vicende occorse a Mogadiscio, insieme all’articolo, anch’esso su Liberal, di Osvaldo Baldacci. Sempre sul Medio Oriente, infine, registriamo una piccola ridda di pronunciamenti sulla contestata politica israeliana a Gerusalemme Est. Così l’Osservatore romano, Francesca Marretta su Liberazione, Le Figaro e, infine, Le Monde. (Quest’ultimo rimanda anche ai difficili rapporti tra Israele e l’Unione Europea.) Il risultato del recente referendum svizzero, che ha bocciato la costruzione di nuovi minareti, intesi dai votanti come il segno di una egemonia culturale che si vorrebbe così cementare, continua a far parlare di sé, con effetti potremmo dire “a cascata”. Un’ampia corrispondenza, la cui lettura raccomandiamo, è quella offerta da Marco Cobianchi e Damiano Iovino su Panorama. Si tratta di un articolo di grande respiro dove l’attenzione è rivolta al nostro paese e a quanto si agita nella sua “pancia” rispetto alla questione dell’immigrazione musulmana, laddove almeno sei italiani su dieci sarebbero contrari all’edificazione all’ostensione dei simboli islamici. Liberazione ci dà poi conto della preoccupata reazione della comunità ebraica di Berlino, che legge in ciò un passo indietro rispetto al dialogo e allo scambio interculturale. Segnaliamo poi la recensione di Segre, su il Giornale, del  provocatorio libro di Shlomo Sand intitolato a «L’invenzione del popolo ebraico», laddove si sostiene la mancanza di un ceppo originario dell’ebraismo “demografico”, ossia l’inesistenza degli ebrei in origine come comunità a sé, ed invece il suo costruirsi essenzialmente come complesso di ibridazioni. Da ciò l’autore del libro fa inoltre derivare l’“invenzione” della diaspora, utilizzata strumentalmente dal movimento sionista per accreditare le sue tesi. Al di là del ballon d’essai che l’incauto ricorso ad affermazioni così perentorie può scatenare, e tralasciando gli esiti delegittimanti che, inesorabilmente, una contro-narrazione così forte come quella di Sand comporta, soprattutto per Israele, il problema non è quello di rifiutare «in toto» quanto va dicendo ma di leggerci l’evoluzione del modo in cui gli ebrei hanno pensato a sé (e al mondo circostante) nel corso del tempo. Il significato che noi attribuiamo a parole come «popolo», «nazione» e, ancor più, a termini di per sé ambigui poiché polisemici come «identità» e «religione», è mutato nel corso del tempo. Il movimento sionista, sorto nella seconda metà del XIX secolo, ha abbondantemente fatto ricorso a tale repertorio, utilizzato anche da tutti gli altri movimenti di risorgimento nazionale. Gli storici lo sanno bene, così come sanno ancor meglio che le cosiddette «tradizioni», sono spesso il prodotto di profondi mutamenti e non la risultante di una presunta immodificabilità di comportamenti e atteggiamenti. Se fosse stato altrimenti, l’umanità non avrebbe fatto un passo in avanti ma senz’altro due indietro. Non di meno, il demandare a radici antiche non indica la volontà di falsificare il passato ma un modo per leggere il proprio presente e orientare, nel limite del possibile, il divenire. Si avrà modo di tornare su questo passaggio, cruciale nella costruzione dell’autocoscienza di gruppo, al quale l’ebraismo ha offerto un contributo inestimabile, permettendo all’uomo contemporaneo di orientarsi nella babelica modernità dei nostri tempi. Da ultimo, infine si legga la recensione di Alberto Crespi su l’Unità all’ultimo film degli spumeggianti e irriverenti fratelli Coen, «A Serious Man». Andiamolo a vedere, tralasciando per un po’ i faticosi pensieri che accompagnano le nostre giornate.
 
Claudio Vercelli

 
 
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Frattini incontrerà Netanyahu e Fayyad in Medioriente              
per dare una spinta al rilancio del processo di pace
Roma, 3 dic -
Nell'ambito dell'attività diplomatica in Medioriente e per una ripresa al più presto del negoziato di Pace, il ministro degli Esteri Franco Frattini, il prossimo 9 dicembre sarà in Israele e nei territori occupati. L'annuncio del prossimo viaggio di Frattini è stato fatto dal portavoce della Farnesina, Maurizio Massari, nel corso di un briefing con la stampa, sottolineando che Frattini avrà "incontri ad alto livello" sia con il governo israeliano sia con l'Autorità palestinese. In particolare il capo della diplomazia italiana - è stato spiegato - dovrebbe vedere il premier ed il ministro degli Esteri di Israele, Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman, ed il primo ministro palestinese Salam Fayyad. Lo stesso portavoce ha precisato che la visita del ministro Frattini non “é legata a particolari scadenze o eventi" e rientra nella "attività diplomatica in Medioriente".
 
 
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