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L'Unione informa
 
    25 dicembre 2009 - 8 Tevet 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto
Colombo,

rabbino 
“E Iehudà si accostò a lui (Joseph)”. Nella simbologia dello Zohar Joseph rappresenta il cuore ebraico e Iehudà l’azione. Secondo alcuni per diventare Tzaddìk basta essere puri di cuore a prescindere dall’agire. Per l’ebraismo chi non accosta le due cose è solo un peccatore.
Lo Stato d’'Israele non nacque nel 1948, quando fu proclamato ufficialmente nel museo di Tel Aviv, ma circa un anno prima, il 18 luglio 1947, il giorno in cui i soldati di Sua Maestà assalirono i passeggeri di una nave e lanciarono centinaia di bombe lacrimogene sulle 4515 persone che vi erano rimaste intrappolate, gente che due anni prima aveva rischiato di essere uccisa da un altro gas, in un altro luogo”(Yoram Kaniuk, Il comandante dell’'Exodus, Einaudi, Torino 1999). La nave si chiamava Exodus, era partita dalla Francia nel luglio 1947, fu attaccata e speronata dagli inglesi. Vi furono due morti e molti feriti. I profughi furono imbarcati su navi inglesi e rispediti in Europa. Di fronte al loro rifiuto di scendere in Francia, da dove erano partiti, furono sbarcati ad Amburgo e internati in un ex campo nazista, da dove dopo la fondazione dello Stato raggiunsero Eretz Israel. Il comandante dell'Exodus, Yitzhak Aharonovitch, è morto giovedì in Israele, a 86 anni. Nel celebre film ispirato da questa vicenda, aveva il volto di Paul Newman. Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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   Il Presidente Gattegna a Benedetto XVI:
"Un futuro di comprensione, amicizia, fratellanza"

gattegna"L'Unione delle Comunià Ebraiche Italiane invia al Papa Benedetto XVI i migliori auguri e manifesta sollievo e compiacimento per aver superato senza danno l'increscioso incidente avvenuto durante le celebrazioni all'interno della Basilica di S.Pietro". Lo ha dichiarato il Presidente Ucei Renzo Gattegna.
"Nell'attesa del prossimo incontro in occasione della gradita e significativa visita alla Sinagoga di Roma - ha aggiunto Gattegna - esprimiamo l'auspicio e la speranza che il futuro riservi alle nostre comunità e a tutti i popoli sempre maggiore comprensione, amicizia, fratellanza".


Qui Roma: "Sì al dialogo, ma nessun cedimento su Pio XII"

vignettaLa lunghissima riunione del Consiglio della Comunità Ebraica di Roma, conclusasi a tarda notte dopo gli interventi dei rabbanim  e dei sopravvissuti ai campi di concentramento ha approvato all'unanimità un documento che ribadisce la mano tesa al Vaticano proposta dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, ma che puntualizza con altrettanta chiarezza che la prossima visita del Pontefice alla Sinagoga non cancellerà le critiche sui "silenzi" di Pio XII sulla deportazione degli ebrei nei campi di concentramento:  " Il Consiglio della Comunità Ebraica di Roma, allargato alle istituzioni ebraiche italiane, ai rabbini e ai sopravvissuti ai campi di sterminio,  - si legge nel testo - ribadisce l'importanza del dialogo interreligioso di cui la prossima visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma è una tappa fondamentale. Questo evento, che gli ebrei vedono con grandi attese, non deve però essere inteso come un avallo sul contenzioso storico che riguarda la scelta di silenzio di Pio XII. Si attende che la verità possa emergere attraverso la ricerca e la valutazione degli storici su tutti i documenti dell'epoca".
Per la Comunità Ebraica di Roma dunque, La visita di papa Ratzinger è "una tappa fondamentale" per l'importanza che riveste il "dialogo interreligioso", ma l'evento non può essere inteso come "un avallo sul contenzioso storico che riguarda la scelta di silenzio di Pio XII".
Sembra concludersi qui, quindi, la polemica che negli scorsi giorni aveva riempito le pagine dei giornali, dopo che il papa Benedetto XVI aveva dichiarato di voler procedere alla beatificazione del papa Pio XII insieme a quella di papa Giovanni Paolo II ed a cui erano seguite le critiche osservazioni dei leaders comunitari e religiosi ebraici.
A ricucire il dialogo tra la Comunità ebraica e il Vaticano ci aveva pensato il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, che si era affrettato a precisare che la beatificazione di Papa Pacelli non sarebbe avvenuta insieme a quella del successore polacco: "Sarà una valutazione di fede, non storica". "La firma del decreto - aveva detto ancora padre Lombardi riferendosi all'atto di Benedetto XVI in cui annunciava il processo di beatificazione dei due pontefici - non va in alcun modo letta come un atto ostile al popolo ebraico e ci si augura che non sia considerata un ostacolo sul cammino del dialogo tra l'ebraismo e la Chiesa cattolica". Parole che sono riuscite ad allegerire il clima di tensione che si era creato nel già difficile colloquio interreligioso e avevano ispirato il rabbino capo della comunità di Roma a commentare che la precisazione del portavoce della Santa Sede era un "opportuno segnale distensivo", anche se i giudizi sui "silenzi" di Pio XII nei confronti degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, non mutano nella Comunità ebraica.




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Il rigore del digiuno per risvegliare i cuori

Allorché Yosef si fece riconoscere dai suoi fratelli in Egitto, la Torah racconta che “cadde sul collo di Binyamin suo fratello e pianse; e così Binyamin pianse sul suo collo” (Bereshit 45,14). Così commenta Rashi: “E cadde sul collo… e pianse – Per i due Santuari che sarebbero esistiti successivamente sul territorio di Binyamin e sarebbero stati distrutti. E così Binyamin pianse sul suo collo – Per il Tabernacolo di Shilo che sarebbe esistito successivamente sul territorio di Yosef e sarebbe stato distrutto”.
Per quale ragione Yosef e Binyamin piangono ora per i due Santuari destinati ad essere distrutti, molti secoli prima della loro stessa edificazione? Perché piangere fin da ora? La Torah ci insegna che qualsiasi cosa si costruisca richiede la nostra preoccupazione e il nostro interesse molto tempo prima che arriviamo a porre materialmente la sua prima pietra. Yosef e Binyamin desideravano che i Santuari
non fossero distrutti del tutto. L’obbligo di ricordare la distruzione del Bet Hamikdash è stabilito dalla Halakhah e si esprime in ogni occasione di gioia. Fra i segni che si fanno in ricordo della distruzione quando si costruisce una casa vi è la prescrizione di lasciare senza intonaco mezzo metro quadrato di muro (O. Ch. 460,1), in genere di fronte all’ingresso e comunque in modo visibile, così che chiunque entri in casa ne percepisca immediatamente il messaggio: nessuna costruzione ebraica potrà dirsi completa finché non verrà riedificato il Santuario. Anche il Bet Haknesset di Torino risponde appieno a questi requisiti. Nella parete dinanzi all’entrata vi è una parte del muro lasciata incompleta con la scritta Zekher Lachurban, “in ricordo della Distruzione”. Dove ciò non è possibile, come per esempio chi prende in affitto una casa appartenente ad altri, deve appendere alla parete un panno con la scritta: “Se ti dimentico Yerushalaim possa dimenticarmi della mia mano destra” e ciò sarà sufficiente. Il Kaf Hachayim di Baghdad osserva che “chi osserva puntualmente questa Halakhah godrà di stabilità eterna per la sua casa e per tutti coloro che vi abitano". Ma non è questa l’unica Halakhah relativa al ricordo della Distruzione. Maimonide
(Hil. Ta’anit 5,1) scrive che “vi sono giorni in cui è prescritto il digiuno per tutto Israel per via delle disgrazie accadute, al fine di risvegliare i cuori e aprire le vie del pentimento”. Egli spiega che il ricordo delle sciagure antiche, simili alle nostre (in quanto ciò che è accaduto ai padri è un segno per i figli) ci spinge a migliorare il nostro comportamento.
Il digiuno a sua volta ci sprona alla meditazione, in quanto nella nostra ottica sono in definitiva le nostre trasgressioni e quelle commesse dai nostri padri la matrice di ciò che ci accade. Yeshayahu lo spiega con il versetto 54,4: “Il giorno in cui l’uomo affligge la sua anima china come una canna la sua testa”.
Pertanto è opportuno fare di queste giornate un’occasione di studio e di riflessione anziché di distrazione e divertimento.
Uno di questi digiuni è il 10 Tevet che ricorre quest’anno il 27 dicembre. In questo giorno, a opera del re di Babilonia Nabucodonosor, iniziò quell’assedio a Yerushalaim che avrebbe portato alla distruzione del Santuario. Il 10 Tevet ha un aspetto di rigore rispetto agli altri digiuni.
Dalla posa dell’assedio alla breccia nelle mura, il 17 Tammuz, trascorse molto tempo, eppure i nostri Padri non sfruttarono l’occasione per fare Teshuvah.
Il digiuno comporta astensione completa da ogni cibo e bevanda. Anche se il digiuno è prescritto dall’aurora all’uscita delle stelle, una volta che ci si è coricati per dormire il divieto di mangiare scatta a partire dal momento del risveglio anche se questo avviene prima dell’aurora, a meno che la sera prima non si fosse espressa esplicita condizione di alzarsi a mangiare prima dell’aurora. Tale clausola non è invece richiesta per il bere: chi si alza prima dell’aurora potrà bere entro gli orari prescritti anche se non ne aveva espresso intenzione la sera precedente.
Le Tefillot del digiuno comportano per i digiunanti l’inserimento di un’aggiunta speciale nella Amidah, Anenu, in cui si chiede a D-o di esaudire lo sforzo del nostro digiuno. Vi è a questo proposito una differenza fra l’uso sefardita e italiano e quello ashkenazita. Mentre i primi inseriscono Anenu sia nella Amidah di Shachrit che in quella di Minchah, gli ashkenaziti lo recitano solo a Minchah:
secondo questa opinione, infatti, prevale il dubbio che l’individuo possa essere costretto ad interrompere il digiuno a metà giornata nel qual caso la recitazione di Anenu avvenuta al mattino si rivelerebbe a posteriori una affermazione non veritiera. Ha luogo inoltre la lettura di una speciale Parashah a Shachrit e a Minchah, nonché di una Haftarah speciale, solo a Minchah. Perché tutto questo abbia luogo è necessario non solo avere il minyan ma anche che vi sia compresa una maggioranza (almeno sei uomini) che si impegni fin dall’inizio a portare a termine il digiuno.
E’ uso delle Comunità italiane che i digiunanti indossino i Tefillin sia a Shachrit che a Minchah.Tutti sono tenuti ad osservare il digiuno, eccetto le donne in stato interessante e le puerpere che allattano. Anche persone molto anziane o
ammalate sono esentate, ma devono mangiare soltanto quanto basta loro a mantenersi in forze e non approfittare dell’esenzione per godere del cibo.Da anni al Digiuno del 10 di Tevet è stato associato un significato nuovo. Per disposizione del Rabbinato Centrale d’Israele esso è diventato lo Yom Hakaddish Haklali per fornire un anniversario simbolico a tutti quei martiri della Shoah di cui non si può conoscere la data della morte e, spesso, neppure il luogo della sepoltura, ammesso che siano mai stati sepolti. In tal modo si ritiene di “riparare”, se non altro sul piano religioso, all’”assedio” dei campi di concentramento. In tutte le Comunità si tiene una speciale Commemorazione dei deportati, con la lettura dei nomi e la recitazione del Kaddish. In tempi ancora più recenti il Parlamento israeliano ha istituito lo Yom Hashoah
(Vehaghevurah), nell’anniversario dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia, che ha preso piede nel mondo ebraico quasi in “concorrenza” con il 10 Tevet. Non è qui la sede per discutere dell’opportunità di questa scelta. E’ senz’altro meritevole il fatto di dedicare una giornata in più al ricordo della Shoah, meglio se attraverso occasioni di studio e approfondimento. Ma per quanto concerne la recitazione del Kaddish è meglio attenersi alle indicazioni dei nostri Maestri, che ci raccomandano di non moltiplicare le occasioni di lutto. Dal momento che è già istituito fin da antico il 10 Tevet come giorno di digiuno, nulla vieta di associare al suo significato e recitare in detto giorno anche la Commemorazione dei deportati. Incidentalmente, questo è l’uso seguito della Comunità di Torino. L’augurio è che possa presto realizzarsi la Profezia di Zekharyah secondo cui tutti i Digiuni sono destinati a trasformarsi in giorni di gioia per il popolo d’Israele.

Alberto Moshe Somekh, rabbino capo di Torino,
Pagine Ebraiche gennaio 2010
 
 
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  bahboutTorah oggi - Complicità e responsabilità

Dopo l’aggressione subita dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, abbiamo assistito a una sfilza di dichiarazioni sia nelle trasmissioni televisive che al Parlamento circa la responsabilità di presunti mandanti dell’aggressione. Un precedente simile è quello dell’assassinio di Izhak Rabin: allora si cercò di attribuirne la responsabilità sia all’atmosfera che si respirava in quei giorni in Israele sia in quella che si respirava all’università in cui aveva studiato il giovane attentatore. Nel nostro caso si è cercato di attribuire la responsabilità al clima creato dai giornalisti e dai giudici che avrebbero in tal modo armato la mano dell’aggressore.
La tentazione di scaricare su qualcuno di comodo la responsabilità di un atto criminoso è sempre molto forte, ma vediamo cosa dice in proposito la halakhà. Vi sono due concetti che potrebbero essere applicati a questo caso:
1) Shaliàch lidvàr ‘averà. Delegato a compiere una trasgressione. Molti gerarchi nazisti hanno cercato di giustificare i propri crimini adducendo il fatto che stavano eseguendo un ordine. Ora, mentre si può delegare una persona a compiere una mitzvà, non si può fare la medesima cosa per una ‘averà (trasgressione): ognuno è responsabile in prima persona degli atti che compie.
2) Mesajè’a le’ovèr ‘averà. Contribuire al compimento di una trasgressione. Ad esempio, immaginando un furto, pur non avendo compiuto in prima persona l’azione criminosa, il ricettatore contribuisce di fatto agevolando chi lo ha compiuto. Dopo l’aggressione si è detto che qualcuno aveva armato la mano dell’attentatore, passandogli la statuetta del duomo in miniatura utilizzata per sferrare il colpo: la responsabilità primaria dell’atto appartiene comunque alla persona che lo ha sferrato, ma chi avrebbe passato l’arma contundente avrebbe contribuito all’azione e sarebbe da considerarsi comunque messaje’a le’over ‘averà.
A mio parere, gli articoli, le trasmissioni televisive e le dichiarazioni di pentiti che avrebbero “avvelenato” il clima nei giorni che precedettero l’aggressione a Silvio Berlusconi non possono rientrare nella categoria di messaje’a le’over ‘averà.  Ognuno può essere dichiarato responsabile solo delle proprie azioni.
Dichiarazioni, articoli e processi vanno valutati entro un altro ambito della halakhà: i giudici e i media dovrebbero gestire informazione e processi attenendosi alle complesse norme che proibiscono di fare lashon harà (maldicenza e dintorni). Ma questo è un altro discorso.

Rav Scialom Bahbout



oylemgolemOylem Goylem
La forza delle parole è tale che spesso è possibile immaginare i volti dei personaggi di cui leggiamo le gesta sui libri, oppure di cui sentiamo i racconti su un palcoscenico, soprattutto quando chi racconta cerca di disegnare sull’aria la cultura di un popolo. Mentirebbero coloro che negano di aver cercato di immaginare il volto di quel cant... cioè macellaio di Naftule Rosenblatt o cosa dire di Moishe Moshkowitz, residente a New York e circonciso a Varsavia e dei suoi 25.000 rotoli di spago? Non avremmo perso anche noi la testa di fronte a una yiddishe mame che ci fa indossare due cravatte colorate?
I personaggi della yiddishkeit dello spettacolo Oylem Goylem prendono forma, ci appaiono nella loro forma fantastica nel fumetto omonimo scritto da Moni Ovadia e disegnato da Saverio Montella. Forse proprio scritto da Moni Ovadia lo possiamo intendere come colui che raccoglie sulla strada dei secoli una cultura e la porta in scena per raccontarla.

Il fumetto in diverse occasioni ha dimostrato di avere un rapporto stretto con il teatro. Spesso alcune grahic novel hanno il senso ritmico e la melodia di uno spettacolo teatrale o sono loro stessi uno spettacolo. Basterebbe salire in scena e seguire passo passo le vignette per avere una sceneggiatura e regia già pronte. Così come in questo caso dove per esempio le parole del narratore, sempre Ovadia, sono praticamente le stesse dello spettacolo, comprese le cadenze linguistiche, i cambi di scena, la presenza delle canzoni, illustrate in un’unica pagina strapiena di parole, note e disegni.
Questa trasmutazione nella forma e nel luogo, da un palcoscenico tridimensionale a un foglio di carta bidimensionale, aggiunge nuova linfa a uno spettacolo che ha avuto fin dalle sue origini il merito di aver diffuso nella società italiana meno cosciente della presenza ebraica, informazioni per cercare di capire che la falsità e la stupidità di pregiudizi e illazioni. Forse qualcuno obietterà che chi è malevolo rimarrà tale, ma se non si scuote l’albero non cadono le mele.
Se entriamo nel dettaglio di questo libro certo troviamo un ottimo disegnatore, Saverio Montella, che ha usato uno stile ironico e quasi farsesco per raccontare le storielle di Ovadia, spogliandole della loro malinconia e in fondo tristezza che potevano suscitare nel pubblico. Così forse sarà possibile un’altra versione che esalterà altri aspetti di quelle storie e poi un’altra ancora... forse è questa la forza di storie che hanno come oggetto del loro raccontare uomini e donne, cioè “gente esule e sublime che seppe vivere a cavallo di confini fra cielo e terra come popolo di stranieri senza eserciti o retoriche patriottarde, senza polizie o burocrazie, senza fronti o frontiere eppure popolo, popolo di creature spirituali che celebra la vita nel mondo materiale, gli ebrei della yiddishkeit” (dall’introduzione di Moni Ovadia)
Il libro è pubblicato dalla Coconino Press, lo stesso editore di Rutu Modan.

Andrea Grilli

 
 
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In questo giorno di festività religiosa cristiana ci sia permesso, in esordio, di fare i nostri auguri a quei lettori cristiani che seguono le nostre attività. Confidiamo che siano in molti, tra quei tanti che ogni giorno ricevono la newsletter, soffermandosi, più o meno attentamente, sulle valutazioni che da noi vengono offerte della giornata in corso attraverso la lettura critica degli articoli dei quotidiani. Oggi i giornali non escono, in concomitanza della solenne ricorrenza che si celebra con la festività cristiana. Manteniamo comunque aperta la nostra rassegna ritornando su alcuni passaggi che hanno contrassegnato la settimana che si sta concludendo. Premettiamo la considerazione che l’esercizio di presentazione di un palinsesto di priorità, al quale ogni pubblicista si dedica nello spoglio delle notizie, è assai meno facile di quanto non possa sembrare di primo acchito. Esso richiede, a quanti lo fanno, una disposizione d’animo, oltre che un esercizio professionale, del tutto peculiare. Scegliere cosa dire è più difficile dell’immaginare di potere dire tutto. Le notizie non sono mai autoevidenti, ovvero non si impongono per una immediata centralità o se lo fanno non è detto che, alla resa dei conti, debbano poi risultare effettivamente tali. Viviamo in una società dell’informazione che è cosa diversa da una società informata. Siamo attraversati da un costante flusso di dati, che ci sommergono in una vera e propria cacofonia. La conoscenza non si alimenta della bulimia comunicativa bensì della capacità di stabilire delle priorità così come dei nessi di significato. Di cosa implichi tutto ciò, a ben pensarci, ne abbiamo avuto una qualche dimostrazione nei giorni scorsi, quando siamo stati letteralmente inondati da una marea di articoli dedicati alla nuova tappa nel processo di canonizzazione di Pio XII, con il decreto del Pontefice sulle di lui «virtù eroiche». La concomitanza con il percorso di beatificazione di Giovanni Paolo II, figura percepita come assai più prossima, per sensibilità e vocazione ecumenica, al mondo ebraico, aveva innescato una serie di sottili polemiche, peraltro ravvivandone altre, non di certo nuove, poiché da almeno quarant’anni sul tavolo della discussione. Per chi volesse esercitarsi in tal senso è disponibile lo studio di Alessandro Persico su Il caso Pio XII. Mezzo secolo di dibattito su Eugenio Pacelli (Milano, 2008). È evidente quanto la figura di Eugenio Pacelli catalizzi giudizi di segno opposto, impedendone molto spesso una sua adeguata storicizzazione, ovvero la lettura del suo operato alla luce di una serena considerazione dei tempi, in sé estremamente difficili, in cui si trovò ad agire. L’articolo più lucido (e sofferto), per parte cristiana, è stato senz’altro quello di Lucetta Scaraffia, comparso su il Riformista di ieri. Sottoscrivibile da tantissimi punti di vista, la qual cosa deve indurci a ragionare sulla chiarezza di giudizio che molti intellettuali e studiosi sanno esprimere, permettendoci anche di vedere oltre, invece, le ingenuità apologetiche di certa stampa di area cattolica. Un’ampia e variegata messe di studi, firmati da autorevoli ricercatori come Andrea Riccardi, che nel suo L'inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma (Roma-Bari 2008) ci dà un ritratto vivido di una pluralità di attori che si trovarono ad operare in condizioni di incertezza, o come il lavoro di Giovanni Miccoli su I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda Guerra Mondiale e Shoah (Milano, 2007), fanno giustizia dei troppi pregiudizi interessati, sia in un senso che nell’altro, ovvero per enfatico favore o per conclamata avversione. Peraltro già Anna Foa, con la sua consueta cristallinità, nei giorni precedenti, su il Sole 24 Ore di martedì 22 dicembre, aveva chiarito quali fossero i termini della questione. Non riprendiamo quindi i dati del confronto. Semmai ci preme aggiungere che per parte ebraica quella che era andata manifestandosi non era tanto una vocazione critica, reputando le scelte di Joseph Ratzinger un fatto tutto interno alla Chiesa, ma una sopravvenuta perplessità sui modi e i tempi delle medesime non meno che sul futuro del dialogo interreligioso. E tuttavia nella querelle che, in sé irrisolta, investe a tutt’oggi il giudizio complessivo da formulare su un pontificato trascorso, quindi sul suo operato diplomatico (e “politico”), a sentirsi chiamati in causa sono stati anche e soprattutto i non ebrei. La qual cosa, in tutta onestà, non deve sorprendere poiché i tempi di Pio XII sono quelli cruciali della lotta tra democrazia e totalitarismi. Il giudizio che si formula su di essi si riverbera, inesorabilmente, sulla coscienza dell’oggi, ovvero sulla forma dei rapporti e sui limiti che devono essere identificati e mantenuti nelle relazioni tra la Chiesa, intesa come organismo secolare che però si investe di un carisma etico tendenzialmente totalizzante, e quei soggetti che operano in nome e per conto di una collettività, a partire dagli Stati medesimi, basando la loro legittimazione solo ed unicamente su una dimensione laica del proprio operare. Ciò che ne emerge è quindi una vicenda che raccoglie su di sé più aspetti di irrisolta conflittualità, che vanno oltre la stretta controversia sulla figura storica di Pio XII, per coinvolgere immediatamente più piani critici: poiché mentre per il mondo cattolico c’è in gioco anche il problema dell’eredità post-conciliare (essendo Pacelli uomo di una Chiesa ancora molto legata a quanto stava ben prima del Concilio Vaticano II) per quello ebraico non è indifferente il problema di «chi rappresenta cosa», essendo stato in questo caso rilevante il ruolo avuto dalla Comunità di Roma e dal Rabbinato nel segnalare i punti di insanabile discontinuità con la decisione papale così come i margini di ricucitura. Si legga, a tale riguardo, quanto David Bidussa sosteneva ieri su il Secolo XIX. Varrebbe infine la pena di aggiungere che nell’accostamento tra i due Papi, operato dal loro successore, all’ipotesi di un calcolo di opportunità è subentrato il senso di disagio, vissuto da non pochi, per il vedere accomunate due figure estremamente diverse, a partire dalla stessa indole personale: tanto intellettuale e diplomatico Eugenio Pacelli, ai limiti di un calcolato bizantinismo curiale, quanto spontaneo e verace Karol Woytila. Entrambi i pontefici animati da un potente registro anticomunista, con la differenza che mentre il polacco, sotto il suo pontificato, ha registrato la crisi e la morte del circuito dei paesi a «democrazia popolare», il tedesco ne aveva invece vissuta l’espansione, derivata soprattutto dall’esito del tragico confronto bellico. Due storie diverse per due personaggi distinti, insomma, che male sembrano comunicare tra loro, meno ancora se in ragione di un esercizio di sovrapposizione dove le virtù dell’uno avrebbero dovuto attenuare le zone d’ombra dell’altro. Da ultimo, su una vicenda che sicuramente presenterà ancora sviluppi in un prossimo futuro, sono significative, tra le tante cose scritte, più o meno a proposito e con maggiore o minore precisione, le lettere che ogni tanto fanno capolino nelle apposite rubriche dei quotidiani. Si tratta di un genere letterario per molti aspetti a se stante, che ci dà però un po’ il polso della situazione. A leggerle ne emerge il ritratto di una parte di quella Italia che si identifica con il cattolicesimo e che sembra tollerare con difficoltà quello che impropriamente percepisce come un “diritto di veto”, carpito dagli ebrei ed esercitato ingiustamente contro un Papa reso impotente dalle circostanze e non dal difetto di volontà. Così, a titolo di esempio, quanto va affermando un lettore, Alfredo Basmati su l’Europa di ieri, dove stabilisce, come un ombra che ritorna, anche se sfumata, un qualche nesso tra i silenzi di Pio XII e «il fatto che a suo tempo gli ebrei non fecero nulla per salvare Gesù». Come si avrà modo di osservare c’è un ampio repertorio di stereotipi che funziona bene, riproponendosi puntualmente in ogni passaggio critico. La forza dei medesimi sta nella loro meccanica reiterazione, indipendentemente da qualsivoglia riscontro critico, al cospetto del quale, ovviamente, non reggerebbero. Quel che si impone, per parte ebraica, ed è un impegno che è stato mantenuto, è l’evitare di cadere a sua volta nella riproposizione meccanica di una visione rigida e cristallizzata della lettura del passato. Che ci appartiene, anche nella sua tragicità, poiché l’angoscia vissuta non offusca la serenità del giudizio nel presente. Giudizio aperto, ovviamente, ad una pluralità di considerazioni di merito.


Claudio Vercelli

 
 
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Israele, forse la Livni nel governo Netanyahu                                 Tel Aviv, 25 gen -
In un intervista al quotidiano Haaretz il premier israeliano Benyamin Netanyahu (likud) ha dichiarato di essere interessato a concordare con Tzipi Livni l'ingresso di Kadima nel suo governo. Netanyahu ha spiegato che ciò si rende necessario "di fronte alle sfide politiche, militari ed economiche" con cui Israele dovrà confrontarsi nel prossimo futuro. Secondo il premier sul piano ideologico non dovrebbero esserci problemi dopo che nei mesi scorsi lui stesso ha dichiarato di essere a favore "di uno stato palestinese smilitarizzato accanto allo stato ebraico di Israele" e dopo aver annunciato un congelamento di dieci mesi nei nuovi progetti edili nelle colonie della Cisgiordania. Netanyahu ha detto a Haaretz che potrebbe consegnare alla Livni un ministero senza portafogli. Se lei opponesse un rifiuto, ha aggiunto, il Likud esaminerebbe la possibilità di includere nella coalizione anche solo una parte di Kadima: ossia di propiziarne una scissione. Ieri la direzione di Kadima ha esaminato le proposte di Netanyahu e ha annunciato di avergli chiesto un incontro per una verifica più approfondita. Finora, ha aggiunto Kadima, "si tratta solo di parole vaghe" e l'incontro richiesto non è stato concordato.
 
 
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