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    21 dicembre 2009 - 4 Tevet 5770  
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Come leggiamo in questi giorni nella Torà, i figli del patriarca Yaacov non erano tutti propriamente degli "stinchi di santi". Eppure la tradizione tende a presentarceli come dei grandi personaggi positivi. Probabilmente la spiegazione sta nel processo di maturazione a cui li porta Yosef in vista della riconciliazione finale, che è tra i grandi messaggi morali del libro di Bereshit. Il cammino di riconciliazione comincia nel momento in cui fratelli di Yosef ammettono: "Siamo colpevoli per nostro fratello quando abbiamo visto la disgrazia della sua persona mentre ci supplicava e non l'abbiamo ascoltato" (cap. 42:21); culmina quando Yehudà, quello che aveva proposto la vendita in schiavitù di Yosef, si offre in ostaggio al posto di Beniamin (cap. 44:33). Alla santità ci possono arrivare anche i peccatori, purché riconoscano le loro colpe, certamente non con le autoassoluzioni personali o del sistema al quale appartengono.
Nella confusione di commenti sulla prossima beatificazione di Pio XII si è un po' perso il senso della prima dichiarazione di Di Segni, Gattegna e Pacifici, fatta subito dopo l'annuncio, in cui si manteneva ferma la distinzione fra beatificazione e giudizio storico. Noi non abbiamo nulla da dire su una vicenda del tutto interna alla Chiesa quale un processo di santità, ma possiamo e dobbiamo contribuire al giudizio storico, si diceva in sostanza. Nella confusione che sta prevalendo tra santità e storia, nello scatenamento comprensibile delle emozioni, la proclamazione della Chiesa finisce per assumere il valore di un giudizio storico. Non è così. Qualunque sia la valutazione storica dei "silenzi" di Pio XII, essa non passa, e non deve passare, attraverso  il processo di beatificazione, che obbedisce a motivazioni diverse, alcune molto interne alla Chiesa e ai suoi equilibri.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Auschwitz, la scritta e l'osceno mercato

Scritta AuschwitzI giorni a venire ci diranno, almeno lo speriamo, cosa è veramente successo nel campo di Auschwitz I. Quel che sappiamo è che la triste e infelice insegna che contornava l’ingresso del Lager è stata trafugata. Si tratta di un gesto gravissimo, il cui danno è soprattutto di ordine simbolico. Nel corso del tempo, infatti, essa ha assunto una rilevanza che trascende la storia del luogo di cui pur è parte integrante, assurgendo a simbolo dell’oppressione universale, esercitata in ogni tempo e per ogni dove. L’oscenità, peraltro, sta tutta nel contrasto, di cui ora siamo pienamente consapevoli, tra l’apparenza del suo innocuo contenuto e il fatto di costituire il motto d’ingresso all’inferno. Il suo furto, quindi, offende tutti quanti hanno a cuore la dignità dell’uomo, il suo destino, i suoi bisogni, le sue speranze ma, soprattutto, la sua umana finitudine, ossia il suo essere fragile poiché creatura indifesa. Questo terribile scippo, consumatosi in una notte, con il favore delle tenebre, così come a volte avvenivano gli assassinii di massa, è uno schiaffo nei confronti dell’umanità. Dopo di che, alcune puntualizzazioni si impongono. Tralasciamo le perplessità su quello che sembra essere quanto meno un peccato di sciatteria da parte delle autorità polacche che, nominate conservatrici di un memoriale planetario, avrebbero dovuto esercitare un controllo ben diverso e, comunque, senz’altro assai più efficace. Come si possa smontare una insegna di tali dimensioni, senza che nessuno se ne accorga, pare poi una incongruenza di non poco conto. Al dunque, però, vale anche e soprattutto un distinto ordine di considerazioni. Quella scritta, «Arbeit macht frei», del pari ad altre, come sappiamo, campeggiava nei Kz, i Konzentrazionslager. Il motteggio ridondante e ripetuto - molto spesso fine a sé e quindi, come tale, ancora più insulso, poiché apparentemente del tutto decontestualizzato - era un ulteriore elemento di alienazione che veniva imposto ai prigionieri. Inutile cercare una coerenza logica, tra quelle parole e il luogo in cui erano esposte, che vada al di là della perdita di senso delle parole medesime, ovvero dalla morte della lingua, che precedeva la morte degli uomini. La Lagersprache era il codice della consunzione della vita: a morire erano non solo i corpi ma il senso della libera socialità e della reciprocità umana. Auschwitz I non era propriamente un luogo di sterminio ma produceva, insieme alla quarantina di campi che ruotavano intorno ad esso e a Birkenau, soprattutto dei morti. A fronte di ciò, dal dopoguerra, fino agli anni più recenti, la conservazione del sito ha conosciuto momenti alterni, sospesi tra l’indifferenza dei primi decenni e gli investimenti realizzati quando si intuì che, oltre ad essere un sacrario, poteva anche costituire un volano per il business turistico locale, sia pure in quella forma particolare che è il “dark tourism“. Inutile nasconderselo, ancorché il riconoscerlo sia fatto in sé sgradevole. Poiché è anche da ciò, ovvero dalla discrasia tra l’essere un luogo che imporrebbe il silenzio e il costituire una meta per comitive che, già nei tempi andati, si sono succedute accese polemiche. Dapprima sulla costruzione di un supermercato e, successivamente, di una discoteca in immediata prossimità del perimetro del Lager. Può la morte costituire uno spettacolo o divenire una sorta di oggetto di consumo collettivo? Non di meno ha pesato il fatto che il controllo della terra su cui sorge il campo è divenuto oggetto di contesa da parte del cattolicesimo tradizionalista che, nel nome dei “suoi morti”, soprattutto quei polacchi non ebrei che vi furono assassinati, ha dato seguito a conflitti in successione, da quello relativo alla presenza di un convento di suore carmelitane alla ben più grave “guerra delle croci”, innescatasi quando un gruppo, espressamente antisemita, cercò di “colonizzare” la terra di Auschwitz impiantandovi più croci in successione. Insomma, lungi dal costituire un elemento di pacificazione, la memoria del Lager di Auschwitz è assurta a oggetto del contendere, in una sorta di conflitto simbolico che rimanda, per alcuni versi, a quello guerreggiato, ferocemente combattuto molti decenni prima. Vale la pena di aggiungere che è ingenuo pensare che si possa pervenire all’obiettivo di raccogliere la più assoluta concordia sul modo di ricordare quel tragico passato che il sito del Lager incorpora in ogni parte di sé. La sua memoria è viva e fertile poiché si alimenta di contrapposizioni, più che di fittizi assensi. Il problema, quindi, non è cercare un improbabile punto di equilibrio bensì di insegnare che la forza della democrazia non è mai data dalla coincidenza aprioristica dei giudizi bensì dal loro confronto e dalla successiva capacità di mediarli. Attribuire poi il furto ai “negazionisti”, come alcuni hanno sbrigativamente già fatto, è un non senso, se non altro per l’ovvia constatazione che non si ruba ciò che si valuta privo di valore. Chi ha compiuto l’empia profanazione sa bene qual è il valore simbolico del cimelio. E qui tocchiamo un ultimo punto, che è quello che riguarda il feticismo che quei luoghi, loro malgrado, incorporano agli occhi di non pochi osservatori: si tratta di una sorta di valore aggiunto, che non è quello civile di monito imperituro bensì quello privato di oggetto di brama e desiderio. A margine dei Lager in questi decenni è cresciuto infatti anche un osceno mercato di cose, di immagini, di rappresentazioni. Non si tratta solo delle passioni patologiche di alcuni tombaroli ma di una inflazione commerciale di rimandi alla tragedia, che diventa quasi una sorta di brand mercantile, una specie di oggetto di insana identificazione, in una sorta di gioco splatter che azzera la vicenda storica per compiacersi, sadomasochisticamente, dell’attrazione fatale per la morte. Già Pierpaolo Pasolini aveva ragionato, non senza difficoltà, su questa deriva, più diffusa di quanto non si voglia credere. Il fascismo si è sempre alimentato della necrofilia. Nel furto dell’insegna (forse su commissione di un “collezionista”?) riecheggia allora questo tremendo tema di fondo, che è alla radice del male medesimo. Poiché quest’ultimo, come ci ha insegnato Hannah Arendt, non si alimenta di grandiosi drammi ma di insulse banalità, come il rubare una insegna di ferro.

Claudio Vercelli
 
 
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  Pensieri - Auschwitz, Pio XII, e i problemi di una Chiesa
che non riconosce di aver taciuto


Donatella Di CesareLa scritta che dal giugno del 1940 segna l’ingresso del campo di Auschwitz, scomparsa lo scorso venerdì, è stata ritrovata dalla polizia polacca. Era stata tagliata in tre pezzi, uno per ogni parola: “Arbeit macht frei”. È evidente che non si tratta solo di “un atto di vandalismo” - come ha detto all’inizio il ministro polacco Andrzej Przewoznik. Piuttosto, e ben di più, il furto della scritta, in cui si condensa la storia del Novecento, è un attentato alla memoria.
I “profanatori” materiali sono stati rintracciati; ma occorre ora chiedersi chi siano i profanatori intellettuali e per così dire spirituali. La domanda sulle responsabilità è ineludibile. Negli ultimi anni si è data quasi per scontata la memoria - e la celebrazione della memoria. Al punto da interrogarsi su come dire e come rappresentare. Ma nel centro dell’Europa cristiana - e questo centro è in Polonia, nella Germania dell’est, ma anche in Spagna e a Roma - rimane un territorio, in espansione, refrattario alla memoria, desideroso di cancellare e rimuovere. E le modalità di cancellazione sono molte. Non solo il furto della scritta.
In un articolo intitolato “In nome di Edith” uscito qualche giorno fa in “Pagine ebraiche”, ho ripreso la poco discussa e molto discutibile questione della santificazione di Edith Stein. A questo proposito ho parlato di un articolo di Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, docente all’università di Dresda, tra i nomi più prestigiosi della teologia cattolica in Germania. L’articolo del 2008 è intitolato: “Auschwitz senza fine?”. Mentre a ebrei come Jankélévitch viene imputato di nutrire solo “risentimento”, si aggiunge che “al cristiano” è dischiusa la possibilità di perdonare, anche il comandante di Auschwitz Rudolf Höss, perché il cristianesimo è “la fede il cui mistero suona: nell’assoluto c’è anche l’assoluzione”. Prese di posizione del genere non vengono smentite e non sono per nulla isolate. Al contrario: hanno il crisma dell’ufficialità.
La notizia della beatificazione di Pio XII va inserita in tale contesto: quello di una Chiesa che non riconosce di aver taciuto come istituzione, di non aver detto neppure una parola per impedire quello che è avvenuto. E per non ammettere le proprie responsabilità, la Chiesa procede su un doppio binario, per un verso cristianizzando la Shoah, per l’altro occultando i propri errori. Questo binario è pericolosissimo. Per la Chiesa stessa. Qui non si tratta solo del dialogo con gli ebrei che peraltro non ne hanno mai messo in dubbio l’esigenza. Ma per dialogare con gli altri bisogna dialogare con se stessi. È questo che la Chiesa non fa. E allora ci si deve interrogare preoccupati sul futuro del cristianesimo in Europa. Ha scritto Abraham Joshua Heschel che “l’ebraismo è il sentiero di Dio nel deserto dell’oblio”. Ma che ne sarà dei cristiani, lontani dall’ebraismo, lontani dalla memoria?.

Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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rassegna stampa    
 
 
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La rassegna di oggi è dominata da due temi emersi nei giorni scorsi. Il primo è il furto della scritta metallica "Arbeit macht frei" che sovrastava l'ingresso di Auschwitz. L'insegna è stata ritrovata dalla polizia polacca, divisa in tre pezzi; cinque persone "fra i 20 e i 39 anni" sono state arrestate "nel nord del paese", dunque lontano da Auschwitz. Non si conosce al momento la loro identità né le loro motivazioni. (Maria Serene Natale sul Corriere, notizie anche sul Giornale e La Stampa). Va letta a proposito oggi certamente l'intervista allarmata di Shlomo Venezia su Repubblica. Prima di chiudere questo capitolo della rassegna stampa di oggi vorrei solo invitare i lettori a leggere un intervento di Moni Ovadia pubblicato sul Messaggero di sabato scorso e non segnalato allora per la sospensione dovuta allo Shabbat. Fra le molte decine di pezzi sull'argomento pubblicati da giornali di tutte le parti e di articolisti che sul mondo ebraico hanno posizioni diversissime, tutti di condanna e di sdegno, questa è l'unica voce dissonante. Vi si dice fra l'altro quanto segue "Quel luogo di dolore sta diventando il ricettacolo della falsa coscienza, il posto dove ricostruire con una visita delle identità presentabili, dove ricevere certificati di buona condotta che poi consentano di penalizzare i diversi di oggi, gli ebrei di oggi, cioè rom, i clandestini, gli extracomunitari, i lavoratori-schiavi. Di Auschwitz si fa ormai un uso strumentale. Anche da parte di certi politici israeliani, che insistono sulla necessità di non mutare i termini del discorso e mantengono in vita troppe divisioni, troppo odio." Non voglio commentare questo testo, essendo stato amico di Moni Ovadia lo trovo personalmente insopportabile come una ferita personale. Lo voglio solo indicare ai lettori come un esempio del punto cui può portare la prevalenza dell'ideologia politica sull'amore per Israele.
Da segnalare, in relazione a questo tema, se non si crede con il titolista della Stampa che si sia trattato di semplice "vandalismo", l'inchiesta di Paolo Berizzi su Repubblica che tenta una mappa dei gruppi neonazisti europei.
 
L'altro tema su cui si concentra la stampa è la nomina di Pio XII a "venerabile" ad opera di papa Ratzinger. Tutto il mondo ebraico è unito nei termini espressi ieri dal vertice dell'ebraismo italiano: i processi di canonizzazione sono un affare interno alla Chiesa, ma la santificazione di un personaggio storico implica un giudizio sulla sua azione storica, il mondo ebraico continua a giudicare che papa Pacelli non si sia opposto in maniera pubblica alla Shoà, né durante né dopo la sua esecuzione, e che quindi il suo comportamento non sia stato affatto esemplare, anche se dall'interno della Chiesa certamente arrivarono degli aiuti agli ebrei, e richiede infine l'apertura degli archivi vaticani per il periodo della guerra (Alberto Stabile su Repubblica, Jean Marie Guenois su Le Figaro Mora Miguel sul Pais). Così anche il governo israeliano (Salerno sul Messaggero, Adrien Jaulmes su Le Figaro). Sia Repubblica (Orazio La Rocca) che La Stampa (Galeazzi) giudicano a questo punto "a rischio" la visita del papa alla sinagoga di Roma prevista per il prossimo 17 gennaio, a causa dell'indignazione dominante nella comunità. Nel quadro rientra anche l'ennesima presa di posizione filopalestinese del Vaticano, con il papa che non ha trovato esempio migliore per spiegare che "il Natale non è una favola per bambini" che parlare della mancanza di pace di Betlemme, senza precisare che essa deriva da una scelta precisa di quei palestinesi che fra l'altro a Betlemme stanno emarginando progressivamente la comunità cristiana.
A difesa della posizione del papa si schiera come al solito Il Giornale ("analisi siglata AnTor, cronaca di Andrea Tornielli su un documento cattolico polemico nei confronti di comunismo e nazismo che sarebbe stato recentemente ritrovato) e naturalmente Padre Lombardi, portavoce della Santa sede in un'intervista al Corriere. Ridimensiona il tutto in una maniera così riduttiva da essere quasi offensiva il cardinale Kasper in un'intervista sulla Stampa, qualificando come "emotive" le posizioni ebraiche e invocando il ritorno del "buon senso". Serve a capire anche il dialogo, rispettoso ma polemico, fra Amos Luzzatto e Giovanni Reale sul Corriere a proposito dell'atteggiamento della Chiesa verso il mondo ebraico. Importante infine, per chi non conosce queste cose, la ricostruzione (Giorno-Carlino-Nazione) della deportazione del 16 ottobre 1943 a Roma di oltre 1200 ebrei, di cui Pio XII non fece mostra di essersi accorto, anche se avvenne praticamente sotto le sue finestre.
 
Sul Medio Oriente merita una nota il pezzo di Francesco Battistini sul Corriere dove si racconta che la festa per i 22 anni di Hamas della settimana scorsa sarebbe costata uno sproposito e si accenna ad altri scandali finanziari del regime islamista di Gaza. Da leggere con commozione anche il dialogo fra Meotti e Ceronetti, pubblicato originariamente sulla "Stampa" ma ora ripreso dal Foglio a proposito del libro che Meotti a scritto sulle vittime israeliane del terrorismo palestinese.
 
Ugo Volli

 
 
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notizieflash    
 
 
"Le virtù eroiche" di Pio XII in una fiction di Raiuno                      
Roma, 20 dic -
Pio XII un papa impegnato contro l'antisemitismo. E non dal comportamento “ambiguo”
nei confronti della persecuzione nazista degli ebrei, come lo definisce quella targa apposta sotto la sua foto esposta allo Yad Vashem. Così la nuova fiction prodotta dalla cattolica Lux Vide per la Rai vuole presentare la figura di Pacelli, assolutamente in linea con il Vaticano che, con la decisione di papa Ratzinger, ha sciolto ogni eventuale dubbio della Chiesa sulla sua santità e sulla sua eroicità spirituale e ha acceso le polemiche da parte del mondo ebraico. Quindi una mini serie sulle gesta di papa Pacelli. A chi ha definito la fiction “militante” il produttore Luca Bernabei della Lux Vide ha replicato: "Noi non sposiamo una causa raccontiamo la storia nel modo più obiettivo possibile, anche grazie al contributo di vari esperti". Nelle due puntate dirette da Christian Duguay, attese su Raiuno, il Papa protegge gli ebrei dentro conventi e luoghi religiosi sicuri per l'extraterritorialità vaticana. La Lux comunque ha potuto lavorare proprio sui documenti per la causa di beatificazione di Pio XII, concentrandosi sul suo rapporto con il nazismo. Scritta da Francesco Arlanch e Fabrizio Bettelli pensando a film del Neorealismo come Roma città aperta, Sotto il cielo di Roma, rende noto un episodio storico: il piano per rapire Pio XII l'8 settembre 1943, mettendo le mani sull'uomo che è rimasto l'unica autorità nel territorio italiano spaccato in due dall'avanzata degli Alleati. E' l'ordine che arriva da Berlino, dalla voce stessa del Fuhrer. Accanto a quella storia, quella di due ragazzi ebrei - Davide (Marco Foschi) e Miriam (Alessandra Mastronardi, qui al debutto in Rai dopo il successo dei Cesaroni) - scampati miracolosamente alla razzia del Ghetto il 16 ottobre e che trovano rifugio proprio in uno dei conventi che furono luoghi di protezione, travestendosi da religiosi. Papa Eugenio Pacelli è interpretato da James Cromwell, mentre nel cast ci sono anche Ettore Bassi, Margot Sikabonyi, Ken Duken e Cesare Bocci.

Netanyahu prosegue le consultazioni
per uno scambio di prigionieri con Hamas

Gerusalemme, 21 dic -
Scambio di prigionieri Israele - Hamas. Oggi riprendono le consultazioni per il premier israeliano Benyamin Netanyahu. Tali consultazioni, a cui partecipano i sei ministri più vicini al premier, hanno l'obiettivo di valutare se le ultime proposte giunte per voce del mediatore tedesco da parte di Hamas possano essere accettate o meno. Ieri Netanyahu si è consultato a tre riprese con i ministri, ricavando tre pareri favorevoli all'intesa (quelli di Ehud Barak, Ely Ishai e Dan Meridor) e tre contrari (quelli di Avigdor Lieberman, Benny Begin e Moshe Yaalon).  In cambio di Shalit Hamas esige la liberazione di un migliaio di detenuti, fra i quali molti dei responsabili dei più gravi atti terroristici contro Israele durante la prima Intifada. Nella sensazione che quella odierna possa rivelarsi una giornata critica i genitori di Shalit sono giunti a Gerusalemme, dove in giornata dovrebbero essere ricevuti da Netanyahu. Di fronte all'ufficio del primo ministro si sta organizzando una manifestazione in sostegno della famiglia Shalit.
 
 
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