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    8 dicembre 2009 - 21 Kislev 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Della Rocca Roberto
Della Rocca,

rabbino 
E’ dopo la lotta che Giacobbe cambia il nome. La stessa radice del nome Yaakòv, Giacobbe, significa una persona che non è diretta ma è in qualche modo ambigua. Viceversa nel nome Israel, almeno nelle prime lettere, c’è il senso delle essere diritto. Quindi c’è una trasformazione sostanziale della personalità di Giacobbe, da persona tortuosa a persona diritta. Nonostante l’ordine divino di non chiamarsi più Giacobbe, ma Israele, la Torah continua a chiamarlo Yaakòv. E’ come se Israele non riuscisse a staccarsi da Giacobbe. Ci è proibito esplicitamente chiamare Avraham, Abramo con il nome che aveva prima Avràm, ma non è avvenuta la stessa cosa per Giacobbe. Israele non sarebbe Israele se prima non fosse stato Giacobbe. Tormentato e combattuto, Giacobbe appartiene a Israele proprio come Israele fa parte di Giacobbe. 
Noi siamo al tempo stesso la nostra terra promessa e le nostre frontiere.  Vittorio Dan Segre,
pensionato
Vittorio Dan Segre  
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  Qui Roma - Omaggio agli ebrei di Libia

Inaugurazione Sala LibicaDifficile entrare al Museo Ebraico di Roma gremito questa mattina dal folto pubblico che si è affollato per l'inaugurazione della sala libica, dove Roberto Steindler e Daniela Di Castro, rispettivamente assessore alle attività museali e direttore del Museo Ebraico di Roma, hanno introdotto la conferenza di Elena Schenone Alberini, autrice di "Libyan Jewellery", un volume che racconta attraverso le immagini di preziose collane con amuleti, originalissimi bracciali, cavigliere e orecchini la storia di un Paese, i suoi rituali, le sue credenze (nell'immagine da sinistra: Yoram Ortona, Daniela Di Castro, Elena Schenone Alberini, Roberto Steindler e Marina Ortona).
Un attimo di emozione ha scosso la sala quando Scialom Tesciuba ha affisso al muro la mezuzà che è stata data al Bet El (il tempio tripolino) 20 anni fa da David Fadlun, che a Tripoli faceva l'argentiere, una mezuzà speciale perché è stata realizzata con una fialetta di vetro di medicinale incapsulata in una saldatura di ferro che serviva a rendere stagna la mezuzà in modo che la pergamena non si sciupasse con il vento del deserto, la mezuzà ha quasi cento anni.
"A Tripoli c'erano 76 sinagoghe", ha detto Scialom Tesciuba ricordando alcune delle famiglie che a Tripoli furono uccise: Raccah, Luzon e Labi e i sefarim bruciati nella furia devastatrice araba che colse gli ebrei di Libia durante la Guerra dei 6 giorni.
Il Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Yoram Ortona, che insieme ai suoi fratelli Giorgio e Marina ha donato molti oggetti presenti nella vetrina principale, fra cui una preziosa cintura in argento posta alla vita dell'abito da sposa donato da Wiki Hassan e la fascia di Miss Maccabi 1949 appartenuta alla loro mamma, ha voluto ringraziare il rav Elio Toaff per l'aiuto dato in quegli anni alla comunità tripolina che cercava di integrarsi nella realtà romana.

SalaElena Schenone Alberini, che in Libia ha trascorso un lungo periodo, ha portato alcuni oggetti raccolti durante la sua permanenza in Libia alla cui arte si è molto appassionata e ha spiegato attentamente le tecniche per la loro realizzazione. "Contrariamente a quanto avviene nelle altre sale di questo Museo dove anche gli oggetti religiosi ebraici sono realizzati da argentieri cristiani, ha osservato Daniela Di Castro, gli oggetti presenti in questa sala sono oggetti realizzati da argentieri ebrei di Libia e destinati a clientela ebraica e non ebraica".

l.e.



Qui Roma - Ortona, una storia dietro ai cimeli


Yoram OrtonaNon è inconsueto tra le famiglie ebraiche trovare radici che affondano in tanti luoghi diversi. La storia degli ebrei italiani originari della Libia, è una storia speciale, e la nuova sala del Museo Ebraico di Roma, che si inaugura oggi, si propone di rendere omaggio a quella comunità che era un po’ italiana ancora prima di giungere in Italia, ma che, non bisogna dimenticare, fu sradicata a forza da un paese in cui viveva da secoli.
Alcuni cimeli racchiudono la storia della famiglia Ortona. Originari di Casale Monferrato, dopo un periodo a Tunisi, gli Ortona si trasferirono a Tripoli nel 1908. Là Federico Ortona si sposò e nel 1922 nacque Marcello, padre di Yoram, Giorgio e Marina, che hanno donato gli oggetti esposti nella nuova sala.
Quando nel 1938 furono promulgate le Leggi Razziali, Marcello Ortona, che frequentava il ginnasio all’istituto Dante Alighieri di Tripoli, fu espulso da scuola e riparò a Tunisi, presso lo zio Cesarino, fratello di suo padre, che era direttore dell’Ospedale italiano della città. Poco tempo dopo, la politica razziale giunse anche nelle istituzioni italiane in Tunisia, Cesarino Ortona fu destituito dall’incarico, e privato di tutte le onorificenze che aveva conquistato nella sua vita. Non potè sopportare la disperazione e si suicidò.
“Nel 1941 mio padre Marcello, conclusi gli studi, tornò in Libia - racconta Yoram Ortona (nell'immagine) - Era un momento terribile. Lui e altri undici compagni vennero precettati e condotti in un campo di lavoro a Sidi Azaz, in Cirenaica, costretti ai lavori forzati. Nel frattempo la Guerra proseguiva. Quando finalmente i tedeschi furono sconfitti in Africa nel 1943, il campo fu liberato. Ma bisognava ancora tornare fino a Tripoli”. E a questo punto, Yoram narra uno degli episodi che il padre ricordava più volentieri tra i racconti di guerra. “Tripoli era distante centinaia di chilometri. La strada attraversava il deserto ed era piena di insidie. Mio padre e il suo amico Aronne si incamminarono sperando di trovare qualcuno che potesse dare loro un passaggio. Si imbatterono in una Volkswagen guidata da un ufficiale della Wermacht in ritirata. Fingendosi tecnici italiani riuscirono a farsi prendere a bordo e così giunsero a destinazione sani e salvi”.
Tornato in città Marcello Ortona trovò lavoro al Corriere di Tripoli, appena fondato dai liberatori inglesi e diretto da Ralph Merryll, nome d’arte di Renato Mieli, padre di Paolo (storico direttore del Corriere della Sera ndr). Quando “Ralph Merryll” tornò in Italia, alla fine della guerra, dove fondò l’Ansa e poi diresse l’Unità, Marcello Ortona, a soli ventitre anni, gli subentrò, diventando direttore del più importante quotidiano di lingua italiana in Libia. Una copia del giornale è stata donata al Museo, insieme al suo tesserino di riconoscimento. Ma la sua gioia durò poco. Solo tre giorni dopo, il 4 novembre 1945, si scatenò il primo pogrom antiebraico del paese, dopo secoli di convivenza pacifica. Trecento ebrei furono assassinati, le sinagoghe date alle fiamme, i cimiteri profanati. Dei 40 mila ebrei che vivevano in Libia nel 1945, ne ritroviamo solo seimila dopo il 1948.
Tra questi proprio Marcello Ortona, che rimase al suo posto al Corriere di Tripoli e il 7 dicembre 1952 sposò la bellissima Doris Journo, che era stata Miss Maccabi nel 1949, come mostrano la foto e la fascia esposte nella nuova sala del Museo.
La vita per gli ebrei libici proseguì relativamente tranquilla, nonostante frequenti disordini, fino al 1967. “Fino a quel momento non c’erano più stati episodi così gravi, soprattutto perché gli ebrei si erano organizzati per difendersi – ricorda Yoram – ma non potrò mai dimenticare quella mattina del 5 giugno 1967”. Aveva quattordici anni, e stava sostenendo l’esame di Licenza Media in quello stesso istituto Dante Alighieri che il padre era stato costretto ad abbandonare nel 1938. “Quando, nel bel mezzo del tema di italiano, ci vennero a dire di lasciare tutto e correre a casa, io mi rifugiai da un amico – prosegue - C’era un sole splendido quel giorno, ma prima dell’ora di pranzo il cielo di Tripoli si fece nero di cenere e fumo. La folla era inferocita. I miei fratellini erano all’asilo dalle suore, mia madre sola in casa, mio padre in ufficio. Solo a sera ci ritrovammo. Per dodici giorni rimanemmo barricati in casa. Poi, finalmente, riuscimmo a trovare quattro posti su un Caravelle dell’Alitalia per fuggire a Roma, con due valige e venti sterline libiche, e mio padre che teneva la mia sorellina sulle ginocchia”.
Morirono diciassette persone, due intere famiglie trucidate, e migliaia furono costrette a lasciare la propria casa, gli averi, una vita intera. “Faccio fatica a trattenere le lacrime ricordando quelle ore. Sono grato ai miei genitori per tutto quello che hanno fatto per me, e sono particolarmente felice che venga rivolto loro un ricordo, soprattutto in questi giorni che ricorre il loro anniversario di nozze (il 7 dicembre ndr)”.

Rossella Tercatin


Qui Roma - Democrazia e identità nazionale
nel pensiero di Max Ascoli


Copertina libroAlla figura di Max Ascoli è stato dedicato un nuovo libro del giovane ricercatore Davide Grippa: Un antifascista tra Italia e Stati Uniti. Democrazia e identità nazionale nel pensiero di Max Ascoli (1898-1947), (Milano, Franco Angeli, 2009). Il volume è stato presentato a Palazzo Costanzi dallo stesso autore con Patrizia Audenino, Mauro Canali, Annalisa Capristo, Antonio Versori, coordinati da Daniele Fiorentino.
La figura di Max Ascoli, che fu giurista politologo e giornalista, così come sottolineato dagli interventi è stata inizialmente trascurata dal punto di vista storiografico forse per il suo organico inserimento all’interno dell'amministrazione americana quale funzionario del dipartimento di Stato.
Max Ascoli fu una delle personalità di spicco dell’emigrazione antifascista negli Stati Uniti fra le due guerre, dove si era trasferito inizialmente per motivi accademici e scientifici ed in cui fu costretto a rimanere come esule a seguito dell’avvento del fascismo al potere. Max Ascoli si prodigò per favorire l’emigrazione ebraica negli Stati Uniti e la lotta antifascista. Parlando con Davide Grippa del rapporto di Max Ascoli con l’ebraismo il giovane ricercatore ha sottolineato come questi visse il problema identitario degli ebrei italiani dopo il Risorgimento. Raggiunta la piena integrazione nella società, gli ebrei italiani la pagarono con l’assimilazione.
Max Ascoli pur aderendo agli ideali sionisti e collaborando con il sionista fiorentino Alfonso Pacifici, con cui intrattenne un carteggio costante che l’autore riporta nel libro, concepì come unica via alternativa a questi ideali l’assimilazione e questo lo portò ad allontanarsi dall’ebraismo con cui mantenne comunque un legame identitario nel corso della sua esistenza.

Daniele Ascarelli
 
 
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  Qui Torino - Daniel Schinasi e il neofuturismo

Schinasi&LeviParigi 1909. Sulla prima pagina di Le Figaro appare il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. 1970, di nuovo Parigi: viene lanciato il Manifesto del Neofuturismo. Fondatore di questa corrente artistica è Daniel Schinasi.
È stata inaugurata il 12 novembre la sua personale mostra alla galleria Laura Rocca di via Maria Vittoria a Torino e durerà fino al 20 dicembre (nell'immagine un momento dell'inaugurazione della mostra, il presidente della Comunità Ebraica di Torino Tullio Levi è stato fotografato assieme all'artista).
La sua concezione dell'arte riprende alcuni temi del futurismo ma presenta differenze sostanziali rispetto al movimento originale: non vi è più l'esaltazione della macchina, della tecnologia, della velocità. Non vi è più “la guerra come igiene del mondo”, motto futurista che porterà tanti giovani nelle file dell'irredentismo prima e del fascismo poi. L'arte di Schinasi è più umanista: “Tento una ricomposizione del soggetto - spiega Schinasi - destrutturato dai miei predecessori, i futuristi. Ricerco una dimensione umana nella natura. La sfida è quella di rappresentare un mondo in cui l'uomo possa restare integro e aspirare alla propria realizzazione. L'arte pseudo-contemporanea è in agonia, evviva la rinascita dell'arte”, afferma. “La pittura dev'essere espressione di vita, ma una tela con un buco in mezzo non esprime un bel niente. Ci vogliono imbrogliare, ogni presunta originalità è valorizzata e sovrastimata, e intanto si è perso il contatto con la realtà”.
Come mai, viene da chiedersi, un pittore così sensibile alla vicenda dell'uomo sulla terra, con le sue sofferenze e le sue speranze, ha deciso di recuperare una corrente artistica, il futurismo, che nel suo modernismo dogmatico quasi dimenticò l'umanità in favore della macchina? “In realtà - spiega - io ho conosciuto il futurismo quando già avevo elaborato il mio stile neofuturista. I miei riferimenti erano l'impressionismo e la pittura rinascimentale italiana: mi capitò però di scorgere la geometria nella natura, ma questa geometria non distrugge le forme, come in Picasso, bensì le costruisce. Sta qui la grande differenza tra la pittura futurista e la mia: nella dinamica non spariscono le forme, non si dissolve il soggetto. Si ricostruisce”. C'è un salto filosofico, oltre che pittorico. C'è la rivalutazione dell'uomo come soggetto artistico principale.
Daniel Schinasi nasce ad Alessandria d'Egitto (stessa città di Marinetti) nel 1933, da una famiglia sefardita livornese. Nel 1956 decide di tornare a Livorno, a causa del clima poco favorevole agli ebrei durante il governo Nasser. “Partii con una valigia e ventiquattro dollari - racconta - L'Europa mi ha profondamente cambiato, ha aperto la mia mente e i miei occhi”. Il contatto con la campagna Toscana, luogo che gli rimase sempre caro, gli rivelò una realtà che non conosceva: la fatica del lavoro della terra, la sofferenza e la povertà. Inoltre, intrattenendo rapporti con la Comunità Ebraica di Livorno, scoprì la storia del suo popolo, s'interessò alle persecuzioni subite dagli ebrei nella loro storia, e questo lo portò verso una pittura impegnata. “Racconto la storia del mio popolo, le sue pagine più buie, dall'Inquisizione alla Shoah - dice - Avverto, come artista, il compito di coltivare la memoria”. “L'arte - sostiene - deve avere un valore pedagogico”. Le sue opere rievocano il passato, non solo per onorare, ma soprattutto per vigilare e lottare affinché l'ebreo sia un uomo tra gli uomini, con dignità, libertà e con i comuni valori del genere umano.
Tra le ultime sue opere di argomento ebraico troviamo La famiglia del calzolaio dello shtetl, una serie di pannelli lunga sei metri, esposta a Cascina, e Exodus, omaggio ai perseguitati, opera principale della personale torinese. Quest'ultima è stata dipinta nel giugno di quest'anno in occasione del sessantesimo anniversario della vicenda della nave Exodus, che ispirò il celebre film con Paul Newman. “Alla celebrazione dell'anniversario, organizzata dal comune di Marsiglia, ho conosciuto alcuni passeggeri di quella nave - racconta - È stato molto emozionante, ho anche scoperto un cugino lontano (circostanza non rara tra gli ebrei)”.
Meno recente ma assolutamente da citare, nell'ambito della sua produzione di argomento ebraico, è Il sacrificio di Isacco, tema biblico e simbolo della sofferenza di cui Daniel Schinasi è testimone.
Questa sensibilità ai patimenti del suo popolo assume un'espressione agghiacciante nel suo Omaggio alle vittime dell'Olocausto o nel suo Giacobbe lotta con l'angelo, che esprimono la ribellione del popolo ebraico contro il suo terribile destino.
Molto stretto è il legame di Schinasi con Israele, spiega: “Soprattutto da quando mio figlio ha fatto l'aliyà vivo più intensamente la realtà israeliana. Ho anche avuto diverse collaborazioni artistiche in Israele, ho esposto a Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa”. Il vicesindaco di Gerusalemme, David Cassuto, in occasione di un'esposizione di Schinasi scrisse di lui: “Le sue opere esprimono l'amore per la terra e il popolo di Israele, per Gerusalemme e i suoi abitanti, attraverso la rappresentazione da una parte di panorami aperti, dall'altra di scene urbane dal sapore antico”.

Manuel Disegni
 
 
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Poche notizie anche oggi. C'è stata in Iran una importante protesta studentesca, ma la selezione della rassegna segnala solo una piccola cronaca, quella del Sole e qualche commento, come l'intervista ad Azadeh Kian sull'Avvenire e soprattutto il commento di Riccardo Radaelli, sempre sull'Avvenire, che spiega come "sull'altare del compromesso" l'amministrazione Obama abbia "sacrificato i riformisti", i quali peraltro continuano una lotta che sanno sarà lunga, ignorando il fatto che il "giovane idealista" presidente americano che si prepara a ricevere il premio Nobel per la pace, preferisca tenere una corrispondenza segreta con Kathami piuttosto che sostenerli. Sempre a proposito di Iran, sostiene ancora Avvenire che l'Europa sta cercando di approvare "la linea della fermezza", nella stessa riunione del consiglio dei ministri degli esteri in cui si deve discutere della proposta svedese di dichiarare Gerusalemme Est capitale della "Palestina".
A quanto si capisce dallo stesso articolo, il principale sostenitore della Svezia è il Lussemburgo (ma sullo sfondo vi sono Belgio, Gran Bretagna e Irlanda), mentre si oppongono Italia, Francia e Germania. Vedremo. A proposito di Europa, da leggere l'analisi di Ross Douhat sullo Herald Tribune, che vede il referendum svizzero come una reazione e un rischio per la politica dei fatti compiuti che "l'élite europea" sta imponendo ai suoi popoli. Il carattere fondamentalmente antidemocratico della costituzione europea non è una novità, per chi segue la politica internazionale, ma capita di raro di vederlo illustrato con tanta chiarezza, da una fonte peraltro non sospetta di compiacenze con la diffidenza popolare nei confronti dell'immigrazione.
Da segnalare infine un commento della Voce repubblicana a proposito delle rivelazioni del gesuita padre Sole sulle pressioni fasciste nei confronti della Chiesa per la proibizione dei matrimoni misti in Africa, dove si leggono alcune pungenti domande sulla politica cattolica di quegli anni. Vale la pena di registrare infine, con qualche meraviglia la recensione molto positiva del Secolo d'Italia al romanzo spagnolo che è diventato un caso politico in Spagna per aver sollevato la vicenda della rivolta dei moriscos, i discendenti dei musulmani convertiti con la forza contemporaneamente alla cacciata ebraica dalla Spagna. Il romanzo e il giornale di Fini con esso sembrano contrapporre il caso dei moriscos a quello dei sefarditi, li presentano come vittime di una discriminazione razziale, e non come discendenti di invasori e occupanti a tratti assai feroci, sconfitti dopo una lunga guerra di liberazione, e allude infine all'opportunità di una compensazione (mentre naturalmente non la chiede per gli ebrei sefarditi). Un articolo così unilaterale da sembrar tratto dall'"Unità" o da "Liberazione" su un giornale fascista fino all'altro ieri, che testimonia di un itinerario politico quantomeno curioso.
 
Ugo Volli

 
 
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Primi morti per l'influenza A nella Striscia di Gaza,                        
le autorità sanitarie israeliane invieranno 10.000 vaccini
Gerusalemme, 8 dic -
Le autorità sanitarie israeliane hanno annunciato di voler destinare 10.000 vaccini contro l'influenza A alla Striscia di Gaza. La decisione è stata assunta dopo che nei giorni scorsi il governo di fatto di Hamas a Gaza ha dato notizia dei primi tre casi di morte accertata fra la popolazione della Striscia (un neonato e due donne) a causa dell'influenza A. Finora nella Striscia di Gaza si sono contate alcune centinaia di contagi, mentre nella Cisgiordania si è arrivati a quasi 1.300 casi. Nei giorni scorsi l'Autorità palestinese e alcune organizzazioni umanitarie palestinesi hanno accusato peraltro Hamas di limitare i permessi alla gente di Gaza che chiede di lasciare la Striscia per ricevere cure mediche in Israele o Cisgiordania.


 
 
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