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L'Unione informa |
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29 dicembre 2009 - 12 Tevet 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Della Rocca, rabbino |
Mentre
Giuseppe invia i suoi fratelli a tranquillizzare il padre sulla potenza
materiale e politica acquisita, Giacobbe invia in Egitto il figlio
Giuda a predisporre un luogo di studio, indicando così che nessun ebreo
può abitare fuori da Eretz Israel se prima non si assicura
l'organizzazione di un'educazione ebraica permanente. Giacobbe conferma
con questa scelta che la ricchezza del popolo ebraico si basa
essenzialmente sulla Torà piuttosto che sulla potenza politica ed
economica. Ma perché Giacobbe affida questo incarico a Giuda e non a
Giuseppe che, dopo tutto, era già in Egitto ed essendo viceré avrebbe
potuto, con i suoi grandi mezzi, costruire una scuola di Torà
eccellente? Il commento Oznaim La Torà ci indica che chi si dedica allo
studio della Torà deve essere legato alla Torà stessa, senza
distrazioni di ordine "politico". Ecco perché lo studio della Torà di
Yosef non poteva essere sufficiente. |
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Quando
arriva Natale a Detroit è il "Mitzvah Day", il giorno nel quale gli
aderenti alla locale comunità ebraica si offrono volontari nei servizi
pubblici - ospedali, trasporti, parchi - per consentire ai dipendenti
cristiani di festeggiare in famiglia la il loro evento religioso più
importante. E quest'anno c'è stata una novità: agli oltre 900 volontari
ebrei se ne sono aggiunti 40 musulmani, arrivati su iniziativa delle
moschee locali che hanno aderito al "Mitzvah Day" ritenendola un'ottima
iniziativa.
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Maurizio Molinari, giornalista |
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“Ebraismo e Novecento” - Alla scoperta di un secolo che ha trasformato l’identità ebraica
Nella
moltitudine di iniziative editoriali che si sono recentemente occupate
di ebraismo e cose ebraiche, spicca “Ebraismo e Novecento - Diritti,
cittadinanza e identità”, ultima fatica di Francesco Lucrezi, docente
di Storia del diritto romano dell’Università di Salerno. Il volume,
pubblicato dalla “S.Belforte & C. Editori librai dal 1805” e
presentato nelle scorse settimane a Livorno con il patrocinio della
Comunità ebraica locale, ricostruisce le recenti vicende del popolo
eletto ed offre numerosi spunti di riflessione su tematiche delicate ed
estremamente attuali nella sempre più multietnica Europa, come laicità
delle istituzioni e dialogo interreligioso Professor Lucrezi, ci parli un po’ del suo ultimo libro. Come nasce? Cosa vi si racconta? Si
tratta di una raccolta di saggi e testi di relazioni che ho avuto modo
di elaborare negli ultimi anni in diversi contesti. Alcune linee di
fondo collegavano i vari contributi dedicati, in vario modo, ai
mutamenti intervenuti nel corso del Novecento sull’identità ebraica,
con particolare riferimento agli aspetti dei diritti e della
cittadinanza. L’idea di riunirli e ripubblicarli in una nuova versione
unitaria, aggiornata e modificata, è nata parlando con l’editore Guido
Guastalla in occasione del Moked di Forte dei Marmi del maggio 2008,
dove ero stato invitato a tenere una conferenza. Ringrazio molto
l’amico Guastala dell’opportunità concessami, perché il libro mi sta
dando delle grandi soddisfazioni. Mi ha permesso di mettere ordine fra
le mie idee e mi pare che risulti gradito anche ai miei studenti. Quando
ha avuto origine il suo interesse per la cultura ebraica? C’è un
episodio o una persona in particolare che l’ha spinta ad occuparsene? Direi
da sempre. L’interesse per l’ebraismo mi è stato trasmesso da mio
padre, che mi ha insegnato ad apprezzarne il valore non solo nei testi
sacri, ma anche nelle arti, nella letteratura, nella scienza moderna.
La mia tesi di laurea, discussa nel lontano 1977, fu sulla Giudea
nell’impero romano e da allora ho sempre continuato a studiare
tematiche dell’ebraismo antico e moderno. Devo dire che non si tratta
di solo interesse, ma anche di vero e proprio amore, in particolare per
la Terra di Israele, nella quale mi reco in genere ogni anno, e che
considero, da non israeliano e non ebreo, una sorta di mia “patria
ideale”. Uno dei capitoli di
“Ebraismo e Novecento” è dedicato al modo in cui vengono affrontati, in
Italia e in Israele, il tema della laicità e quello della libertà di
culto. Quali sono, secondo lei, le principali differenze tra i due
paesi? E’ difficile fare un paragone perché le situazioni
sono molto differenti. In Italia, come è noto, c’è il problema di una
forte influenza sulla vita civile da parte delle autorità
ecclesiastiche che, a parere di alcuni, io fra questi, arriva spesso a
conculcare il principio di laicità. Basta pensare al diritto di
famiglia, alle questioni di bioetica, all’ora di religione o
all’esposizione dei simboli religiosi. Non si pone tanto, nel nostro
paese, un problema di libertà di religione, quanto di libertà dalla
religione, ossia di tutela da interferenze e pressioni da parte del
clero. Anche in Israele, naturalmente, esistono problemi. Come ad
esempio l’assenza del matrimonio civile o le interruzioni obbligatorie
nello shabbat. Ma essi sono avvertiti in un modo diverso, per la
diversa percezione della dimensione religiosa nell’identità nazionale e
anche per l’assenza di un’unica autorità religiosa in grado di
esprimere condizionamenti in modo verticistico. Se un rabbino vieta
qualcosa, un altro può invece pronunciarsi diversamente. Ma
indubbiamente, come ho scritto nel libro, il comune sentimento di
accerchiamento e pericolo vissuto da tutto il Paese fa sì che questi
problemi non siano considerati una priorità di fronte a emergenze ben
più urgenti e drammatiche. Tutti, laici e religiosi, sanno bene di
essere, agli occhi dei nemici, una sola cosa. Un Israele finalmente
libero dalla paura dei nemici interni ed esterni sarebbe obbligato, con
tutta probabilità, a confrontarsi con profonde divisioni al proprio
interno. Sarebbe (sarà) un confronto difficile e doloroso ma
naturalmente c’è da augurarsi che possa avvenire presto. Il
17 gennaio papa Ratzinger sarà nel ghetto di Roma per visitare la
sinagoga della capitale, un gesto simbolico che dovrebbe rafforzare
ancora di più il dialogo, a volte complicato ma tutto sommato proficuo,
tra ebrei e cristiani. Sembrano invece persistere alcune grosse
difficoltà nelle relazioni diplomatiche tra Vaticano e Israele. Qual è
la sua opinione in proposito? La questione è molto
complessa, io distinguerei due livelli. Quello politico-diplomatico e
quello sostanziale. Sul primo piano non c’è dubbio sul fatto che la
Chiesa Cattolica eserciti ancora un’enorme influenza e che il mondo
ebraico, costretto a vivere nella diaspora in condizioni di più o meno
precario equilibrio, o in Terra d’Israele, di costante pericolo, abbia
tutto l’interesse ad avere con il Vaticano rapporti di amicizia o
almeno di buon vicinato. Tuttavia, la storia dei rapporti tra la Chiesa
e l’ebraismo è quella che è, non si può fare finta di niente. E’ vero
che a partire dal Concilio Vaticano II ci sono stati dei cambiamenti,
ma non si può pensare che due millenni di “teologia del disprezzo”
possano sparire così, per incanto. Dopo il Concilio, e soprattutto
negli anni Ottanta e Novanta, alcuni coraggiosi pronunciamenti e gesti
da parte ecclesiastica hanno creato la sensazione, o l’illusione, che
ci si fosse inoltrati in un irreversibile cammino di amicizia e
mutua comprensione e che tutti i brutti ricordi potessero essere
relegati nel passato. Ma, a mio avviso, questa illusione è venuta meno,
sia sul piano del dialogo ebraico - cristiano sia su quello dei
rapporti con lo Stato di Israele, col nuovo millennio, già negli ultimi
anni del precedente pontificato. La Chiesa ha recentemente ribadito, in
modo inequivocabile, che l’obiettivo della conversione degli ebrei non
è venuto meno, e ciò significa una sostanziale non accettazione
dell’identità ebraica. Certo, da una semplice non accettazione non è
detto scaturiscano odio, persecuzioni o altro, ma essa, comunque, resta
e resterà una pietra d’intralcio sul cammino di un’amicizia che voglia
essere sincera e non soltanto diplomatica. Un
ostacolo molto grosso al dialogo è sembrata la recente firma apposta da
Ratzinger sul decreto che riconosce le virtù eroiche di Pio XII... La questione è complessa, e si presta a diverse considerazioni. In
primo luogo, va detto che il fatto che Pio XII abbia assunto un
atteggiamento quanto meno debole di fronte alle atrocità naziste è un
dato di fatto storico, che non può essere contestato. La più ricorrente
giustificazione dei silenzi di Pacelli, come è noto, consiste
nell’argomento secondo cui un intervento pubblico del Vaticano, anziché
frenare, avrebbe ulteriormente intensificato lo sterminio in atto nel
cuore dell’Europa. Ma è un argomento che non spiega perché, neanche
dopo la fine della guerra, e quindi a pericolo terminato, nel pur lungo
periodo intercorso fino alla morte del pontefice (9 ottobre 1958), non
sia mai arrivato dalla Cattedra di Pietro alcun riferimento a quanto
accaduto ad Auschwitz e negli altri campi della morte. E non spiega
come mai nessun analogo timore frenò il papa, il primo luglio del 1949,
dallo scomunicare comunisti e socialisti, nonostante l’enorme potere di
cui all’epoca godeva l’Unione Sovietica. Se solo il Papa avesse
combattuto il nazismo con un centesimo dell’energia riservata alla
lotta al comunismo! Ed è molto triste che queste considerazioni debbano
essere lasciate ai soli ebrei, come se fossero questioni che non
debbano interessare l’intera società civile. D’altra
parte, bisogna anche considerare che una svolta nel rapporto tra ebrei
e cristiani si è avuta solo negli anni Sessanta, e che l’antisemitismo
teologico è stata una costante nella millenaria storia della Chiesa.
Uno dei santi più venerati del cattolicesimo, Ambrogio, per fare solo
un esempio, fu violentemente antisemita, al punto da minacciare di
scomunica l’imperatore Teodosio, che voleva semplicemente punire i
cristiani che bruciavano le sinagoghe. Perché mai Pio XII avrebbe
dovuto essere un paladino degli ebrei? C’è anche da dire, poi, che le
recenti moltiplicazioni delle santificazioni, giunte durante il
pontificato di Giovano Paolo II a cifre esponenziali, hanno assunto un
evidente significato di santificazione collettiva della stessa Chiesa,
con tutti i suoi vertici. Tutti i papi contemporanei, ormai, sono
automaticamente destinati alla venerazione degli altar e il diverso
livello di santità viene misurato non attraverso l’esito scontato del
processo di canonizzazione ma attraverso la maggiore o minore celerità
dello stesso. Da questo punto di vista, ritengo che la beatificazione
di papa Pacelli non rivesta, nelle intenzioni ecclesiastiche, uno
specifico significato antiebraico. La Chiesa, semplicemente, santifica
se stessa. Non può ammettere un suo errore. Personalmente ho
trovato molto più grave la riproposizione, nel febbraio del 2008,
dell’auspicio alla conversione degli ebrei contenuto nel vecchio
Missale Romanum tridentino di Pio V, che è stato stigmatizzato dal
Rabbino Di Segni come una “tragica regressione”, una “grave pietra di
inciampo su qualsiasi forma di dialogo tra cattolici ed ebrei”, e
ufficialmente denunciato, in un pubblico comunicato dell’Assemblea
Rabbinica Italiana firmato dal presidente Giuseppe Laras, come “una
sconfitta dei presupposti stessi del dialogo”, rispetto al quale,
pertanto, “si impone quantomeno una pausa di riflessione”. Qualche
forma di parziale spiegazione da parte del Vaticano, a mio avviso
decisamente insoddisfacente, è arrivata successivamente ma, se un
riallacciamento dei rapporti è certamente auspicabile, chiudere
l’apparente incidente di percorso addirittura con un invito al
papa nel Tempio Maggiore è stato, forse, un po’ prematuro. Non si è
trattato, infatti, di un semplice incidente di percorso, ma di qualcosa
di più sostanziale e profondo. Adam Smulevich
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Torà oggi - Il ghiaccio e il fuoco
In
questi giorni in cui il gelo ha bloccato l’Italia, immersi come siamo
in una comunità molto tiepida se non fredda, mi sono tornati alla mente
due modi diversi di relazionarsi a gelo in senso metaforico. Rabbi
Nachman Krochmal (il filosofo ebreo hegeliano) applica alla lettura del
testo della Torà il midrash che dice: “La Torà assomiglia a due
sentieri, uno di fuoco e uno di ghiaccio: chi devia da una parte
finisce nel fuoco, chi devia dall’altra finisce nella neve. Cosa
bisogna fare? Camminare nel mezzo”. Martin Buber, ispirandosi a una
nota massima hassidica, afferma invece: “Bisogna mischiare il fuoco con
il ghiaccio - immergersi in un mare di ghiaccio avendo il fuoco nel
cuore”. In una comunità in cui il fuoco arde ancora sotto le
ceneri, è il momento di occuparsi di cose che generano meno audience,
ma che certamente possono garantire un vero futuro al popolo ebraico.
Rav Scialom Bahbout |
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Al
centro delle cronache ancora l'Iran. Ci sono stati mille arresti,
quindici morti, "a nulla sono valse le manganellate e i proiettili
della polizia e delle milizie pro-regime, i processi farsa, la
propaganda dei media, le torture e gli stupri in prigione avvenuti nei
passati sei mesi. Hanno solo alimentato la rabbia, perché alle
manifestazioni dell'Onda Verde in tutto l'Iran, domenica in occasione
dell'Ashura, a differenza che a giugno la gente non era silenziosa e
pacifica" ma reagiva alla violenza (Viviana Mazza sul Corriere): forse è già "una rivoluzione", come suggerisce Gian Micalessin (Il Giornale). Marta Allevato, sul Giornale,
sottolinea il carattere giovanile, senza leader e "oltre il
riformismo" delle manifestazioni. Da leggere il bel pezzo del Foglio
sulle tattiche usate dai manifestanti per comunicare, con "liturgie,
banconote" e altri mezzi di fortuna, mentre gli arresti avrebbero
"decapitato" l'opposizione. Il regime, secondo l'ex premier iraniano
Beni Sadr (intervistato da Repubblica) sarebbe "al collasso". Il Corriere
riporta una nota al solito piuttosto patetica se non proprio comica
dell'Unione Europea, che fa presente all'Iran che vi sia stato un "uso
della violenza contro dimostranti che cercavano di esercitare la loro
libertà d'espressione e di riunirsi in modo pacifico», invitando
Teheran al «rispetto dei diritti universali evidentemente violati».
"Evidentemente" violati, non violati di nascosto: ohibò! Naturalmente,
la ramanzina non è accompagnata da alcun provvedimento concreto. Del
resto anche Obama, appena interrotta la sua corrispondenza con Kathami
e abbassato un po' la sua celebre "mano tesa" (su cui gli iraniani
ironizzano, come riporta Il Foglio,
"ha aggiunto che gli Usa sono schierati con chi cerca di ottenere il
rispetto dei propri diritti civili e ha chiesto l'immediata
scarcerazione delle persone «ingiustamente arrestate»" (Viviana Mazza)
Ma delle sanzioni per il nucleare che dovevano scattare a fine dicembre
non ha riparlato. Su questo tema è importante l'analisi di Carlo
Panella sul Foglio.
Nel frattempo italiani e inglesi sfruttano il mercato militare aperto
nei paesi del Golfo dalla paura per l'Iran (Pietro Romano sul Foglio). Per il Medio Oriente, da notare la difesa d'ufficio dei tunnel di Gaza da parte di Michele Giorgio sul Manifesto,
che parlando delle loro numerose funzioni sociali "abbassare i prezzi",
"dare lavoro a numerose famiglie", mostra una certa amnesia rispetto al
loro compito principale, l'importazione di armi e razzi per Hamas. Dato
che Mubarak vi si oppone eccolo diventato per il "quotidiano comunista"
"Il faraone", termine insultante nel mondo islamico. Il Manifesto (m.Gio), Liberazione (Volandri), Il Fatto quotidiano, Terra
Di Giovanni) che non si occupano degli iraniani (almeno a giudicare
dalla rassegna) fanno gran scandalo del fatto che l'Egitto abbia
bloccato la "Gaza Freedom March" fino a Gaza. E' interessante che si
rendano conto che in Medio Oriente esistano anche dei paesi non
democratici. In Israele, fino a che non degenerano in violenza, la
manifestazioni filopalestinese sono permesse. Gli stessi giornali (Cocco sul Manifesto, per esempio, ma anche Vitaliano sul Mattino)
montano polemica intorno alla scelta israeliana di costruire 700
appartamenti, cioè in sostanza una ventina di palazzi in vari quartieri
di Gerusalemme. Ci sarebbe una condanna americana, che però letta bene
dice cose ben diverse da quelle che piacciono all'ultrasinistra: c'è la
rituale condanna della costruzione ma poi si aggiunge: "Nessuna delle
due parti dovrebbe intraprendere sforzi o azioni che potrebbero
compromettere da una sola parte, o rischiare di compromettere, future
negoziazioni. Le due parti dovrebbero piuttosto riprendere le
trattative al più presto, senza pre-condizioni». E le precondizioni
vengono tutte dall'Autorità Palestinese. Molto interessante il
contrattacco israeliano nella "warfare" guerra legale che oramai è un
fronte importante del conflitto arabo-israeliano. In una notizia sul Sole
siglata U.T. si legge che un gruppo di cittadini israeliani ha
presentato denuncia a un tribunale belga contro Hamas per crimini di
guerra in relazione ai bombardamenti su Sderot. E' il rovesciamento
della tattica che recentemente aveva portato al mandato di cattura
inglese contro Tzipi Livni. Non cessa intanto il
dibattito sulla beatificazione di Pio XII. Oggi si registra un appello
dei Bené Berit francesi, un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno in cui si contrappone Pio XI "che amava gli ebrei" al suo successore, e una nota del Foglio,
in cui si fa notare il contrasto fra la dichiarazione tranquillizzante
di Padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana e quello
schierato a difesa di Pio XII anche sul piano storico del direttore
dell'Osservatore Romano Gian Maria Vian. Altri articoli. Sul Corriere
Paolo Mieli, ormai passato dal giornalismo militante al ruolo di
divulgatore storiografico iper-buonista, dopo aver accreditato qualche
mese fa la "leggenda rosa" di Pio XII, ora si dedica a riabilitare la
traballante fama di tolleranza del mondo islamico medievale. Anche qui,
una leggenda rosa: nei secoli X e XI "le persecuzioni erano
eccezionali". Chiedetelo agli abitanti di tutta la fascia sud del
Mediterraneo, dal Marocco alla Siria e fino alla Mesopotamia, che erano
cristiani e in parte ebrei e che in quei secoli, misteriosamente
aderirono compattamente all'Islam, salvo qualche isola di resistenza
ebraica, copta, armena ecc. E chiedetelo anche a chi fu costretto a
fuggire, come la famiglia del Rambam... Come spesso gli accade ha toni sgradevolmente antiebraici la risposta di Sergio Romano sul Corriere:
a un lettore che gli chiede se pensa anche lui come Sartori (e come la
realtà evidenza palesemente) che gli islamici non vogliano integrarsi
nella società europea, Romano tira fuori l'esempio della (a suo dire)
non integrazione degli ebrei orientali. Colpa, suggerisce Romano, dei
leader ebraici. Per fortuna, si potrebbe intendere, che dopo il '39 ci
fu qualcuno che trovò una "soluzione finale" a quel problema... A
proposito di Shoà e dintorni, è interessante leggere sulla Stampa (Mario Baudino) la storia del "nazista che salvò Freud". Ugo Volli |
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notizieflash |
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Kadima
rifiuta l'offerta di Netanyahu
“No al governo di unità nazionale” Gerusalemme, 28 dic - Kadima
dice “no” all'offerta del premier Netanyahu di entrare in un governo di
unità nazionale. La decisione è stata presa dalla maggioranza dei
deputati del partito con la piena approvazione della leader di Kadima
Tzipi Livni. "L'offerta del premier, così come ci appare oggi, è
arrogante e irrealistica", ha spiegato il numero due di Kadima Shaul
Mofaz. "Un governo d'unità nazionale - gli ha fatto eco Yohana Plasner,
deputata di Kadima - è una cosa buona ma l'unità nazionale non deve
essere un'espressione senza contenuto ... ci deve essere una vera
partecipazione con visione e principi comuni". Netanyahu aveva offerto
alla Livni tre posti di ministro senza portafoglio e l'adesione al
gabinetto ristretto per la sicurezza e la politica estera ma senza una
modifica del programma politico stabilito con gli altri partiti già
membri della coalizione di governo. Netanyahu si è detto rammaricato
del rifiuto ricevuto. Anche la possibilità di scissione del partito
Kadima è per ora esclusa. Il premier infatti sperava di poter sedurre
almeno alcuni deputati del partito della Livni e spingerli a varcare le
linee alettati dalle proposte di incarichi governativi. Niente di fatto.
Netanyhau: “Sì al rilancio del processo di pace con l'Anp, ma nessun accordo ancora con Hamas” Tel Aviv, 29 dic - Il
premier israeliano Benyamin Netanyahu oggi incontrerà il presidente
egiziano Hosni Mubarak. L'incontro avrà luogo al Cairo e l'oggetto
della discussione sarà la ripresa delle trattative di pace fra Israele
e l'Autorità nazionale palestinese. “I tempi sono ormai maturi per
rilanciare negoziati con il presidente Abu Mazen”, aveva affermato ieri
Neranyahu, che allo stesso tempo si era invece mostrato molto cauto
sulle prospettive di una intesa con Hamas per uno scambio di
prigionieri: "Ancora l'accordo non c'è e non so se ci sarà ", aveva
precisato. Nella visita in Egitto il premier sarà accompagnato dal
ministro dell'industria Benyamin Ben Eliezer (che vanta strette
relazioni personali con la leadership egiziana) e da Yitzhak Molco, un
consigliere politico incaricato di preparare la ripresa delle
trattative con l'Anp. Un altro tema che potrebbe essere discusso
nell'incontro fra Mubarak e Netanyahu (che in parte si svolgerà a
quattr'occhi) è quello della lotta contro il contrabbando di armi verso
Hamas a Gaza. In queste settimane, lungo il confine con la striscia di
Gaza, l'Egitto sta realizzando una barriera sotterranea di acciaio che
presumibilmente dovrebbe bloccare i numerosi tunnel dei
contrabbandieri. Hamas ha espresso collera per quella barriera che
viene qualificata a Gaza come "una punizione collettiva" per i
palestinesi nella Striscia. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
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