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    4 gennaio 2010 - 18 Tevet 5770  
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Il libro di Bereshit che abbiamo appena finito di leggere parla continuamente di benedizioni e le ultime pagine ne sono piene. Le benedizioni, richieste e date, sono una prassi comune della vita religiosa ebraica. Si usa tra l'altro recarsi da persone autorevoli, anziani, pii e Maestri per farsi benedire. La regola vorrebbe, con maggiore precisione, che ci si rechi prima dal Maestro del proprio luogo. Perché proprio da lui? Perché ti conosce meglio. In ogni caso tutto questo non deve diventare una pratica automatica o peggio ancora superstiziosa, la prima garanzia per una richiesta di benedizione è che parta dal cuore di una persona e che sia fatta con onestà di intenti e di comportamento. Un altro problema è come identificare la persona giusta del proprio luogo che possa esercitare questo ruolo. Rav Sherlot ha indicato tre criteri orientativi: le buone qualità di una persona sono di solito evidenti, deve essere uno studioso di Torà che non abbia smesso di studiare e deve essere una persona che per questa "prestazione" non richieda alcun compenso...
Un collezionista di cimeli del Terzo Reich come mandante, neonazisti come manodopera, legami con gruppi xenofobi svedesi, questo è il quadro, pare, del furto della scritta del cancello di Auschwitz. Brutti ambienti, brutta gente. Già non ho mai capito i collezionisti, mi sembra che nel desiderio spasmodico, loro tipico, di possedere oggetti vi sia un qualcosa di maniacale. Ma l'idea che la scritta di Auschwitz fosse destinata a diventare il clou della collezione di orrori di un ricco filonazista, che ci siano collezionisti del dolore del mondo, del nostro dolore, mi sembra una profanazione non minore di quella che se il furto fosse stato soltanto un gesto di spregio, di negazione della Shoah, di irrisione al simbolo del più famoso dei campi della morte. Se qualcuno è in grado di decorare con quella scritta l'ingresso alla sua collezione, allora davvero l'orrore non ha mai fine e il nazismo non è morto. Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Sigmund e Anton, la fuga del padre della psicanalisi

Copertina“Improvvisamente è arrivata l'invasione tedesca. Nella certezza che ora sarei stato perseguitato non solo per il mio modo di pensare ma anche per la mia 'razza', ho abbandonato insieme a molti amici la città che fin dall'infanzia, per settantotto anni, era stata la mia patria. Ho trovato la più amichevole accoglienza nella bella, libera, magnanima Inghilterra”. Londra, giugno 1938: è l'anziano Sigmund Freud a scrivere queste parole, quasi un sospiro di sollievo, curiosamente proprio nella prefazione di Mosè, il suo popolo e la religione monoteistica, un saggio sull'ebraismo, “razza” l'appartenenza alla quale fu ciò che lo costrinse alla fuga.
Ma cosa rese possibile, già avvenuto l'Anschluss, l'abbandono da parte di Freud dell'amata Vienna? Il libro The escape of Sigmund Freud, pubblicato in questi giorni a Londra, svela i clamorosi retroscena della vicenda: è stato un commissario nazista a salvare la vita alla famiglia Freud.
L'autore di quest'avvincente ricostruzione degli ultimi anni di vita del fondatore della psicanalisi è David Cohen, psicologo londinese, rinomato studioso di Freud.
Ad Anton Sauerwald, ufficiale di fiducia delle alte gerarchie naziste, era stato affidato il compito di liquidare la Società psicanalitica e sequestrare i beni di Freud. Si trattava di una missione importante: sia Goebbels che Himmler tenevano molto all'estirpazione di quella “nuova scienza giudaica”. Sauerwald, per altro medico, collega del suo sorvegliato speciale, si avvicinò all'opera del padre della psicanalisi e ne rimase profondamente colpito. Al punto che arrivò a tradire la causa nazionalsocialista, rischiando la pelle in prima persona, per salvare gli scritti freudiani nascondendoli nei sotterranei della Biblioteca nazionale austriaca, il loro autore, la sua famiglia, predisponendone la fuga in treno, e perfino i suoi conti all'estero. Il libro traccia la storia di un vero e proprio innamoramento intellettuale, di un medico nazista che, conquistato dalle teorie della psicanalisi, s'imbarca in un rischiosissimo doppio gioco. Durante la guerra, a prova della sua devozione, fece addirittura visita al maestro, vecchio e malato nella “magnanima Inghilterra”.
Fato volle che, sconfitta la Germania, Sauerwald fosse arrestato da un ufficiale americano che di cognome faceva Freud: Harry Freud, nipote del celebre. A salvarlo, nel successivo processo, fu soltanto la testimonianza di Anna Freud, la figlia, cugina dell'ufficiale Harry, fuggita proprio grazie all'intercessione dell'ammiratore di suo padre.

Manuel Disegni 
 
 
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  Donatella Di CesarePio XII e il dovere di vigilare

La parola “vigilanza” è diventata una delle parole-chiave della filosofia degli ultimi decenni. E per molti filosofi ha costituito un’alternativa alla “coscienza” che ha dominato la scena filosofica dei secoli scorsi. Qual è la differenza? La coscienza è sempre, anzitutto coscienza del soggetto singolo. La vigilanza accomuna e, a sua volta, è quel che contraddistingue una comunità. Essere vigili vuol dire essere partecipi, prendere parte a quello che Hannah Arendt chiama lo “spazio pubblico”. Nel mondo globalizzato gli eventi che si susseguono, anche nei luoghi geograficamente più lontani del pianeta, investono tutti (ovviamente in misura e modalità diverse). E la discussione che avviene nello spazio pubblico, anche quello dei nuovi media, è una forma indispensabile della partecipazione democratica. Ogni tentativo di ridurre lo “spazio pubblico” è, e deve essere, sempre sospetto.
 Il “caso” di Papa Pacelli non può essere confinato a una questione dottrinaria, privata e interna alla chiesa. Il processo di beatificazione riguarderà sotto il profilo teologico la chiesa; ma l’evento ha una dimensione storica, politica, etica, e come tale rientra nello spazio pubblico. Riguarda tutti: i cattolici, i non credenti, gli atei, gli italiani, i francesi, i tedeschi, gli israeliani e così via. E in particolare riguarda gli ebrei italiani; perché ne va del nostro recente passato, della ricostruzione di questo passato che attraverso la memoria deve essere non solo ricordato, ma anche “riparato”; ne va dunque dell’identità futura.
Proprio perciò il “caso” Pacelli, non solo non può essere confinato a una questione dottrinaria, ma non può neppure essere ridotto ad un semplice “dibattito storiografico”. Come se non bastasse quel che è accaduto e fosse necessario attendere il parere degli esperti che dovranno appurare una verità oggettiva. Certo il loro parere sarà importante, per gli strumenti e le competenze che hanno. Ma il rischio di lasciare la parola ultima all’esperto è quello di deresponsabilizzare i più. Al contrario, tutti sono responsabili; tutti hanno il diritto e il dovere di rispondere in modo consapevole e razionale, di impegnarsi nello spazio della discussione pubblica. Tutti devono essere vigili.

Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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Quasi tutte le (poche) notizie oggi in rassegna riguardano la società e la politica britannica. E' un neonazista inglese molto ricco il mandante del furto dell'insegna di Auschwitz: lui ha fatto girare in ambienti neonazisti la notizia di essere disposto a pagare moltissimo per la scritta; l'appello è stato raccolto dal gruppo terrorista svedese di estrema destra che ha incaricato dell'azione i delinquenti comuni polacchi che sono stati catturati. (La Repubblica, La Stampa, l'Unità) Come si vede si sbagliava chi con un respiro di sollievo o con disgusto, aveva attribuito l'azione a una "normale" faccenda di collezionismo incurante dei limiti della legge e della proprietà, come i nostri tombaroli. La materia è politica e solo strumentalmente economica.
Altra notizia: Carlo d'Inghilterra, oltre che aspirante architetto e cultore di agricoltura biologica, è anche un militante pacifista. In quanto tale aveva cercato in tutti i modi, contro il costume costituzionale inglese, di fermare la partecipazione britannica guerra in Iraq, disgustato dall'amministrazione Bush e convinto che i problemi del mondo islamico vadano risolti "sanando le tensioni fra Israele e Palestina" (possiamo immaginare come). Che il cielo conceda lunga vita a Elisabetta (Il Mattino). Nel frattempo anche gli inglesi, come gli americani, hanno chiuso la loro ambasciata in Yemen (Il Mattino), dove a una guerriglia sciita finanziata dall'Iran si aggiungono minacce di grandi attentati di Al Queida. Se si considera che lo Yemen, terra d'origine della famiglia Bin Laden, si trova, al di là del golfo di Aden, proprio di fronte alla Somalia devastata dalle bande islamiche e rifugio dei pirati altrettanto islamici che rendono difficile la navigazione nell'Oceano indiano, ecco un altro focolaio di crisi fra Islam e resto del mondo, in cui Israele, distante 3 mila chilometri non c'entra niente: come la Cecenia, la Bosnia o il Kashmir.
Infine è degna di attenzione la notizia del Corriere per cui l'University College di Londra, una delle università britanniche di eccellenza è sotto inchiesta da parte dei servizi segreti britannici per essere un centro di reclutamento di Al Queida. Naturalmente non possiamo sapere se è vero, ma certamente è "lì che Umar Farouk Abdulmutallab [il fallito attentatore del volo per Chicago con l'esplosivo nelle mutande], 23 anni, si è laureato in ingegneria meccanica nel 2008 ed è lì che, da ragazzo «studioso, normale e simpatico», potrebbe essersi trasformato in pericoloso fondamentalista. Per Michael Grant, rettore di Ud, si tratta di «illazioni spettacolari senza fondamenta». «Non ci sono prove» ha scritto sul sito web del Times Higher Education Supplement, «che Abdulmutallab abbia imboccato la strada del terrorismo a Ucb». L'inchiesta che ha organizzato è per togliere ogni dubbio e accertare che Abdulmutallab non sia rimasto vittima durante gli anni della laurea di «una più larga corrente maligna e che lui stesso non abbia avuto un'influenza negativa su altri studenti»". Resta il fatto che le università britanniche sono da anni il centro del boicottaggio accademico antisraeliano, che gli studenti dell'UC solo qualche settimana fa hanno fatto notizia chiudendo un gemellaggio con l'università islamica organizzata da Hamas a Gaza. E che "secondo Anthony Glees, professore della Buckingham University, l'arrivo negli atenei britannici di fondi provenienti da paesi musulmani potrebbe essere parte del problema. Stando alle sue ricerche, negli ultimi 10  anni le università britanniche hanno ricevuto 157 milioni di sterline per la costruzione di centri islamici e per l'insegnamento dell'Islam. Fondi che, sostiene, non sempre vengono utilizzati con le migliori intenzioni".

Ugo Volli

 
 
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Israele, Beer Sheva, attimi di paura ma ora l'allarme è rientrato  
Tel Aviv, 3 gen -
Allarme rientrato. “Nessun ordigno - ha detto un ufficiale della polizia alla radio militare - è stato trovato nelle borse dei tre palestinesi fermati nella strade del centro di Beer Sheva (Neghev)”. La stazione centrale degli autobus e la vicina stazione ferroviaria, che erano state sgombrate per motivi cautelativi, hanno ripreso a funzionare regolarmente. L'imminenza di un attentato terroristico a Beer Sheva era stata lanciata, nella tarda mattinata dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano. Fortunatamente si è trattato di un falso allarme.
 
 
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