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L'Unione informa
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25 dicembre 2009 - 8 Tevet
5770 |
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alef/tav |
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Roberto
Colombo,
rabbino |
“E
Iehudà si accostò a lui (Joseph)”. Nella simbologia dello Zohar Joseph
rappresenta il cuore ebraico e Iehudà l’azione. Secondo alcuni per
diventare Tzaddìk basta essere puri di cuore a prescindere dall’agire.
Per l’ebraismo chi non accosta le due cose è solo un peccatore. |
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Lo
Stato d'Israele non nacque nel 1948, quando fu proclamato
ufficialmente nel museo di Tel Aviv, ma circa un anno prima, il 18
luglio 1947, il giorno in cui i soldati di Sua Maestà assalirono i
passeggeri di una nave e lanciarono centinaia di bombe lacrimogene
sulle 4515 persone che vi erano rimaste intrappolate, gente che due
anni prima aveva rischiato di essere uccisa da un altro gas, in un
altro luogo(Yoram Kaniuk, Il comandante dell'Exodus, Einaudi, Torino
1999). La nave si chiamava Exodus, era partita dalla Francia nel luglio
1947, fu attaccata e speronata dagli inglesi. Vi furono due morti e
molti feriti. I profughi furono imbarcati su navi inglesi e rispediti
in Europa. Di fronte al loro rifiuto di scendere in Francia, da dove
erano partiti, furono sbarcati ad Amburgo e internati in un ex campo
nazista, da dove dopo la fondazione dello Stato raggiunsero Eretz
Israel. Il comandante dell'Exodus, Yitzhak Aharonovitch, è morto
giovedì in Israele, a 86 anni. Nel celebre film ispirato da questa
vicenda, aveva il volto di Paul Newman. |
Anna
Foa,
storica |
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Il Presidente
Gattegna a Benedetto XVI:
"Un futuro di comprensione, amicizia, fratellanza"
"L'Unione
delle Comunià Ebraiche Italiane invia al Papa Benedetto XVI i migliori
auguri e manifesta sollievo e compiacimento per aver superato senza
danno l'increscioso incidente avvenuto durante le celebrazioni
all'interno della Basilica di S.Pietro". Lo ha dichiarato il Presidente
Ucei Renzo Gattegna.
"Nell'attesa del prossimo incontro in occasione della gradita e
significativa visita alla Sinagoga di Roma - ha aggiunto Gattegna -
esprimiamo l'auspicio e la speranza che il futuro riservi alle nostre
comunità e a tutti i popoli sempre maggiore comprensione, amicizia,
fratellanza".
Qui Roma: "Sì al dialogo, ma
nessun cedimento su Pio XII"
La
lunghissima riunione del Consiglio della Comunità Ebraica di Roma,
conclusasi a tarda notte dopo gli interventi dei rabbanim e
dei sopravvissuti ai campi di concentramento ha approvato all'unanimità
un documento che ribadisce la mano tesa al Vaticano
proposta dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, ma che
puntualizza con altrettanta chiarezza che la prossima visita del
Pontefice alla Sinagoga non cancellerà le critiche sui "silenzi" di Pio
XII sulla deportazione degli ebrei nei campi di
concentramento: " Il Consiglio della Comunità Ebraica di
Roma, allargato alle istituzioni ebraiche italiane, ai rabbini e ai
sopravvissuti ai campi di sterminio, - si legge nel testo -
ribadisce l'importanza del dialogo interreligioso di cui la prossima
visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma è una tappa fondamentale.
Questo evento, che gli ebrei vedono con grandi attese, non deve però
essere inteso come un avallo sul contenzioso storico che riguarda la
scelta di silenzio di Pio XII. Si attende che la verità possa emergere
attraverso la ricerca e la valutazione degli storici su tutti i
documenti dell'epoca".
Per la Comunità Ebraica di Roma dunque, La visita di papa Ratzinger è
"una tappa fondamentale" per l'importanza che riveste il "dialogo
interreligioso", ma l'evento non può essere inteso come "un avallo sul
contenzioso storico che riguarda la scelta di silenzio di Pio XII".
Sembra concludersi qui, quindi, la polemica che negli scorsi giorni
aveva riempito le pagine dei giornali, dopo che il papa Benedetto XVI
aveva dichiarato di voler procedere alla beatificazione del papa Pio
XII insieme a quella di papa Giovanni Paolo II ed a cui erano seguite
le critiche osservazioni dei leaders comunitari e religiosi ebraici.
A ricucire il dialogo tra la Comunità ebraica e il Vaticano ci aveva
pensato il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, che si
era affrettato a precisare che la beatificazione di Papa Pacelli non
sarebbe avvenuta insieme a quella del successore polacco: "Sarà una
valutazione di fede, non storica". "La firma del decreto - aveva detto
ancora padre Lombardi riferendosi all'atto di Benedetto XVI in cui
annunciava il processo di beatificazione dei due pontefici - non va in
alcun modo letta come un atto ostile al popolo ebraico e ci si augura
che non sia considerata un ostacolo sul cammino del dialogo tra
l'ebraismo e la Chiesa cattolica". Parole che sono riuscite ad
allegerire il clima di tensione che si era creato nel già difficile
colloquio interreligioso e avevano ispirato il rabbino capo della
comunità di Roma a commentare che la precisazione del portavoce della
Santa Sede era un "opportuno segnale distensivo", anche se i giudizi
sui "silenzi" di Pio XII nei confronti degli ebrei durante la Seconda
Guerra Mondiale, non mutano nella Comunità ebraica.


Il rigore
del digiuno per risvegliare i cuori
Allorché Yosef si fece riconoscere dai suoi fratelli in Egitto, la
Torah racconta che “cadde
sul collo di Binyamin suo fratello e pianse; e così Binyamin pianse sul
suo collo” (Bereshit 45,14). Così commenta Rashi: “E cadde
sul collo… e pianse – Per i due Santuari che sarebbero esistiti
successivamente sul territorio di Binyamin e sarebbero stati distrutti.
E così Binyamin pianse sul suo collo – Per il Tabernacolo di Shilo che
sarebbe esistito successivamente sul territorio di Yosef e sarebbe
stato distrutto”.
Per quale ragione Yosef e Binyamin piangono ora per i due Santuari
destinati ad essere distrutti, molti secoli prima della loro stessa
edificazione? Perché piangere fin da ora? La Torah ci insegna che
qualsiasi cosa si costruisca richiede la nostra preoccupazione e il
nostro interesse molto tempo prima che arriviamo a porre materialmente
la sua prima pietra. Yosef e Binyamin desideravano che i Santuari
non fossero distrutti del tutto. L’obbligo di ricordare la distruzione
del Bet Hamikdash è stabilito dalla Halakhah e si esprime in ogni
occasione di gioia. Fra i segni che si fanno in ricordo della
distruzione quando si costruisce una casa vi è la prescrizione di
lasciare senza intonaco mezzo metro quadrato di muro (O. Ch. 460,1), in
genere di fronte all’ingresso e comunque in modo visibile, così che
chiunque entri in casa ne percepisca immediatamente il messaggio:
nessuna costruzione ebraica potrà dirsi completa finché non verrà
riedificato il Santuario. Anche il Bet Haknesset di Torino risponde
appieno a questi requisiti. Nella parete dinanzi all’entrata vi è una
parte del muro lasciata incompleta con la scritta Zekher Lachurban, “in
ricordo della Distruzione”. Dove ciò non è possibile, come per esempio
chi prende in affitto una casa appartenente ad altri, deve appendere
alla parete un panno con la scritta: “Se ti dimentico Yerushalaim possa
dimenticarmi della mia mano destra” e ciò sarà sufficiente. Il Kaf
Hachayim di Baghdad osserva che “chi osserva puntualmente questa
Halakhah godrà di stabilità eterna per la sua casa e per tutti coloro
che vi abitano". Ma non è questa l’unica Halakhah relativa al ricordo
della Distruzione. Maimonide
(Hil. Ta’anit 5,1) scrive che “vi sono giorni in cui è prescritto il
digiuno per tutto Israel per via delle disgrazie accadute, al fine di
risvegliare i cuori e aprire le vie del pentimento”. Egli spiega che il
ricordo delle sciagure antiche, simili alle nostre (in quanto ciò che è
accaduto ai padri è un segno per i figli) ci spinge a migliorare il
nostro comportamento.
Il digiuno a sua volta ci sprona alla meditazione, in quanto nella
nostra ottica sono in definitiva le nostre trasgressioni e quelle
commesse dai nostri padri la matrice di ciò che ci accade. Yeshayahu lo
spiega con il versetto 54,4: “Il giorno in cui l’uomo affligge la sua
anima china come una canna la sua testa”.
Pertanto è opportuno fare di queste giornate un’occasione di studio e
di riflessione anziché di distrazione e divertimento.
Uno di questi digiuni è il 10 Tevet che ricorre quest’anno il 27
dicembre. In questo giorno, a opera del re di Babilonia Nabucodonosor,
iniziò quell’assedio a Yerushalaim che avrebbe portato alla distruzione
del Santuario. Il 10 Tevet ha un aspetto di rigore rispetto agli altri
digiuni.
Dalla posa dell’assedio alla breccia nelle mura, il 17 Tammuz,
trascorse molto tempo, eppure i nostri Padri non sfruttarono
l’occasione per fare Teshuvah.
Il digiuno comporta astensione completa da ogni cibo e bevanda. Anche
se il digiuno è prescritto dall’aurora all’uscita delle stelle, una
volta che ci si è coricati per dormire il divieto di mangiare scatta a
partire dal momento del risveglio anche se questo avviene prima
dell’aurora, a meno che la sera prima non si fosse espressa esplicita
condizione di alzarsi a mangiare prima dell’aurora. Tale clausola non è
invece richiesta per il bere: chi si alza prima dell’aurora potrà bere
entro gli orari prescritti anche se non ne aveva espresso intenzione la
sera precedente.
Le Tefillot del digiuno comportano per i digiunanti l’inserimento di
un’aggiunta speciale nella Amidah, Anenu, in cui si chiede a D-o di
esaudire lo sforzo del nostro digiuno. Vi è a questo proposito una
differenza fra l’uso sefardita e italiano e quello ashkenazita. Mentre
i primi inseriscono Anenu sia nella Amidah di Shachrit che in quella di
Minchah, gli ashkenaziti lo recitano solo a Minchah:
secondo questa opinione, infatti, prevale il dubbio che l’individuo
possa essere costretto ad interrompere il digiuno a metà giornata nel
qual caso la recitazione di Anenu avvenuta al mattino si rivelerebbe a
posteriori una affermazione non veritiera. Ha luogo inoltre la lettura
di una speciale Parashah a Shachrit e a Minchah, nonché di una Haftarah
speciale, solo a Minchah. Perché tutto questo abbia luogo è necessario
non solo avere il minyan ma anche che vi sia compresa una maggioranza
(almeno sei uomini) che si impegni fin dall’inizio a portare a termine
il digiuno.
E’ uso delle Comunità italiane che i digiunanti indossino i Tefillin
sia a Shachrit che a Minchah.Tutti sono tenuti ad osservare il digiuno,
eccetto le donne in stato interessante e le puerpere che allattano.
Anche persone molto anziane o
ammalate sono esentate, ma devono mangiare soltanto quanto basta loro a
mantenersi in forze e non approfittare dell’esenzione per godere del
cibo.Da anni al Digiuno del 10 di Tevet è stato associato un
significato nuovo. Per disposizione del Rabbinato Centrale d’Israele
esso è diventato lo Yom Hakaddish Haklali per fornire un anniversario
simbolico a tutti quei martiri della Shoah di cui non si può conoscere
la data della morte e, spesso, neppure il luogo della sepoltura,
ammesso che siano mai stati sepolti. In tal modo si ritiene di
“riparare”, se non altro sul piano religioso, all’”assedio” dei campi
di concentramento. In tutte le Comunità si tiene una speciale
Commemorazione dei deportati, con la lettura dei nomi e la recitazione
del Kaddish. In tempi ancora più recenti il Parlamento israeliano ha
istituito lo Yom Hashoah
(Vehaghevurah), nell’anniversario dell’insurrezione del Ghetto di
Varsavia, che ha preso piede nel mondo ebraico quasi in “concorrenza”
con il 10 Tevet. Non è qui la sede per discutere dell’opportunità di
questa scelta. E’ senz’altro meritevole il fatto di dedicare una
giornata in più al ricordo della Shoah, meglio se attraverso occasioni
di studio e approfondimento. Ma per quanto concerne la recitazione del
Kaddish è meglio attenersi alle indicazioni dei nostri Maestri, che ci
raccomandano di non moltiplicare le occasioni di lutto. Dal momento che
è già istituito fin da antico il 10 Tevet come giorno di digiuno, nulla
vieta di associare al suo significato e recitare in detto giorno anche
la Commemorazione dei deportati. Incidentalmente, questo è l’uso
seguito della Comunità di Torino. L’augurio è che possa presto
realizzarsi la Profezia di Zekharyah secondo cui tutti i Digiuni sono
destinati a trasformarsi in giorni di gioia per il popolo d’Israele.
Alberto
Moshe Somekh, rabbino capo di Torino,
Pagine
Ebraiche gennaio 2010 |
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Torah oggi - Complicità e
responsabilità
Dopo l’aggressione subita dal presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi, abbiamo assistito a una sfilza di dichiarazioni sia nelle
trasmissioni televisive che al Parlamento circa la responsabilità di
presunti mandanti dell’aggressione. Un precedente simile è quello
dell’assassinio di Izhak Rabin: allora si cercò di attribuirne la
responsabilità sia all’atmosfera che si respirava in quei giorni in
Israele sia in quella che si respirava all’università in cui aveva
studiato il giovane attentatore. Nel nostro caso si è cercato di
attribuire la responsabilità al clima creato dai giornalisti e dai
giudici che avrebbero in tal modo armato la mano dell’aggressore.
La tentazione di scaricare su qualcuno di comodo la responsabilità di
un atto criminoso è sempre molto forte, ma vediamo cosa dice in
proposito la halakhà. Vi sono due concetti che potrebbero essere
applicati a questo caso:
1) Shaliàch
lidvàr ‘averà. Delegato a compiere una trasgressione.
Molti gerarchi nazisti hanno cercato di giustificare i propri crimini
adducendo il fatto che stavano eseguendo un ordine. Ora, mentre si può
delegare una persona a compiere una mitzvà, non si può fare la medesima
cosa per una ‘averà (trasgressione): ognuno è responsabile in prima
persona degli atti che compie.
2) Mesajè’a le’ovèr
‘averà. Contribuire al compimento di una trasgressione. Ad
esempio, immaginando un furto, pur non avendo compiuto in prima persona
l’azione criminosa, il ricettatore contribuisce di fatto agevolando chi
lo ha compiuto. Dopo l’aggressione si è detto che qualcuno aveva armato
la mano dell’attentatore, passandogli la statuetta del duomo in
miniatura utilizzata per sferrare il colpo: la responsabilità primaria
dell’atto appartiene comunque alla persona che lo ha sferrato, ma chi
avrebbe passato l’arma contundente avrebbe contribuito all’azione e
sarebbe da considerarsi comunque messaje’a le’over ‘averà.
A mio parere, gli articoli, le trasmissioni televisive e le
dichiarazioni di pentiti che avrebbero “avvelenato” il clima nei giorni
che precedettero l’aggressione a Silvio Berlusconi non possono
rientrare nella categoria di messaje’a le’over ‘averà. Ognuno
può essere dichiarato responsabile solo delle proprie azioni.
Dichiarazioni, articoli e processi vanno valutati entro un altro ambito
della halakhà: i giudici e i media dovrebbero gestire informazione e
processi attenendosi alle complesse norme che proibiscono di fare
lashon harà (maldicenza e dintorni). Ma questo è un altro discorso.
Rav
Scialom Bahbout
Oylem Goylem
La forza delle parole è tale che spesso è possibile immaginare i volti
dei personaggi di cui leggiamo le gesta sui libri, oppure di cui
sentiamo i racconti su un palcoscenico, soprattutto quando chi racconta
cerca di disegnare sull’aria la cultura di un popolo. Mentirebbero
coloro che negano di aver cercato di immaginare il volto di quel
cant... cioè macellaio di Naftule Rosenblatt o cosa dire di Moishe
Moshkowitz, residente a New York e circonciso a Varsavia e dei suoi
25.000 rotoli di spago? Non avremmo perso anche noi la testa di fronte
a una yiddishe mame
che ci fa indossare due cravatte colorate?
I personaggi della yiddishkeit dello spettacolo Oylem Goylem prendono
forma, ci appaiono nella loro forma fantastica nel fumetto omonimo
scritto da Moni Ovadia e disegnato da Saverio Montella. Forse proprio
scritto da Moni Ovadia lo possiamo intendere come colui che raccoglie
sulla strada dei secoli una cultura e la porta in scena per raccontarla.
Il
fumetto in diverse occasioni ha dimostrato di avere un rapporto stretto
con il teatro. Spesso alcune grahic novel hanno il senso ritmico e la
melodia di uno spettacolo teatrale o sono loro stessi uno spettacolo.
Basterebbe salire in scena e seguire passo passo le vignette per avere
una sceneggiatura e regia già pronte. Così come in questo caso dove per
esempio le parole del narratore, sempre Ovadia, sono praticamente le
stesse dello spettacolo, comprese le cadenze linguistiche, i cambi di
scena, la presenza delle canzoni, illustrate in un’unica pagina
strapiena di parole, note e disegni.
Questa trasmutazione nella forma e nel luogo, da un palcoscenico
tridimensionale a un foglio di carta bidimensionale, aggiunge nuova
linfa a uno spettacolo che ha avuto fin dalle sue origini il merito di
aver diffuso nella società italiana meno cosciente della presenza
ebraica, informazioni per cercare di capire che la falsità e la
stupidità di pregiudizi e illazioni. Forse qualcuno obietterà che chi è
malevolo rimarrà tale, ma se non si scuote l’albero non cadono le mele.
Se entriamo nel dettaglio di questo libro certo troviamo un ottimo
disegnatore, Saverio Montella, che ha usato uno stile ironico e quasi
farsesco per raccontare le storielle di Ovadia, spogliandole della loro
malinconia e in fondo tristezza che potevano suscitare nel pubblico.
Così forse sarà possibile un’altra versione che esalterà altri aspetti
di quelle storie e poi un’altra ancora... forse è questa la forza di
storie che hanno come oggetto del loro raccontare uomini e donne, cioè
“gente esule e sublime che seppe vivere a cavallo di confini fra cielo
e terra come popolo di stranieri senza eserciti o retoriche
patriottarde, senza polizie o burocrazie, senza fronti o frontiere
eppure popolo, popolo di creature spirituali che celebra la vita nel
mondo materiale, gli ebrei della yiddishkeit” (dall’introduzione di
Moni Ovadia)
Il libro è pubblicato dalla Coconino Press, lo stesso editore di Rutu
Modan.
Andrea
Grilli
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rassegna stampa |
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In questo giorno di festività religiosa cristiana ci sia
permesso, in esordio, di fare i nostri auguri a quei lettori cristiani
che seguono le nostre attività. Confidiamo che siano in molti, tra quei
tanti che ogni giorno ricevono la newsletter, soffermandosi, più o meno
attentamente, sulle valutazioni che da noi vengono offerte della
giornata in corso attraverso la lettura critica degli articoli dei
quotidiani. Oggi i giornali non escono, in concomitanza della solenne
ricorrenza che si celebra con la festività cristiana. Manteniamo
comunque aperta la nostra rassegna ritornando su alcuni passaggi che
hanno contrassegnato la settimana che si sta concludendo. Premettiamo
la considerazione che l’esercizio di presentazione di un palinsesto di
priorità, al quale ogni pubblicista si dedica nello spoglio delle
notizie, è assai meno facile di quanto non possa sembrare di primo
acchito. Esso richiede, a quanti lo fanno, una disposizione d’animo,
oltre che un esercizio professionale, del tutto peculiare. Scegliere
cosa dire è più difficile dell’immaginare di potere dire tutto. Le
notizie non sono mai autoevidenti, ovvero non si impongono per una
immediata centralità o se lo fanno non è detto che, alla resa dei
conti, debbano poi risultare effettivamente tali. Viviamo in una
società dell’informazione che è cosa diversa da una società informata.
Siamo attraversati da un costante flusso di dati, che ci sommergono in
una vera e propria cacofonia. La conoscenza non si alimenta della
bulimia comunicativa bensì della capacità di stabilire delle priorità
così come dei nessi di significato. Di cosa implichi tutto ciò, a ben
pensarci, ne abbiamo avuto una qualche dimostrazione nei giorni scorsi,
quando siamo stati letteralmente inondati da una marea di articoli
dedicati alla nuova tappa nel processo di canonizzazione di Pio XII,
con il decreto del Pontefice sulle di lui «virtù eroiche». La
concomitanza con il percorso di beatificazione di Giovanni Paolo II,
figura percepita come assai più prossima, per sensibilità e vocazione
ecumenica, al mondo ebraico, aveva innescato una serie di sottili
polemiche, peraltro ravvivandone altre, non di certo nuove, poiché da
almeno quarant’anni sul tavolo della discussione. Per chi volesse
esercitarsi in tal senso è disponibile lo studio di Alessandro Persico
su Il caso Pio XII. Mezzo secolo di dibattito su Eugenio Pacelli
(Milano, 2008). È evidente quanto la figura di Eugenio Pacelli
catalizzi giudizi di segno opposto, impedendone molto spesso una sua
adeguata storicizzazione, ovvero la lettura del suo operato alla luce
di una serena considerazione dei tempi, in sé estremamente difficili,
in cui si trovò ad agire. L’articolo più lucido (e sofferto), per parte
cristiana, è stato senz’altro quello di Lucetta Scaraffia, comparso su
il Riformista di ieri.
Sottoscrivibile da tantissimi punti di vista, la qual cosa deve indurci
a ragionare sulla chiarezza di giudizio che molti intellettuali e
studiosi sanno esprimere, permettendoci anche di vedere oltre, invece,
le ingenuità apologetiche di certa stampa di area cattolica. Un’ampia e
variegata messe di studi, firmati da autorevoli ricercatori come Andrea
Riccardi, che nel suo L'inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei
e i nazisti a Roma (Roma-Bari 2008) ci dà un ritratto vivido di una
pluralità di attori che si trovarono ad operare in condizioni di
incertezza, o come il lavoro di Giovanni Miccoli su I dilemmi e i
silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda Guerra Mondiale e Shoah (Milano,
2007), fanno giustizia dei troppi pregiudizi interessati, sia in un
senso che nell’altro, ovvero per enfatico favore o per conclamata
avversione. Peraltro già Anna Foa, con la sua consueta cristallinità,
nei giorni precedenti, su il Sole 24 Ore di martedì 22
dicembre, aveva chiarito quali fossero i termini della questione. Non
riprendiamo quindi i dati del confronto. Semmai ci preme aggiungere che
per parte ebraica quella che era andata manifestandosi non era tanto
una vocazione critica, reputando le scelte di Joseph Ratzinger un fatto
tutto interno alla Chiesa, ma una sopravvenuta perplessità sui modi e i
tempi delle medesime non meno che sul futuro del dialogo
interreligioso. E tuttavia nella querelle che, in sé irrisolta, investe
a tutt’oggi il giudizio complessivo da formulare su un pontificato
trascorso, quindi sul suo operato diplomatico (e “politico”), a
sentirsi chiamati in causa sono stati anche e soprattutto i non ebrei.
La qual cosa, in tutta onestà, non deve sorprendere poiché i tempi di
Pio XII sono quelli cruciali della lotta tra democrazia e
totalitarismi. Il giudizio che si formula su di essi si riverbera,
inesorabilmente, sulla coscienza dell’oggi, ovvero sulla forma dei
rapporti e sui limiti che devono essere identificati e mantenuti nelle
relazioni tra la Chiesa, intesa come organismo secolare che però si
investe di un carisma etico tendenzialmente totalizzante, e quei
soggetti che operano in nome e per conto di una collettività, a partire
dagli Stati medesimi, basando la loro legittimazione solo ed unicamente
su una dimensione laica del proprio operare. Ciò che ne emerge è quindi
una vicenda che raccoglie su di sé più aspetti di irrisolta
conflittualità, che vanno oltre la stretta controversia sulla figura
storica di Pio XII, per coinvolgere immediatamente più piani critici:
poiché mentre per il mondo cattolico c’è in gioco anche il problema
dell’eredità post-conciliare (essendo Pacelli uomo di una Chiesa ancora
molto legata a quanto stava ben prima del Concilio Vaticano II) per
quello ebraico non è indifferente il problema di «chi rappresenta
cosa», essendo stato in questo caso rilevante il ruolo avuto dalla
Comunità di Roma e dal Rabbinato nel segnalare i punti di insanabile
discontinuità con la decisione papale così come i margini di
ricucitura. Si legga, a tale riguardo, quanto David Bidussa sosteneva
ieri su il Secolo XIX. Varrebbe infine la
pena di aggiungere che nell’accostamento tra i due Papi, operato dal
loro successore, all’ipotesi di un calcolo di opportunità è subentrato
il senso di disagio, vissuto da non pochi, per il vedere accomunate due
figure estremamente diverse, a partire dalla stessa indole personale:
tanto intellettuale e diplomatico Eugenio Pacelli, ai limiti di un
calcolato bizantinismo curiale, quanto spontaneo e verace Karol
Woytila. Entrambi i pontefici animati da un potente registro
anticomunista, con la differenza che mentre il polacco, sotto il suo
pontificato, ha registrato la crisi e la morte del circuito dei paesi a
«democrazia popolare», il tedesco ne aveva invece vissuta l’espansione,
derivata soprattutto dall’esito del tragico confronto bellico. Due
storie diverse per due personaggi distinti, insomma, che male sembrano
comunicare tra loro, meno ancora se in ragione di un esercizio di
sovrapposizione dove le virtù dell’uno avrebbero dovuto attenuare le
zone d’ombra dell’altro. Da ultimo, su una vicenda che sicuramente
presenterà ancora sviluppi in un prossimo futuro, sono significative,
tra le tante cose scritte, più o meno a proposito e con maggiore o
minore precisione, le lettere che ogni tanto fanno capolino nelle
apposite rubriche dei quotidiani. Si tratta di un genere letterario per
molti aspetti a se stante, che ci dà però un po’ il polso della
situazione. A leggerle ne emerge il ritratto di una parte di quella
Italia che si identifica con il cattolicesimo e che sembra tollerare
con difficoltà quello che impropriamente percepisce come un “diritto di
veto”, carpito dagli ebrei ed esercitato ingiustamente contro un Papa
reso impotente dalle circostanze e non dal difetto di volontà. Così, a
titolo di esempio, quanto va affermando un lettore, Alfredo Basmati su
l’Europa di ieri, dove stabilisce,
come un ombra che ritorna, anche se sfumata, un qualche nesso tra i
silenzi di Pio XII e «il fatto che a suo tempo gli ebrei non fecero
nulla per salvare Gesù». Come si avrà modo di osservare c’è un ampio
repertorio di stereotipi che funziona bene, riproponendosi puntualmente
in ogni passaggio critico. La forza dei medesimi sta nella loro
meccanica reiterazione, indipendentemente da qualsivoglia riscontro
critico, al cospetto del quale, ovviamente, non reggerebbero. Quel che
si impone, per parte ebraica, ed è un impegno che è stato mantenuto, è
l’evitare di cadere a sua volta nella riproposizione meccanica di una
visione rigida e cristallizzata della lettura del passato. Che ci
appartiene, anche nella sua tragicità, poiché l’angoscia vissuta non
offusca la serenità del giudizio nel presente. Giudizio aperto,
ovviamente, ad una pluralità di considerazioni di merito.
Claudio
Vercelli
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notizieflash
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Israele, forse la
Livni nel governo Netanyahu
Tel Aviv, 25 gen -
In un intervista
al quotidiano Haaretz il premier israeliano Benyamin Netanyahu (likud)
ha dichiarato di essere interessato a concordare con Tzipi Livni
l'ingresso di Kadima nel suo governo. Netanyahu ha spiegato che ciò si
rende necessario "di fronte alle sfide politiche, militari ed
economiche" con cui Israele dovrà confrontarsi nel prossimo futuro.
Secondo il premier sul piano ideologico non dovrebbero esserci problemi
dopo che nei mesi scorsi lui stesso ha dichiarato di essere a favore
"di uno stato palestinese smilitarizzato accanto allo stato ebraico di
Israele" e dopo aver annunciato un congelamento di dieci mesi nei nuovi
progetti edili nelle colonie della Cisgiordania. Netanyahu ha detto a
Haaretz che potrebbe consegnare alla Livni un ministero senza
portafogli. Se lei opponesse un rifiuto, ha aggiunto, il Likud
esaminerebbe la possibilità di includere nella coalizione anche solo
una parte di Kadima: ossia di propiziarne una scissione. Ieri la
direzione di Kadima ha esaminato le proposte di Netanyahu e ha
annunciato di avergli chiesto un incontro per una verifica più
approfondita. Finora, ha aggiunto Kadima, "si tratta solo di parole
vaghe" e l'incontro richiesto non è stato concordato.
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L'Unione
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incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
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indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
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utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per
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Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross.
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