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L'Unione informa |
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3 gennaio 2010 - 17 Tevet 5770 |
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alef/tav |
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Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino |
In
successione, tra la fine di Bereshit e l'inizio di Shemot, la
Torà ci presenta due modelli di leadership. Josef è il potere che
resta a palazzo e a cui il popolo sofferente si rivolge. Moshè esce da
palazzo, e infine lo abbandona, per comprendere e partecipare alla
sofferenza del popolo. Dio sembra prediligere il modello Moshé:
"Sarò con il popolo nelle prossime sofferenze come sono con lui
in questa schiavitù" è il senso del Suo Nome. |
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“Il
problema era che il Nuovo mondo li desiderava meno intensamente di
quanto loro non desiderassero il Nuovo mondo. (..) Esprimere
solidarietà alle vittime della persecuzione nazista era un discorso,
offrire loro asilo era un discorso totalmente diverso”. Con meno di 40
parole Theodore S.Hamerow conclude in forma lapidaria il suo libro
pubblicato nel 2008 da Norton con il titolo “Why we Watched. Europe,
America and the Holocaust”. Certo si può dire che quella del genocidio
ebraico è un’altra storia e che c’è differenza tra la disperazione che
porta molti a muoversi dai luoghi del proprio niente quotidiano nella
speranza di approdare altrove e a qualcosa e quella che nasce dalla
condizione di fuggire per non essere uccisi da un potere che ha
decretato la morte per chi rimane. Due cose sono tuttavia invariate,
ora, come allora, pur non sottovalutando le differenze: “il Nuovo mondo
li desidera meno intensamente di quanto loro desiderino il Nuovo
mondo”; quando finalmente le cause che muovono costoro a “desiderare il
Nuovo mondo” saranno rimosse, come allora, non ci saranno poi molti da
salvare. |
David
Bidussa,
storico sociale delle idee |
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davar |
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Attorno al letto del padre morente In memoria di Rav Sergio Sierra z.l.
Quando
nostro padre Jaakov-Israel si sentì in procinto di morire, tutti i
figli - i futuri capi delle tribù di Israel - finalmente in pace fra
loro, vennero assieme a trovarlo; quella pace che Jaakov aveva invano
cercato nella sua terra, nella terra di Canaan (vaJeshev Jaakov, Gen.
37:1 con il commento di Rashi), sembra essere stata ritrovata - tragica
sorte - proprio in terra d'esilio (fine della parashà di vajgash). Non
vi è chi, come Jaakov, si renda conto dei pericoli dell'assimilazione
offerti dalla allettante cultura della prima potenza del mondo
d'allora. Qui voi volete vivere, sembra dire il vecchio ai suoi figli,
e in particolare a Josef? Io non voglio stare qui neppure dopo morto:
"Non seppellirmi in Egitto" (Gen. 47:29); "per te sono sceso in Egitto
e non voglio che mi si renda un culto come ad un idolo" (Midrash
Bereshit Rabbà 96:5). Spera Jaakov che questo possa servire di lezione
allo stesso Josef, a tutti i suoi figli e nipoti: "Non è la Golà il
posto per noi né tantomeno per i nostri discendenti", ci insegna
Jaakov... (Cfr. Rambam, Hilchot Melachim,5:11). Nel capitolo 49 di
Bereshit (Genesi), versetto 2 leggiamo: "Adunatevi e ascoltate, figli
di Jaakov, ascoltate Israel vostro padre..." Cosa ha detto il
padre morente ai suoi figli? Il Testo ci riporta le benedizioni date da
Jaakov a ogni figlio-tribù; ma è interessante notare come questo
versetto sia stato interpretato dalla tradizione: da un lato abbiamo la
sensazione assai viva del timore di Jaakov per quello che la Golà
significa, dall'altro l'uso del verbo lishmoa,
ascoltare, ha permesso ai Maestri di cercare di spiegare esattamente
cosa si siano detti Padre e figli. Abbiamo una tradizione che nell'ora
in cui nostro Padre Jaakov riunì i suoi figli in Egitto nell'ora della
sua morte, comandò loro e li esortò all'Unità di D-o e alla via di D-o
che avevano percorso Avraham e Izchak suo padre, e li interrogò
chiedendo loro: "Figli miei, forse vi è in voi un difetto (nella vostra
fede in D-o e nella Sua unità), vi è chi non si sente con me nell'Unità
di D-o? Come ha detto a noi Moshé nostro Maestro. Se per caso ci fosse
in mezzo a voi un uomo o una donna...il cui sentimento si distoglie
oggi dal Signo-e D-o nostro..".(Devarim, 29, 17). Hanno risposto
tutti ed hanno detto: "Ascolta, Israel, il Signo-e è il nostro D-o, il
Signo-e è uno"! Cioe`: "Ascoltaci, nostro Padre Israel, il Signo-e è il
nostro D-o, il Signo-e è uno"! Riprese il vecchio e disse: "Baruch
shem kevod malchuto leolam vaed - Benedetto sia in eterno il
Nome del Suo glorioso regno. (Rambam, regole sulla lettura dello Shemà, 1: 4, basato su Midrash Bereshit Rabbà 98:3)..
Il
timore di Jaakov era reale e fondato soprattutto sul fatto che proprio
a suo nonno Avraham era capitato di avere un figlio come Ishmael e
proprio a suo padre Izchak di averne uno come Esav; ora lasciando
i suoi figli in Egitto Jaakov aveva il timore che anche nella sua
famiglia diretta si potesse dare il caso di qualche cedimento,
soprattutto per quanto riguardava il principio fondamentale dell'Unità
divina; siete veramente con me, la vostra fede è come la mia? Jaakov ci
vuole insegnare che non si può mai essere sicuri sul proprio futuro,
che la cosa non può essere lasciata al caso, che è necessaria, sempre
ed ovunque, un'opera educativa, sia pure ancora in punto di morte. La
risposta data dai figli, dai capi delle tribù, è finalmente una
risposta rassicurante: nessun dubbio sulla fede in D-o e la fede nella
Sua unità; tale fede viene espressa con il primo versetto dello Shemà
che assume però, in questo frangente, un significato tutto speciale:
"Shemà Israel - cioè ascolta o Israel nostro padre, dicono tutti i
figli - Hashem Elokenu, Hashem Echad, Hashem è il nostro D-o, Hashem è
uno". Questa è la risposta che si aspettava Jaakov dai suoi
figli, una risposta chiara e sicura, senza l'aggiunta di qualche ma o
se. Confortato da tale risposta Jaakov può finalmente prepararsi
serenamente a riunirsi ai suoi padri, non senza aver pronunciato un
ringraziamento speciale ad Hashem: "Baruch Shem kevod machuto leolam
vaed - Benedetto sia in eterno il Nome del Suo glorioso regno". Questa
frase non la troviamo nel brano dello Shemà come è scritto nella Torà,
ma in memoria dell'insegnamento del nonno Jaakov-Israel la diciamo, sia
pure sottovoce, ogni volta che leggiamo lo Shemà, mattina e sera;
soltanto Kippur pubblico e Chazan recitano questo verso a viva voce. L'insegnamento
è grandioso e fondamentale: beato il padre che può lasciare questo
mondo con la certezza che i suoi figli seguiranno in pieno la strada
della Torà; di più non possiamo chiedere, se non associarci al
ringraziamento a D-o che ci ha dato questo conforto. Benedetto
sia in eterno il Nome del Suo glorioso regno.
Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme
Sorgente di vita: speciale Berlino ebraica
Come
è cambiata la Comunità ebraica di Berlino venti anni dopo la caduta del
muro? Un viaggio nella capitale tedesca nel reportage “Luci a Berlino”
di Alessandra Di Marco e Piera Di Segni. Un invito a
colazione in una famiglia ortodossa, la preghiera nella nuova sinagoga
del movimento Chabad, l’accensione della lampada di Hanukkah, la
festa delle luci, su una pista di pattinaggio: momenti di vita
di una comunità rifiorita con l’arrivo di immigrati dai
paesi dell’est e dall’ex Unione Sovietica, alla ricerca di una nuova
identità ebraica. I cambiamenti, le novità e le trasformazioni
della capitale dopo la riunificazione della Germania, ma anche un
percorso tra cultura, storia e memoria, che tocca la grande sinagoga di
Oranienburger Strasse, il Memoriale per gli ebrei d’Europa assassinati,
il Museo ebraico di Daniel Libeskind e le tracce del Muro: luoghi
significativi che testimoniano lo scambio fecondo tra la città e la
Comunità ebraica, alla ricerca di una memoria condivisa. Un
racconto corale con tante voci: il direttore dell’Istituto di
Giudaistica alla Freie Universitaet, Giulio Busi, il rabbino Andreas
Nachama, l’architetto Sergei Tchoban e molti altri racconti di vita
quotidiana insieme alla storia di Irmela Mensah-Schramm che
gira la Germania per cancellare le nuove scritte razziste e antisemite. La puntata di Sorgente di vita va in onda domenica 3 gennaio 2010 alle ore 1,20 su Raidue. Sarà replicata lunedì 4 gennaio alla stessa ora e lunedì 11 gennaio alle ore 9,30 del mattino. I servizi di Sorgente di vita sono anche online. |
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Rotschild Boulevard - Il 2010 comincia bene... ma Israele ha davvero bisogno di tutti questi campi da golf?
Va
bene che il 2009 è stato un anno record per gli attentati (nel senso
che ce ne sono stati pochi, ci informa lo Shin Bet, il che per Israele
è un record). Va bene che anche il lancio di razzi sul Sud del Paese è
diminuito del novanta per cento rispetto allo scorso anno (di questo ci
informa Tsahal) e va bene anche che la ripresa economica si comincia a
intravedere anche in Israele (i dati danno le esportazioni in aumento).
Abbiamo capito, i numeri sono dalla nostra parte e dobbiamo essere
tutti ottimisti per il 2010. Ma a tutto c'è un limite. E,
onestamente, l'ultima decisione del governo israeliano più che basata
sull'ottimismo mi sembra un tantino azzardata. Di che cosa stiamo
parlando? Il ministero del Turismo e l'Autorità per l'amministrazione
del territorio hanno stanziato la bellezza di 760 milioni di shekel per
costruire 16 campi da golf nei prossimi 15 anni. L'obiettivo?
Promuovere il turismo golfistico in Israele. Domanda: siamo sicuri che,
con tutte le cose interessanti che ci sono da fare da Rosh Pinà fino ad
Eilat, ci siano così tanti turisti che muoiono dalla voglia di mettersi
a giocare a golf? E siamo sicuri che Gerusalemme si possa permettere
questa spesa? Ora, Israele è un Paese davvero meraviglioso. Ma ha
alcune lacune con cui, piaccia o no, bisogna fare i conti. Nello
specifico, mancano due cose: l'acqua e lo spazio. Che, guarda caso,
sono anche le due cose che più servono per costruire dei campi dal
golf. Per carità, io sono di parte perché questo sport non l'ho mai
praticato, né mi interessa molto. Ma mi piace pensare che il 2010 sarà
un buon anno per Israele anche senza campi da golf.
Anna Momigliano |
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La Sinagoga di Papa Ratzinger
Sulle
spalle degli ebrei romani incombe una grande responsabilità: accogliere
Papa Benedetto XVI con calore e diplomazia quando verrà alla Sinagoga
il prossimo 17 gennaio, dopo la firma di un documento che, proclamando
le eroiche virtù di Pio XII, lo spinge sulla via della beatificazione.
E’ impensabile che nelle stanze vaticane non abbiano messo sulla
bilancia la prevedibile costernazione dell'ebraismo romano, né il
tempismo della proclamazione, che avrebbe messo in seria difficoltà gli
ebrei romani ad un mese dalla visita di Benedetto XVI al Tempio
maggiore di Roma. Però era anche prevedibile che l'invito a Benedetto
XVI non sarebbe stato cancellato. Sarebbe prevalso, si sapeva, il
dovere di ospitalità verso la persona del Papa, ma anche il dovere di
curare i preziosi rapporti ebraico-cristiani così faticosamente
costruiti dal Concilio in poi. Per il bene comune bisognava superare lo
sconcerto per questa mossa a sorpresa, percepita come una mancanza di
considerazione verso le ripetute richieste dal mondo ebraico di
sospendere la causa di beatificazione di Pio XII, fino all'apertura
degli archivi del suo papato che permetterebbe uno studio indipendente
sul suo operato nel contesto storico dell'epoca. Sull'altro
piatto della bilancia della decisione vaticana c'era il cammino
intrapreso da Papa Ratzinger, pieno di ostacoli e trappole, verso il
recupero dell'ala destra tradizionalista della Chiesa, e non solo
lefebvriana. Tra loro c'è anche chi chiede perché gli ebrei
interferiscano negli affari interni della Chiesa, dato che non credono
nemmeno ai santi. Vero, gli ebrei non hanno santi, ma hanno i giusti,
le persone che hanno rischiato la propria vita per salvarne un'altra. A
Yad Vashem a Gerusalemme file e file di alberi onorano la memoria dei
giusti della Seconda Guerra Mondiale, i tanti non ebrei che hanno
osato, con coraggio estremo, mettere in gioco la propria vita per
salvare quella altrui. Per la maggioranza degli ebrei - e anche
molti cattolici - Pio XII non era un giusto. Era il capo spirituale e
morale del cattolicesimo mondiale oppresso da responsabilità
travolgenti nell'epoca più buia del Novecento. Non aveva le “divisioni”
da comandare (come notava Stalin), ma la sua voce poteva influenzare i
destini di milioni di esseri umani. Scelse la via della prudenza (una
delle eroiche virtù della teologia cattolica). Per gli ebrei italiani,
una data cardine per un giudizio su Pio XII rimane quella del 16
ottobre 1943, giorno della razzia nazista al ghetto che portò ad
Auschwitz 1021 persone, di cui solo 17 tornarono vive. Dal Vaticano,
quel giorno, si sentì solo il silenzio. Fu una scelta ponderata,
saggia, giusta? Forse una risposta definitiva non ci sarà mai. Le
trattative ci furono, ma non furono seguite da un grido di protesta
quando i nazisti tradirono la fiducia posta nella diplomazia da parte
del Vaticano. Secondo i documenti disponibili i fatti andarono così:
subito dopo i rastrellamenti, il Segretario di Stato Vaticano,
Cardinale Luigi Maglioni convocò l'ambasciatore tedesco Ernst von
Weizsaecker. Dalle note del Cardinale si legge che “pregò
l'ambasciatore di salvare tutti questi innocenti. E’ doloroso per il
Santo Padre, doloroso oltre ogni dire, che proprio a Roma, sotto gli
occhi del Padre Comune, siano fatte soffrire tante persone unicamente
perché appartengono ad una stirpe determinata”. Weizsaecker gli chiese:
“Che farebbe la Santa Sede se le cose avessero a continuare?” .
Risposta: “La Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di
dire la sua parola di disapprovazione”. Prima della partenza per
Auschwitz i 1021 ebrei romani rimasero imprigionati a Roma altri due
giorni senza che una voce di allarme uscisse dal Vaticano. In una
lettera successiva ai fatti l'ambasciatore Weizsaecker scrisse:
“Nonostante le pressioni esercitate su di lui da diverse parti, il Papa
non si è lasciato indurre a nessuna dichiarazione di protesta contro la
deportazione degli ebrei di Roma”. Dopo questa tragedia,
migliaia di ebrei trovarono rifugio fra le strutture della Chiesa e
perfino dentro il Vaticano. Un comunicato del 19 dicembre scorso degli
ebrei italiani ne dà atto ribadendo che il mondo ebraico “continua ad
essere riconoscente ai singoli e alle istituzioni della Chiesa che si
adoperarono per salvare gli ebrei perseguitati”. Ma quest'opera
umanitaria e coraggiosa, sicuramente voluta da Pio XII, non può , per
gli ebrei, sostituirsi ad un giudizio complessivo sul suo operato
storico. Torniamo dunque alla domanda: perché gli ebrei si
intromettono nel dibattito su Pio XII? Innanzitutto Papa Pacelli era
una figura pubblica, un attore importante nel dramma della Seconda
Guerra Mondiale: la sua memoria appartiene alla storia. Poi i santi
“sono modelli di vita cristiana” dell'educazione cattolica con
ripercussioni sulla convivenza interreligiosa. Nel caso di Pio XII, una
beatificazione senza ulteriori approfondimenti storici potrebbe avere
riflessi negativi verso chi si permette di criticare il suo operato in
futuro. Pesano anche incomprensioni teologiche. I confini tra
scelte di vita e di fede per gli ebrei sono inesistenti: le virtù umane
vengono giudicate dall'agire. Le “eroiche virtù” del cattolicesimo,
invece, sono prettamente quelle religiose: “fede, speranza e carità;
prudenza, giustizia, fortezza e temperanza”. Un candidato per la
beatificazione che abbia manifestato queste “virtù in grado superiore”,
dice il padre Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, “può essere
proposto come modello di vita cristiana… la continua ricerca della
perfezione evangelica e non la valutazione della portata storica di
tutte le sue scelte operative”. Sia il rabbino David Rosen,
direttore per gli affari interreligiosi dell'American Jewish Committee
e Consigliere per il Gran Rabbinato di Israele, sia il rabbino capo di
Roma, Riccardo Di Segni, sottolineano l'esigenza dialogica per una
sensibilità, e un ascolto reciproco che oggi si traduce nella richiesta
di rimandare il processo di beatificazione fino a quando gli storici
indipendenti non avranno potuto fare una ricerca più completa negli
archivi ancora indisponibili. Gli ebrei chiedono al Vaticano
solo che la verità sui fatti storici che li riguardano non sia
riscritta in modo da gettare le basi per l'oblio.
Lisa Billing, il Fatto quotidiano, 2 gennaio 2010 |
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notizieflash |
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La Federcalcio iraniana invia gli auguri di buon anno, fra i destinatari la lega calcistica israeliana, era solo un errore Roma, 2 gen - Un
augurio di buon anno partito per errore. Il mittente la Federazione
calcio iraniana (Ffi), il destinatario la Lega calcistica israeliana.
L’alto funzionario Mohammad-Manour Azimzadeh, responsabile per le
relazioni internazionali della Ffi, dopo aver chiarito che si era
trattato di uno sbaglio, è stato costretto a dimettersi. In un
comunicato, citato dall’agenzia iraniana Fars, la Ffi ha fatto sapere
che messaggi di auguri vengono inviati ogni anno a tutti i membri della
Fifa "ad eccezione della federazione di calcio del regime sionista",
che per questo motivo era stata eliminata dalla lista di indirizzi per
gli auguri. Lo stesso comunicato attribuisce la colpa a un dipendente
della federazione, israeliano ma di origini iraniane, che ha inoltrato
comunque un messaggio alla federazione israeliana. Per questo
“terribile” errore Azimzadeh ha presentato le sue dimissioni. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. |
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