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    31 dicembre 2009 - 14 Tevet 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  alfonso arbib Alfonso
Arbib,

rabbino capo
di Milano
Con la parashà di Vayiggàsh comincia la lunga permanenza di Ya'akòv in Egitto che si trasformerà nell'esilio del popolo ebraico in quella terra. Questo inizio viene descritto con un verso che esprime una situazione idilliaca. I figli d'Israele risiedono tranquillamente e agiatamente nella terra di Goshen. Il midràsh però dice che questa descrizione anticipa già gli eventi tragici che seguiranno poiché secondo il midràsh ogni volta in cui la Torà dice "vayeshev" - e risiedette - è segno di disgrazia. Il Maharàl spiega questa affermazione del midràsh come il risultato di un rilassamento e la paura di chi ha raggiunto un obbiettivo. L'uomo però non può permettersi di rilassarsi. Egli deve essere continuamente in una situazione di perfezionamento perché in realtà non può mai dire di aver raggiunto l'obbiettivo ma solo di essere sulla strada per raggiungerlo. 
Cinquecento autori, mille eventi, 2500 partecipanti, una settimana di intensi incontri e confronti su tutti gli aspetti possibili della cultura ebraica, questo in sintesi il Limmud 2009 che si conclude oggi nel campus dell'Università di Warwick in Inghilterra. Limmud è un gigantesco campeggio invernale/incontro culturale dove la comunità ebraica britannica - rinforzata da partecipanti da tutto il mondo - si confronta con le grandi, inquietanti e sempre attuali domande sull'identità ebraica, le sue molte forme, la sua trasmissione, le sue mutazioni in bene e in male. Letture e commenti di testi biblici e talmudici si alternano con densi dibattiti sulle sfide del mondo ebraico di oggi, proiezioni di film a soggetto, sperimentazioni di terapie alternative, attività per i numerosi bambini presenti con i loro genitori, lezioni di lingua e culinaria ebraica, musica, e molto altro. Notevole la presenza di giovani e la felice fusione fra le diverse generazioni. Impressionante la puntualità e la disciplina logistica e organizzativa resa possibile dagli oltre 200 volontari. Ma l'aspetto più saliente del grande incontro annuale è la presenza simultanea nella stessa sede di esponenti delle più differenti e anche contraddittorie versioni dell'ebraismo contemporaneo: persone, idee e organizzazioni che generalmente non consumerebbero un pasto allo stesso tavolo ma pur sempre unite dalla comune appartenenza a Clal Israel. I pasti cashèr e il rispetto dello Shabbat negli spazi pubblici fanno da scenario a una grande ricchezza e varietà di stimoli noti e nuovi, all'incontro personale e alla riflessione sull’odierno essere ebrei come individui e come comunità. Limmud - un progetto di studio in costante crescita numerica dalle 80 persone nel 1980 alle 25.000 nel 2009 in 40 città in Gran Bretagna e in altri 21 paesi - speriamo possa presto essere prodotto anche in Italia.
Sergio
Della Pergola,

Università Ebraica di Gerusalemme
Sergio Della pergola  
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  YHY In memoria di Yosef Hayim Yerushalmi

La scomparsa di Yosef Hayim Yerushalmi è passata un po’ come l’acqua sulla pelle, non lasciando apparentemente tracce degne di nota. In questa sede già Anna Foa, peraltro con sincero afflato autobiografico, aveva evocato il senso di una morte, poiché si può senz’altro parlare di un significato nell’altrui scomparsa, ponendolo in tensione con le percezioni e le emozioni di quanti rimangono. Il vuoto, a ben pensarci, ha una logica, sempre commisurabile allo spazio che occupa e al tempo che richiede per essere misurato. Per questo ci pare di potere dire che in un prossimo futuro l’assenza dell’insigne storico sia destinata a pesare più di quanto non paia adesso. Yerushalmi (nell'immagine) ha costituito per molti studiosi, non solo ebrei, un punto di svolta. Il suo fulminate saggio su «Zakhor: storia ebraica e memoria ebraica», editato in lingua inglese nel 1982 e poi in italiano l’anno successivo (tradotto da Daniela Fink), non costituisce solo un monumento di erudizione tascabile, alla quale peraltro molti autori di tale vulgata ci hanno abituati, ma uno squarcio nell’orizzonte. La dimensione delle «toledoth», le generazioni, ci diceva Yerushalmi, è l’angolo prospettico dal quale valutare l’evoluzione e le trasformazioni che le società ebraiche hanno conosciuto nel corso del tempo. Poiché se il tempo trascorre, esso non è narrato, dal punto di vista ebraico, per il tramite della storia bensì per il mezzo di quella funzione particolare che è il ricorso alla sapienza mnemonica, alimentata dall’esperienza comunitaria. Solo con gli statuti dell’emancipazione, tra il XVIII e il XIX secolo, la storia irrompe definitivamente nella coscienza di sé giudaica, aprendo un campo di riflessioni pressoché infinito e, aggiungiamo noi, offrendo alla cultura quel fenomeno logico, prima ancora che cronologico, conosciuto come «modernità». Si tratta allora, con una lettura e una scrittura non dissacranti, di leggere e interpretare il presente alla luce di un passato che riesca a incorporare in sé il conflitto tra le storie collettive (il modo di raccontarsi e, quindi, di percepirsi) e la cronaca dei fatti, anche laddove questi ultimi testimonino contro le prime. Più che una indicazione di un metodo basato sull’onestà intellettuale e avverso ad ogni dogmatismo, era il riconoscimento della tensione che sempre intercorre tra la memoria, come elemento della identità individuale e collettiva, e la storia umana. Yosef Hayim Yerushalmi, era nato nel Bronx, a New York, nel 1932, figlio di una famiglia di origine russa, emigrata, come tanti suoi pari, negli Stati Uniti. L’humus di provenienza, insomma, erano gli «shtetlach», che all’epoca parevano ai più parte non di un dolce passato da celebrare con irrisolta malinconia ma un brutale presente dal quale fuggire. La seconda generazione dei migranti - non a caso - aveva conosciuto una traiettoria di secolarizzazione che era passata attraverso la frequentazione delle scuole laiche, assurgendo poi al ruolo di professionisti nei diversi campi lavorativi. Si trattava non solo di una indiscutibile trasformazione sociale (ciò che caratterizzò l’immigrazione ebraica negli Usa fu essenzialmente una mobilità sociale dei molti che non aveva pari riscontro in altri flussi migratori) ma anche di un cambiamento culturale, che lasciava alle spalle una concezione organicistica ed essenzialista del giudaismo, per approdare invece ad una dimensione che ne valorizzava gli elementi dinamici. Yerushalmi studiò alla Yeshiva University, la cui impostazione era e rimane quella di offrire ai suoi frequentanti la possibilità di acquisire un curriculum di studi ispirato all’ebraismo ortodosso e alla filosofia della «Torah Umadda» («Torah e sapere secolare»), dove si combina il sistema di valori classico con quello della conoscenza più moderna. Nel 1956 era stato poi ordinato rabbino, al Jewish Theological Seminary di Manhattan, ottenendo, dieci anni dopo, il dottorato presso la non meno prestigiosa Columbia University. Dopo essere stato docente di storia ebraica e di civilizzazione sefardita nella medesima università, era infine divenuto titolare della cattedra Salo Wittmayer Baron, dove insegnava istituzioni di storia e cultura ebraica. Baron, anch’egli figlio dell’universo dell’ «yiddishland» (amava ricordare che della sua città natale, Tarnów, in Galizia, dei 20mila ebrei originari, dopo il transito dei nazisti ne erano rimasti una ventina), probabilmente lo storico dell’ebraismo più importante nel secolo appena trascorso, era stato il maestro di Yerushalmi, che ne aveva non a caso ereditato l’insegnamento. Il metodo comune era la contestualizzazione e la storicizzazione: per Baron, e di riflesso per Yerushalmi, non si poteva dare una storia ebraica scissa dalle influenze delle epoche e dei tempi nei quali essa si era articolata. Non di meno, la dimensione della trasformazione religiosa (un ossimoro per certuni, un dato di fatto per altri) richiedeva, per essere colta, l’analisi e la comprensione dei suoi legami con il percorso delle comunità ebraiche. Il tempo, il suo trascorrere, il significato che ad esso poteva essere attribuito, emergevano integralmente quando Baron ammoniva contro i cedimenti a favore di una «storia lacrimosa dell’ebraismo», affermando invece che se la sofferenza era parte integrante della traiettoria giudaica, essa si integrava con la gioia per l’epoca a venire. Non era estraneo, ai due autori, uno spirito larvatamente messianico, sia pure inserito in una lettura tutta razionalista del mondo. Era un di più che gli allievi coglievano attraverso i segni che i docenti davano durante le loro lezioni, del pari a chi crede che il futuro non è inscritto necessariamente nel presente ma senz’altro il presente si inscrive nel futuro.

Claudio Vercelli
 
 
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  Rav Di SegniIl santo del giorno: papa Silvestro

Non è certo questa la sede per parlare del santo del giorno, ma oggi facciamo un'eccezione. Perché si è parlato molto in questi giorni di papi fatti o da fare santi, con la partecipazione entusiastica degli ebrei, e il santo di oggi, che dà il nome alla notte e alla festa di fine anno civile, è un papa, Silvestro, che ha avuto con noi qualche rapporto. La leggenda cristiana agiografica racconta che l'imperatore Costantino e sua madre Elena, alla ricerca della verità, organizzarono un incontro-scontro interreligioso tra il vescovo di Roma, Silvestro e il rabbino di Roma, moderato un filosofo pagano. Per dimostrare la sua potenza il rabbino si fece portare un toro, gli sussurrò all'orecchio il nome sacro divino e il toro stramazzò a terra. Fu poi la volta di Silvestro che sussurrò all'orecchio del toro il nome del suo Messia, e il toro resuscitò. Miracolo che portò alla conversione del giudice pagano, del rabbino e soprattutto di Elena e Costantino e con loro l'impero romano. Un modo amorevole per dire che la tradizione sacra dell'ebraismo è capace solo di far morire, mentre l'altra fa rivivere. Basta un salto nel passato per capire quanto sia complesso e drammatico il rapporto ebraico-cristiano e quanto pesino in ogni momento certe scelte per il loro valore simbolico.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma



Tizio della Sera Reconditi auguri

Molti amici, vicini, colleghi di lavoro, nell'incertezza se i festeggiamenti dell'imminente 2010 siano da intendere o no in una prospettiva cristiana, per rispetto non fanno gli auguri ai propri amici ebrei. In tal modo, ha inizio un'educata partita a tennis immaginaria, fatta di silenzi e sorrisi fatti e ricevuti tra gli amici ebrei e gli amici cristiani che in queste ore si incontrano per strada, si sorridono, e per quel sorriso non sanno se dire grazie o non dire niente. E' così che, nel timore di sbagliare, vengono fatti e ricevuti col pensiero migliaia e migliaia di auguri che in effetti non sono stati fatti. Non solo. Di fronte ai mancati auguri di buon anno, da entrambe le parti non pochi provano nevroticamente a immaginare se la cosa dipenda da un fatto confessionale o di maleducazione, e anche se gli auguri di buon anno sarebbero stati fatti o accolti qualora non ci fosse stato il reciproco timore di farli e riceverli. In questo complesso conteggio, gli amici ebrei si trovano nell'incertezza se inviare agli amici cristiani gli auguri per il 2010: potrebbero sembrare un velato rimprovero per non aver ricevuto come al solito i graditi auguri sbagliati di Natale. In tale clima nebbioso, in corrispondenza dell'inizio del mancato nuovo anno che tuttavia esisterà avrei personalmente deciso che invece di buongiorno, buona sera e buon appetito d'ora in poi io dirò: “Auguri”. Poi, arrivato in tal modo al cenone di Capodanno del successivo 2011, se al buffet un caro amico cristiano mi dirà buon appetito, risponderò: “Grazie, anche te e famiglia”.

Il Tizio della Sera 
 
 
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L’anno civile che vede il Nobel per la Pace nelle mani di Barack Obama si chiude con i peggiori auspici. Il 2010 sarà ancora palcoscenico di guerre, lotte al terrorismo e minacce nucleari. Gli Stati Uniti, colpiti nuovamente al cuore della sicurezza interna, rischiano di accendere un altro conflitto stavolta nello Yemen. Un fronte che si aggiunge a molti altri. Tra questi c’è l’Iran che, nonostante la mano tesa di Washington, continua a ricattare il mondo. Israele e Stati Uniti sono in cima alla lista. E mentre Liberal racconta dell’opzione militare israeliana per neutralizzare l’atomo di Teheran, Ahmadinejad continua lo smantellamento di un’opposizione che grida giustizia nella lingua dei social network, battendo il dito su una testiera e diffondendo per il Globo le immagini di una dittatura che sparge sangue per le strade. Il Sole 24 Ore manda in stampa un articolo che parla di clima pre-rivoluzionario, dove i capi dell’opposizione sembrano però scomparsi, forse in fuga, forse al confino.
Israele, intanto, resta un Paese minacciato. Il processo di pace è ancora una strada sconosciuta. L’Anp è inerme, Abbas un leader palestinese con troppo poco carattere che ribadisce di non volersi ricandidare alle prossime elezioni (La Stampa). Anche l’Egitto è sotto pressione. Accusato dagli stessi palestinesi di bloccare l’entrata a Gaza e di vietare, oggi, una manifestazione che alla fine invaderà Il Cairo per protesta (Il Manifesto). Tra Tel Aviv e Gerusalemme si rafforza il timore di attentati. Fiamma Nirenstein sul Giornale scrive in modo straordinario la normalità della paura dei kamikaze. Mentre Avraham Yehoshoua sulla Stampa s’interroga sul ruolo dei “rabbini smemorati” attaccati al territorio e agli insediamenti.
Il 2010 si aprirà con un'altra prova sul campo. Un evento che pone Roma al centro del mondo il 17 gennaio: la visita di Papa Benedetto XVI al Tempio Maggiore della Capitale. Il capo rabbino Riccardo Di Segni ribadisce che sarà “un evento fondamentale per il dialogo”, come titola il quotidiano della Cei (Avvenire). Il Museo ebraico ha preparato per l’occasione una mostra che ripercorre la storia tra la comunità più antica d’Europa e i Pontefici. Il Corriere della Sera, invece, chiede all’Italia di non dimenticare la Shoah raccontando la storia di Settimino Calò: il 16 ottobre ha perso moglie e dieci figli. E’ stato l’unico sopravvissuto dell’intera famiglia. A lui non è stata neppure intitolata una via. Forse, scrive il Corriere, è il caso di aggiungere il suo nome allo stradario.

Fabio Perugia

 
 
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Germania, caccia ai criminali nazisti                                                    
“Sono stati commessi degli errori”
Germania, 30 dic -
"La Germania del dopoguerra non ha fatto di tutto per trovare i nazisti, che si erano macchiati di gravi delitti, e portarli in tribunale", questa la dichiarazione rilasciata dal responsabile della commissione di inchiesta per i delitti nazisti di Ludwigsburg, che ha così ammesso come qualche errore sia stato fatto. “Dal 1945 al 1950 - ha spiegato Schrimm - gli alleati avevano condotto tutte le inchieste contro i nazisti in Germania. Più di 7 mila nazisti erano stati condannati, molti di loro erano stati poi rilasciati dagli americani e inglesi, perché la Germania era ormai diventato un partner economico e militare. Nel mondo occidentale si era diffusa una mentalità che voleva chiudere con il passato. E' anche vero che tra i poliziotti e giudici ci furono ex nazisti che gradivano questa linea", questa la sua opinione sul lavoro svolto per trovare e processare i criminali nazisti. Schrim è stato recentemente accusato da un giurista olandese, Christian F. Rueter, di aver avviato il processo contro Demjanjuk, “un pesce piccolo” secondo la sua opinione, solo "per festeggiare meglio" il cinquantesimo anniversario della commissione. Schrimm, nonostante “gli errori della commissione”, ne ha preso le difese, e ha replicato che non si tratta del primo processo contro una persona che ha commesso crimini eseguendo degli ordini. L'ucraino deve rispondere davanti al tribunale di Monaco in Baviera di concorso nell'eccidio di quasi 28 mila ebrei nel campo di concentramento di Sobibor.
 
 
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