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    25 gennaio 2010 - 10 Shevat 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
A proposito di discussioni tra rabbini. Il Talmud (BM 84a) racconta la storia di Resh Laqish, un grande maestro, che in gioventù aveva fatto il gladiatore e il soldato mercenario. Rabbì Yochannan ne scoprì il talento, lo convinse a cambiare vita, lo fece studiare e gli fece sposare la sorella. A un certo punto i rapporti tra i due si guastarono con una crisi che portò alla morte precoce di Resh Laqish. Rabbì Yochannan non si rassegno alla perdita dell'allievo - collega; provarono a consolarlo affiancandogli un maestro brillante, che molto dottamente ogni volta che Rabbì Yochannan insegnava qualcosa diceva: "effettivamente c'è un antico insegnamento che conferma la tua tesi". Fu peggio. Perché Resh Laqish, quando studiava con Rabbì Yochannan, a ogni sua affermazione era capace di fargli 24 obiezioni. Rabbì Yochannan sapeva di essere dalla parte della ragione, ma aveva bisogno del dissenso per allargare il suo insegnamento. Con gli yes-men la Torà avvilisce, con il dissenso si arricchisce.
Ricordate le pagine iniziali di La tregua, in cui Primo Levi descrive la liberazione di Auschwitz il 27 gennaio di sessantacinque anni fa? Ricordate quei soldatini dell'Armata Rossa a cavallo che entrano nel campo, attoniti, condividendo il senso di vergogna e di ritegno dei prigionieri, il loro imbarazzo? Ebbene, mi sono domandata che cosa ne è stato di quei soldati, allora giovanissimi, dal viso puerile sotto i caschi di pelo. Come hanno vissuto? Ed è stato loro consentito di vivere, o sono stati anche loro mandati nel gulag, come i soldati dell'Armata Rossa che erano stati prigionieri dei campi, i sopravvissuti, considerati sospetti perché venuti in contatto col nemico? E loro, imbattutisi quasi per caso nell'inferno sulla terra, cosa ne è stato di loro? Sono stati considerati testimoni troppo ingombranti? Ci si è semplicemente dimenticati di loro? La loro memoria è rimasta affidata a quella pagina straordinaria di Primo Levi, nessun altro li ha mai menzionati.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Qui Livorno - Il nuovo Sefer in onore di un Giusto fra le nazioni

LivornoDa ieri la Comunità ebraica di Livorno ha un nuovo Sefer Torà, dedicato alla memoria dei suoi deportati e probabilmente il primo in assoluto ad essere mai stato scritto in onore di un Giusto tra le nazioni, il volterrano (ma livornese di adozione) Mario Canessa. Poliziotto di stanza a Tirano (Sondrio) negli anni del secondo conflitto mondiale, portò in salvo centinaia di persone oltreconfine, nella neutrale Svizzera. Tra di loro c’erano tantissimi ebrei, oltre a vari prigionieri politici e ricercati dalla polizia della Repubblica di Salò.
Presente alla cerimonia in sinagoga, Canessa non ha nascosto l’emozione. A rendere omaggio a lui e al sacro libro, c’erano le principali autorità cittadine e alcuni rabbanim.

LivornoNaturalmente Yair Didi, rabbino di Livorno, ma anche Giuseppe Laras, presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana, Joseph Levi, rabbino capo di Firenze, e alcuni Maestri venuti appositamente da Israele. Rav Laras, figlio della Shoah, ha spiegato che “i Giusti tra le nazioni ci riconciliano con un passato di morte, nel quale scelsero la strada opposta a quella dei delatori, che per 5000 lire vendevano gli ebrei ai nazisti”. Ma la giornata di ieri è stata soprattutto una giornata di festa perché, come ha ricordato il presidente della comunità ebraica livornese Samuel Zarrugh, “la Torà è un canto melodioso”. Così, cuciti i rotoli e completate le ultime lettere, il Sefer è stato portato in giro per le strade di Livorno, accompagnato dai canti più belli della tradizione musicale ebraica.

Adam Smulevich


LivornoTra le tante foto scattate nel Tempio Ebraico di Livorno (a pochi giorni dal Giorno della Memoria) gremito di autorità civili, militari, religiose e pubblico, per l'ingresso del nuovo Sefer Torà (il Rotolo in pergamena che contiene il Pentateuco) dedicato ai deportati livornesi ed in onore del Giusto tra le Nazioni Mario Canessa, si troverà numerose volte una significativa inquadratura nella quale, intorno al nuovo Sefer e tra gli oratori intervenuti, si distingueranno il rabbino Giuseppe Laras, presidente dell'Assemblea rabbinica italiana, Isacco Bayona, ormai l'unico in vita dei deportati livornesi, e il Giusto tra le nazioni Mario Canessa. Come ha efficacemente sintetizzato proprio il rabbino Laras nel suo intervento, i Giusti che pertanto non accettarono le aberrazioni del nazifascismo "riconciliano", per quanto possibile,il mondo ebraico con quella società che pervicacemente e scientemente perseguitò anche nel nostro paese gli ebrei. Rav Laras ha patito direttamente, come ha ricordato non certo facilmente, nei propri affetti familiari quelle persecuzioni così come Isacco Bayona ne è ancora diretto testimone. Dinanzi al nuovo Sefer Torà, simbolo di vita e di continuità dell'ebraismo, si è costituito quindi un significativo collegamento tra chi subì e chi cercò di riscattare una società che non può avere scusanti e nemmeno attenuanti. La gioia e la festa per l'arrivo del nuovo Sefer in parallelo con il ricordo di quanto è stato e che non potrà essere dimenticato o ridimensionato, appunto un ponte tra due dimensioni che non contrastano affatto.

Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane


Memoria - Rinascita ebraica in Polonia e ricordo di Marek Edelman

GuberUn grande segnale di speranza arriva dalla Polonia, dove per lungo tempo si è creduto che le persecuzioni nazi-fasciste, con lo sterminio di tre milioni di ebrei, avessero scritto per sempre la parola fine alla millenaria storia ebraica del paese.
A raccontarci questo piccolo, grande miracolo è Konstanty Gebert illustre giornalista e attivista ebreo polacco, uno dei più importanti reporter di guerra del paese, a Milano per partecipare al convegno “Fiaccole di luce: uomini giusti in tempi oscuri” organizzato dal Giardino dei Giusti del capoluogo lombardo, in occasione del Giorno della Memoria. Quest’anno si è scelto di dedicare un albero a Marek Edelman, uno dei comandanti dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia, recentemente scomparso. Insieme a lui sono state celebrate le figure di Vassilij Grossman, scrittore russo duramente perseguitato dal regime comunista, e Guelfo Zamboni, console italiano a Salonicco nel 1943 che salvò centinaia di ebrei dalla deportazione.
(Nell'immagine Konstanty Gebert mentre legge Pagine Ebraiche e a fianco a lui il figlio adottivo di Vassily Grossman).
Dottor Gebert, è appena uscito in inglese il suo libro Polish Aleph-Bet: Jews in Poland and Their Reborn in the World (Aleph-Bet polacco: ebrei in Polonia e la loro rinascita nel mondo). Ci racconta qualcosa di questa nuova vita ebraica, che sembrava cancellata per sempre?
All’inizio degli anni Ottanta, quando una studiosa mi chiese la mia opinione sul futuro dell’ebraismo in Polonia le risposi che noi pochi rimasti saremmo stati gli ultimi. Io sono nato nel 1953 e nel mio tempio ero il più giovane, mancavano le due generazioni precedenti. La Polonia non ha subito solo il nazismo, dopo la guerra si è instaurato il regime comunista, che ha reso quasi impossibile una vita ebraica. Così come ero certo che non sarei vissuto abbastanza a lungo per vedere il mio paese libero e democratico, pensavo che l’ebraismo in Polonia si sarebbe spento definitivamente con la scomparsa dei pochi anziani rimasti. Ora posso dire che sono ben felice di essermi sbagliato su entrambi i fronti.
Com’è stata possibile questa rinascita?
Dopo il crollo del regime, pian piano molte persone che i genitori avevano cresciuto nell’assimilazione per la paura di nuove persecuzioni hanno voluto riscoprire il loro ebraismo, trasmetterlo ai figli, riappropriarsi della propria identità. Oggi nel mio tempio scorrazzano tanti bambini e abbiano una scuola ebraica con duecento allievi. Quando inizi a parlare di bambini, scuola e educazione, significa che un futuro, per la comunità ebraica polacca, esiste eccome, sia pure con qualche problema.
Problemi? Fa riferimento all’antisemitismo?
L’antisemitismo in Polonia purtroppo esiste ed è sicuramente più visibile che in altri paesi in Europa. Ci tengo però a specificare che ci sono anche molti strati della popolazione polacca che provano simpatia e interesse per l’ebraismo, e che io non ho nessun timore a girare con la kippah in testa, a differenza di quanto accade, per esempio, a Parigi. No, il nostro principale problema non è l’antisemitismo, è la demografia. La nostra è una comunità piccola, in tutto il paese vivono solamente settemila ebrei. La grande sfida è quella di fare in modo che i giovani non si allontanino dall’ebraismo e nascano nuove famiglie che possano proseguire il nostro cammino.
Lei era molto amico di Marek Edelman. Ci regala un suo ricordo speciale per raccontare chi era questo straordinario personaggio?
Nell’estate del 1993 dopo aver organizzato diversi convogli per Sarajevo (all’epoca assediata dall’esercito serbo ndr) per portare cibo, medicinali e aiuti materiali, decidemmo che sarebbe stato utile un viaggio cui partecipassero autorità e personalità politiche. Marek aveva più di settant’anni, il tragitto era lungo e scomodo, la visita pericolosa, ma non ci fu verso di convincerlo a rimanere a casa. Durante la notte ci fermammo in Austria. Tutti noi dormimmo per terra, e così volle fare anche lui, nonostante la nostra insistenza perché prendesse una stanza d’albergo, un letto. “I soldi per questa spedizione ce li ha dati la gente, non possiamo sprecarli per queste frivolezze” disse. In quel momento ho capito il motivo per cui Marek non faceva la morale. Lui viveva nella morale. Era la sua sfida. Riteneva che il male esiste dentro l’uomo e sarebbe ipocrita non riconoscerlo, ma ciascuno deve contrastarlo. Non vedeva differenze tra il combattere nel Ghetto di Varsavia e la sua attività di medico. Nella sua prospettiva si trattava sempre di salvare delle vite. Rifiutava la mitizzazione sua e dei suoi amici, e l’ho visto più volte insultare e cacciare in malo modo chi era venuto a omaggiarlo come un eroe. Gli piaceva arrabbiarsi, a Marek. Pensava che la guerra in certi casi fosse necessaria, eppure raramente ho visto tra due uomini una sintonia perfetta come quella tra lui e il Dalai Lama, l’uomo della non-violenza, quando si incontrarono. La stessa lunghezza d’onda. Marek non aveva ambiguità e ipocrisie. Forse è anche per questo che sbagliava tanto, perché di sbagli ne ha commessi. Ma penso che se anche avesse passato metà della vita a dire sciocchezze, con tutto quello che ha fatto nell’altra metà questo non avrebbe scalfito in alcun modo la sua grandezza.

Rossella Tercatin



Qui Torino - Bruno Schulz e la Memoria

SchulzContinua il filone di Bruno Schulz, vetta indiscussa della letteratura europea del secolo scorso, cui sono dedicate le principali iniziative patrocinate dalla Comunità Ebraica di Torino per il Giorno della Memoria 2010, frutto di un'intensa collaborazione con la Comunità polacca. Nei giorni scorsi si è tenuta, nei locali della Comunità, una prestigiosa lectio magistralis incentrata su questa figura.
Bruno Schulz, insegnante ginnasiale, pittore, scrittore ebreo polacco, nacque nel 1892 nella città di Drohobycz, in Galizia, una regione allora entro i confini dell'impero austro-ungarico e oggi dell'Ucraina. Fu ucciso in circostanze misteriose dalla pistola di un gerarca nazista, nel ghetto della sua città natale. Correva l'anno 1942. Della sua opera artistica non rimangono che due raccolte di racconti,  Le botteghe color cannella (1932) e Il Sanatorio all'insegna della Clessidra (1937), qualche decina di saggi, articoli, recensioni, nonché molti disegni e schizzi. Queste pur poche pagine sono sufficienti a rivelare la grandezza della sua penna. Il suo romanzo Messia invece andò perduto durante la guerra. Nessuno ne conosce la trama.
In settimana è avvenuta l'inaugurazione della mostra dei suoi disegni, L'epoca geniale di Bruno Schulz, visitabile fino al 7 febbraio presso il Teatro Ragazzi, realizzata dalla Comunità Ebraica insieme al Consolato polacco, Onda Teatro e alla Fondazione Teatro Ragazzi. Al termine di un corso di formazione incentrato sulla figura di Schulz, tenuto da Krystyna Jaworska e Sarah Kaminski (Università di Torino), Guido Massino (Università del Piemonte orientale) e Anna Salmon Vivanti, la traduttrice in Italia di Bruno Schulz, è avvenuta l'inaugurazione della mostra. Bobo Nigrone e Francesca Rizzotti della compagnia Onda Teatro hanno interpretato di fronte ad un folto pubblico alcuni estratti dei racconti di Schulz. In sala, al Teatro Ragazzi, erano presenti autorità del mondo ebraico e non: il Console delle Repubblica di Polonia in Milano Krzysztof Strazalka, l'assessore alla cultura della Regione Piemonte Gianni Oliva, il suo collega del Comune di Torino Fiorenzo Alfieri, la vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Claudia De Benedetti e il presidente della Comunità Ebraica di Torino Tullio Levi. Al termine dei discorsi ufficiali alcuni ragazzi della Comunità polacca hanno guidato il pubblico nella visita alla mostra.
L'esposizione raccoglie i suoi famosi autoritratti e molte incisioni. Sono inoltre presenti 23 pannelli didascalici che illustrano la vita in Galizia al tempo di Schulz, i legami dell'artista con le avanguardie europee tra le due guerre mondiali e i rapporti tra le opere grafiche di Schulz e i suoi scritti.
La lezione è stata condotta da eminenti studiosi: Jerzy Jarzebski (Università Jagellonica di Cracovia), Stefano Levi Della Torre (Università di Milano), Anna Salmon Vivanti e Krystyna Jaworska. Un numeroso pubblico, per lo più esterno alla Comunità ebraica, ha così avuto modo di approfondire uno degli autori più significativi della letteratura ebraica. Grandi nomi come David Grossman e Philip Roth si sono ispirati a lui. Il primo dei due ha fatto rivivere Schulz nel suo romanzo di successo Vedi alla voce: amore. In un'ampia ricostruzione che Grossman ha fatto della personalità di Schulz, pubblicata il medesimo giorno da l'Espresso e dal New York Times, l'israeliano scrive: “Leggendo Schulz capii di aver trovato la chiave con la quale avrei potuto scrivere della Shoah. Non scrivere della morte e dello sterminio, ma della vita, di ciò che i nazisti avevano distrutto in maniera meccanica e su vasta scala. E non di una vita trascorsa fiaccamente, ma di una come quella che Schulz ci insegna nei suoi libri: in ogni pagina, in ogni suo brano, la vita esplode ed è degna di questo nome”.
L'epoca geniale di cui scrive Schulz è la radice della vita, l'istinto torrenziale, primordiale, fanciullesco. Una dimensione perduta, agognata, un'inguaribile speranza in un significato.
"Che è mai quest'epoca geniale e quando fu?", si chiede lo scrittore, e i suoi lettori con lui.
Se ne parla in questi giorni, opportuna questione nell'ambito delle celebrazioni del Giorno della Memoria.

Manuel Disegni

 
 
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  Donatella Di CesareCelan e i filosofi

Per la filosofia che si propone di ricominciare a riflette dalla cesura di Auschwitz la poesia di Paul Celan è un punto di avvio. Non solo perché è una risposta al verdetto di Adorno per cui “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Ma perché il grande poeta, nato a Cernovitz, in Bukovina nel 1920 e morto suicida a Parigi nel 1970, ha saputo raccogliere, riprendere e riecheggiare il rantolo, il balbettio soffocato che, ad Auschwitz, rischiava di spegnersi. E ha saputo inscriverlo nella lingua tedesca – lingua della madre e lingua della morte. Un modo, sinora forse il più convincente, per dire Auschwitz e per comprenderlo. Un Gegen-Wort, una “anti-parola”, quella della poesia e dell’arte, contro ogni tentativo di fare di Auschwitz un indicibile incomprensibile, di dissolverlo nel nulla, di annientarlo ancora. Una via indicata anche alla filosofia perché finalmente, e nonostante tutto, dica e comprenda Auschwitz.
Auschwitz, la cesura che segna un prima e un poi nella nostra storia, è una sfida lanciata alla filosofia. È una sfida sia perché la spinge a rivedere i propri concetti, da quello di morte a quello di libertà, da quello di legge morale a quello di ragione, sia perché la rinvia a concetti impensati, rimasti sinora fuori dall’inventario filosofico. Ma è una sfida soprattutto perché, a partire dall’essere umano, non più umano, disumanizzato e inumano, delle vittime e dei carnefici, a partire dalla loro condizione inumana, costringe la filosofia a ripensare radicalmente la condizione umana.
Di Celan e dei filosofi si parlerà questo mercoledì, 27 gennaio, alla Facoltà di Filosofia della “Sapienza” di Roma in  un convegno che ho contribuito a organizzare assieme a Edoardo Ferrario cui parteciperanno Marc Crépon, Félix Duque, Silvano Facioni, Danielle Cohen-Levinas, Vincenzo Vitiello.

Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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La rassegna si divide oggi quasi equamente fra gli articoli dedicati alla Giornata della Memoria e quelli su Israele. Sul primo tema, si trovano notizie sulla celebrazione del ricordo della Shoà con vari eventi all'università "Orientale" di Napoli (Il Mattino) a Roma (Il Tempo) a Firenze (La Nazione), a Bologna (Il Carlino) come del resto in moltissime altre città italiane. Un'appendice del tema è sempre la questione di Pio XII. Pierluigi Battista sottolinea sul Corriere il fatto veramente incredibile, che il primo accusatore del papa, quel Rolf Hochhuth, autore dell'opera teatrale "Il vicario", sarebbe un negazionista, amico di Irving.

Purtroppo l'antisemitismo non è finito sessantacinque anni fa. La Stampa pubblica una piccola notizia che vale la pena di riportare qui integralmente: "Il 2009 è stato il peggiore anno dalla fine della Seconda guerra mondiale per gli episodi di antisemitismo nell'Europa occidentale. Secondo il rapporto di un gruppo di organizzazioni che combatte l'antisemitismo, nel 2009 si sono registrate centinaia di violenze nei confronti di ebrei, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Olanda. "La ragione è che l'antisemitismo da odio alla religione e alla fede ebraica si è spostato a odio per Israele, l'ebreo dei popoli. Il risultato è però sempre lo stesso, perché concretamente a essere colpite sono le persone, gli ebrei”.

Leggete per esempio la sottile perfidia di una "lettera" di tal Luigi Fioravanti, pubblicata con un certo rilievo sull'Unità: "Gli israeliani si stanno distinguendo per la generosità degli aiuti verso gli haitiani: approvazione e lodi. Pietosi e buoni con i lontani, insensibili e spietati coni vicini, i palestinesi: occupazione del loro Territori, espropriazione di terre e acqua, muri, checkpoint, embargo totale a Gaza, stragi e piombo fuso". Il titolo del giornale è altrettanto insinuante: "Le contraddizioni dell'animo umano". Nel titolo e nel pezzo non si discute delle politiche del governo di uno stato in guerra, no, si parla dell'"animo" degli "israeliani". I quali naturalmente sono i discendenti di quegli ebrei che in un articolo molto ambiguo pubblicato dal Giornale, "non uccisero Gesù", cioè non tutti loro, perché "Chi fu dunque a volere la morte di Gesù? I Vangeli fanno notare che Gesù non era ben visto dai capi sacerdoti e da molti farisei e sadducei perché smascherava la loro ipocrisia. Così tramarono per ucciderlo e lo consegnarono a un tribunale romano perché fosse messo a morte. Paradossalmente, la popolarità di cui Gesù godeva presso le masse ebraiche gli costò la vita! Considerata la popolarità di Gesù, come fu possibile che una folla di ebrei ne chiedesse a gran voce la morte? Quale menzogna avranno detto alla folla per scatenare una simile reazione? Forse la stessa menzogna che avevano già usato al suo processo e che fu ripetuta quando fu messo a morte, cioè che aveva detto che avrebbe distrutto il tempio? Vero che secondo quanto scritto nel Nuovo Testamento nel I secolo la nazione ebraica accettò senza protestare il delitto di cui si macchiarono i suoi capi colpevoli di spargimento di sangue e se ne assunse la responsabilità. In un certo qual modo una simile responsabilità si è osservata anche in tempi recenti. Non tutti i cittadini tedeschi presero parte direttamente alle atrocità commesse nella Germania nazista. Nondimeno, la Germania riconobbe una responsabilità collettiva e decise spontaneamente di indennizzare le vittime della persecuzione nazista." Insomma gli "ebrei del I secolo" stanno a Gesù come i nazisti agli ebrei del XX secolo. Per fortuna per l'autore anonimo di questo testo, "da nessuna parte, però, il Nuovo Testamento afferma che le generazioni future di ebrei avrebbero avuto una speciale colpa per la morte di Gesù." Con la rassicurante conclusione che "No, il Nuovo Testamento non è antisemita."

Però il precedente pesa, sui buoni cristiani e anche sui buoni (ex)comunisti. Si veda non solo la lettera citata sopra, non solo l'ovvio livore per Israele e amicizia per l'Iran del vescovo negazionista Williamson, che è spuntato fuori con un'intervista, come racconta Andrea Tarquini su Repubblica; ma anche per esempio il bizzarro articolo firmato sulla Stampa da Piero Fassino, che si è spesso atteggiato ad amico di Israele, ed ora però fa il "rapporteur" del Consiglio d'Europa  sul tema.  Fassino mostra di credere che la diplomazia di quest'anno sia stato un successo, anche quella dell'amministrazione Osama in cui lo stesso presidente americano ha dichiarato di non credere più; inserisce fra i fatti positivi che spingono a un'intensificazione dell'azione diplomatica non solo la famigerata dichiarazione dei ministri degli esteri europei, che pretende di precostituire dall'esterno l'attribuzione di parte di Gerusalemme all'Autorità palestinese, ma anche "l'azione della Turchia", che si è schierata con Siria a Iran. Sostiene che "la ripresa di iniziativa di Al Qaeda" (avevano mai smesso?) non sia mirata sempre contro l'Occidente e in particolare l'America e Israele, ma "dimostra quanto le organizzazioni terroristiche siano determinate a far saltare la strategia di apertura di Obama al mondo islamico." La cosa più incredibile, però, è la valutazione che Fassino dà degli sviluppi sul terreno: "Peraltro anche dalla Cisgiordania vengono segnali positivi, come la riduzione dei checkpoint e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, la crescita economica, la presa di controllo del territorio da parte della polizia palestinese. Fatti che dimostrano la capacità del presidente Abu Mazen, del Primo Ministro Fayyad e dell'Anp di esercitare con efficacia e credibilità l'autorità di governo." Cioè: se Israele si prende il rischio di diminuire i check point (ed è un rischio vero, come si è visto con l'omicidio di un rabbino di qualche settimana fa, il merito è del governo palestinese; se Israele favorisce il rilancio dell'economia palestinese - è la strategia di Netanyahu da sempre - idem come sopra. E se Bush (Bush, non Obama) ha deciso di far addestrare la polizia palestinese da istruttori americani, lo stesso...

Andiamo avanti. Sul messaggio di Osama (cronaca di Zampaglione su Repubblica) che minaccia l'America non perché "apre all'Islam" ma perché appoggia Israele, è da leggere il commento di Fiamma Nirenstein sul Giornale.  Sul blocco della politica americana c'è un articolo (al solito filopalestinese) su  Le Monde e uno sul Tempo. La rabbia israeliana contro Obama e la sua amministrazione si vede anche da una minaccia di contestazione contro il consigliere del presidente Rahm Emanuel, quando dovrebbe venire in Israele per festeggiare il bar mitzvà del figlio (Battistini sul Corriere): certamente un errore dal punto di vista politico e religioso, ma una spia di un sentimento diffuso di "tradimento" dell'entourage ebraico americano democratico capeggiato da Emanuel.

Fra gli altri articoli da segnalare, la cronaca del ritiro della licenza all'ambulante iraniano responsabile per le minacce a una commerciante ebrea a campo dei Fiori a Roma sul Corriere della sera Roma; una recensione di Goffredo Fofi alle memorie di Arnoldo Foà (Il Messaggero); un entusiastico articolo del Wall Street Joural sulla vitalità che l'economia israeliana ha mostrato superando meglio di altre la crisi economica; un altro pezzo di Patrizia Feletig su Repubblica a proposito di una nuova tecnologia medica elaborata in Israele; infine uno del giornale spagnolo ABC  sull'intelligence israeliana in rete.

Ugo Volli

 
 
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Allo Yad Vashem le mappe di Auschwitz-Birkenau                        
Gerusalemme, 24 gen -
Le mappa del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau saranno esposte, a partire da domani, nel museo e memoriale della Shoah di Geurusalemme, lo Yad Vashem. “Le piantine originali, con i dettagli della costruzione di Auschwitz sono l'illustrazione grafica dello sforzo tedesco di attuare sistematicamente la Soluzione Finale - ha affermato oggi alla stampa il direttore dello Yad Vashem Avner Shalev - Abbiamo scelto di esporle al pubblico - ha continuato - per mostrare come le attività apparentemente convenzionali di gente ordinaria hanno portato alla costruzione del più grande campo di sterminio degli ebrei d'Europa".


Israele - Un ministro afferma: “Il rapporto Goldstone
è un esempio di nuovo antisemitismo”
Tel Aviv, 25 gen -
"Il rapporto Goldstone è un esempio di antisemtismo", ha ribadito oggi a gran voce il ministro israeliano dell'Informazione, Yuli Edelstein, durante un incontro pubblico tenuto alla vigilia della Giornata internazionale della Memoria della Shoah. Il ministro ha sostenuto che dalla fine della Seconda guerra mondiale "l'antisemitismo non si focalizza più sugli ebrei in quanto tali, ma sugli israeliani e su Israele". Opinioni simili erano state espresse nei mesi scorsi sul documento dell'Onu - che critica Hamas, ma non risparmia accuse di crimini di guerra a Israele per le conseguenze dell'offensiva Piombo Fuso (dicembre 2008-gennaio 2009) - anche da altri ministri. Mentre ieri è stato il premier Benyamin Netanyahu (Likud, destra) ad affermare che il rapporto Goldstone avrebbe favorito l'incremento di episodi di antisemitismo registrato nel mondo nel 2009. Contro il contenuto di tale testo, Israele si appresta a presentare all'Onu un contro-rapporto realizzato dalle sue forze armate che - secondo anticipazioni - contesta con documenti e foto testimonianze e fatti citati dal team di Goldstone.

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