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    29 gennaio 2010 - 14 Shevat 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Roberto Colombo, rabbino Roberto
Colombo,

rabbino 
Gli ebrei escono finalmente dall’Egitto. La carne del sacrificio pasquale non doveva essere offerta a chi ha abbandonato l’ebraismo convertendosi (Ionatàn ben ‘Uziel). Chiede rav Yosef di Nemirov: “Perché di Yom Kippur e in qualsiasi altro digiuno si accolgono con amore nella Comunità anche gli ebrei convertiti ad altra religione mentre non si offre loro il Korbàn Pèsach? Perché le nostre braccia sono sempre aperte per accogliere chi piange assieme a noi di Yom Kippùr e chi prega con noi nei giorni di digiuno? Ma a colui che dice: 'A voi il pianto e a voi il digiuno. Io mi sento legato all’ebraismo per le buone ricette ebraiche' si risponde: 'Vai a mangiare da un’altra parte'”. 
La storia, la riporta Il Giornale di oggi, ha del surreale, non in sé, perché basta guardare il modo in cui nella storia italiana è avvenuta la reintegrazione degli ebrei dopo le leggi del 1938 per accorgersi che non vi è nulla di nuovo, ma perché la sentenza è stata resa pubblica il 27 gennaio 2010, giornata della Memoria. La Corte dei Conti della Lombardia ha infatti sancito, in riferimento ad una richiesta di indennità di una signora ebrea sottoposta alle norme discriminatorie antiebraiche del 1938 e poi deportata che "la mera soggezione alla normativa antiebraica non è sufficiente a integrare la fattispecie persecutoria degli atti di violenza". La signora in questione, nel frattempo deceduta, deve quindi rinunciare all'indennità di 350 euro (dicasi 350!) prevista dalla legge. E noi, proprio nel Giorno della Memoria, abbiamo imparato che non basta perdere i diritti, essere espulsi da scuola, perdere il posto di lavoro, non potere avere un annuncio mortuario sui giornali né poter andare in villeggiatura (e molto potremmo continuare), per essere dei perseguitati. Quanto alla deportazione prove ci vogliono, che diamine! ce l'aveva, la signora, la dichiarazione firmata e timbrata del comandante del lager dove era stata deportata, da cui risultasse con sufficiente chiarezza la durata della sua deportazione?.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Haiti - La solidarietà di israele, un bilancio sulla missione

HaitiSono già passate due settimane dal terribile terremoto che ha colpito Haiti e che ha lasciato il piccolo paese caraibico in ginocchio. È ancora prematuro per fare stime precise sul numero delle vittime, ma qualsiasi previsione, persino la più ottimistica, parla di un disastro di dimensioni spaventose.
Già dalle prime ore dopo il terremoto, la comunità internazionale si è mossa per portare il proprio aiuto alla popolazione haitiana. Tra i primi paesi ad agire in questa direzione è stato Israele, che in poche ore è stato in grado di mobilitare gli specialisti dei Corpi Medici delle IDF e, con la collaborazione del Ministero degli Esteri e dell’El Al, portare la propria squadra di soccorritori appena due giorni dopo il terremoto. Dimostrando come la solidarietà israeliana possa superare le divisioni politiche internazionali e raggiungere ogni parte del globo quando si tratta di salvare vite umane.
L’équipe israeliana è cresciuta fino a contare oltre 200 persone tra medici, infermieri e altro personale specializzato in questo tipo di operazioni. A poche ore dal loro arrivo, alla periferia di Port-au-Prince era già attivo un efficiente ospedale da campo, dotato delle più moderne attrezzature, il primo nel suo genere che la comunità internazionale sia riuscita a stabilire nella zona del disastro. Il contributo di Israele alle operazioni di soccorso è stato quindi fondamentale, non solo l’ospedale montato dalle IDF è stato il primo a essere funzionante ma la qualità del personale e delle attrezzature presenti lo ha reso per molti giorni un punto di riferimento per tutta la comunità di soccorritori accorsi nell’isola e un fondamentale aiuto per le vittime del terremoto. In poco più di una settimana l’ospedale da campo israeliano ha trattato, operato e curato più di mille persone, quasi un centinaio al giorno. Inoltre le squadre di soccorritori delle IDF hanno tratto in salvo numerose vittime rimaste intrappolate sotto le macerie.
Haitiani e giornalisti stranieri nell’isola sono rimasti sorpresi di fronte a tanta efficienza. Dando la notizia la corrispondente della CNN Elizabeth Cohen si è dichiarata stupefatta di come Israele abbia potuto, in poche ore, trasportare attrezzature migliori degli stessi Stati Uniti, pur essendo un paese piccolo e lontano migliaia di chilometri. Non solo in America la stampa ha prestato particolare attenzione al ruolo svolto dai soccorritori israeliani, anche in Europa e in Italia i media hanno dato spazio alla notizia, portando un’ondata di simpatia verso Israele che non si registrava da molto tempo.
A quasi due settimane di distanza dal terribile terremoto è sempre più difficile trovare persone ancora vive sotto le macerie e le urgenze mediche stanno diminuendo col passare delle ore. I soccorritori internazionali giunti da ogni parte del mondo a Haiti si preparano ora alla nuova fase dell’operazione, dopo l’emergenza iniziale, quella della ricostruzione. Alla luce di questi fatti il maggiore generale Yair Golan, del Comando Fronte Interno, ha dichiarato che, a partire da giovedì (domani), la missione di soccorso israeliana comincerà a rientrare. Il Comando delle IDF e i Corpi Medici si stanno già preparando alla smobilitazione.
Il generale di brigata delle riserve Shalom Ben-Aryeh, che ha brillantemente coordinato le operazioni a Haiti, ora prepara i suoi uomini al rientro. Le IDF hanno fatto sapere anche che, come ulteriore gesto di solidarietà, saranno gli uomini a rientrare, mentre i macchinari sanitari, medicinali e altre attrezzature verranno lasciate sul posto di modo che la popolazione civile ne possa godere anche dopo che gli israeliani saranno rientrati a casa.
Il bilancio della missione israeliana di aiuto internazionale non può che essere più che positiva, i dati già citati parlano da sé. Inoltre la missione ha generato uno straordinario feedback positivo dall’opinione pubblica internazionale. Steve Rabinowitz, un consulente di comunicazione ha definito l’effetto portato da queste notizie come uno dei maggiori risultati mai ottenuti da Israele nel campo della comunicazione. Molti in Israele e negli Stati Uniti hanno apprezzato questo ritorno d’immagine, considerando anche quanto emerge dal Rapporto Goldstone che critica duramente la gestione del conflitto a Gaza del 2008 e che getta molte ombre sulla reputazione dello Stato ebraico. È però bene ricordare quanto afferma il generale Golan: “la nostra gente è andata a Haiti per salvare vite umane, dare le migliori cure mediche possibili e rappresentare Israele. Questo è il corretto ordine delle priorità. Non pensano costantemente alla bandiera bianca e blu che sventola sopra le loro teste”.
Tuttavia, mentre la stampa mondiale loda la capacità di azione e di soccorso internazionale dello Stato ebraico, in Eretz Israel non mancano i dubbi e qualche voce critica.
Akiva Eldar ha scritto una pesante critica sulle colonne di Haaretz confrontando l’impegno israeliano a Haiti, ma anche ad altre operazioni simili in Kenya e nel Sud-Est asiatico dopo lo Tsunami del 2004, con la situazione di Gaza. Non serve andare tanto lontano per trovare una popolazione in assoluto stato di necessità umanitaria e sanitaria. Scrive Eldar: “La giusta identificazione con le vittime della terribile tragedia nella distante Haiti non fa altro che rilevare l’indifferenza dell’attuale sofferenza del popolo di Gaza”. Gli fa eco sul Jerusalem Post Larry Darfner sostenendo che è l’azione svolta a Haiti che rende così terribile la situazione a Gaza, perché rende evidente la cecità israeliana di fronte alla tragedia che si svolge a pochi chilometri da casa.
Nella Striscia risiedono 1,5 milioni di persone, l’80% delle quali vive sotto la soglia di povertà, l’economia si fonda in gran parte, oltre che sul mercato nero, sugli aiuti umanitari internazionali, che Israele spesso trattiene alle frontiere. Sulla base di queste considerazioni Darfner afferma che se l’ospedale da campo israeliano a Port-au-Prince è un riflesso del carattere nazionale allora lo è anche la difficile condizione di Gaza.
Sarebbe certamente un errore paragonare, superficialmente, le due situazioni: Haiti è stata colpita da un disastro naturale mentre il disastro di Gaza è la conseguenza di una guerra. Da Haiti non sono mai partiti missili Qassam per colpire civili israeliani e anzi nel 1947 fu uno dei paesi che votò a favore della risoluzione ONU 181, che prevedeva la spartizione del Mandato Britannico in Palestina e quindi la creazione di uno Stato ebraico. Né si può dimenticare che Hamas proprio a Gaza ha la sua roccaforte.
Tuttavia finché Israele prosegue nella politica del blocco e della chiusura di Gaza qualsiasi azione, seppur brillante ed efficace, non riuscirà a nascondere la situazione della Striscia, al contrario sarà Gaza a minimizzare ogni sforzo israeliano in altri ambiti. Come dice Uri Dromi “c’è una discrasia profonda tra quello che potremmo fare in molti campi e il senso di fallimento in cui siamo intrappolati sulla questione palestinese”. Il mondo tende a vedere Israele solo con le lenti del conflitto con i palestinesi, una situazione che non manca di generare un certo sconforto nell’opinione pubblica israeliana. C’è un senso di frustrazione nella sorpresa che Israele ha provocato nell’opinione pubblica internazionale così abituata a criticare duramente lo Stato ebraico. Una leggera amarezza per la consapevolezza di quello che Israele potrebbe fare su molti livelli in campo culturale, scientifico ed anche umanitario. Una coscienza diffusa che questa ondata di simpatia rischi di essere solo temporanea.
Ai molti israeliani che si chiedono perché il loro paese non possa essere considerato come una realtà, che affronta giornalmente sfide enormi se paragonate alla sua dimensione geografica, economica e demografica, una nazione che certamente può e vuole fare di più, Haiti ha dato risposte positive. Allo stesso tempo però ha risollevato una profonda contraddizione che pone, per paragone, la spinosa questione della politica israeliana a Gaza che non può essere messa in secondo piano né dimenticata.

Pablo Chiesa


Haiti - Gli ebrei dell'isola non perdono la fede e offrono aiuto

HaitiOgni anno, a Yom Kippour, Rudolph Dana si rinchiude nella sua casa di Pétionville, Haiti, protetto da cani e guardie di sicurezza e passa il Giorno dell’Espiazione digiunando, pregando e recitando la tradizionale liturgia del pentimento e del perdono. Fino a circa 10 anni fa, la piccola comunità ebraica di Haiti si sarebbe radunata per lo Yom Kippour in una casa privata e avrebbe pregato seguendo la videoregistrazione della celebrazione dello Yom Kippour che il cognato di Dana, un cantore nel New Jersey, avrebbe spedito loro. Negli ultimi anni, purtroppo, la comunità è diventata così piccola e frammentata da rendere difficili persino riunioni così modeste.
Quando il catastrofico terremoto ha colpito Haiti lo scorso 12 Gennaio, Dana si trovava a Miami per affari. Da allora – il terremoto ha raso al suolo quasi tutta Port-au-Prince e le zone limitrofe, inclusa Pétionville – Dana, 61 anni, proprietario di un’azienda che distribuisce gas propano, è stato al telefono e su Internet tutto il tempo, cercando di contattare gli amici e i circa 500 dipendenti. [...]

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Memoria - Roma, il ricordo di Piero Terracina

PietreAncora Stolpersteine, le pietre di inciampo destinate a ricordare lungo le vie di Roma gli ebrei della Capitale che furono deportati e non fecero ritorno sono state poste a piazza Rosolino Pilo, nel quartiere di Monteverde Vecchio. Alla cerimonia erano presenti la curatrice del progetto Adachiara Zevi e l'artista tedesco Gunter Demnig, che ha elaborato l'idea a Colonia nel 1993, il presidente del XVI Municipio Fabio Bellini, gli studenti degli Istituti Francesco Crispi e  Villa Pamphili e Piero Terracina, scampato al campo di sterminio di Auschwitz e superstite di una famiglia di otto persone.  [...]

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Memoria - Venezia, Celiberti, "Le mie opere per il ricordo"

PietreIn questo periodo si parla molto dell’importanza di trasmettere ai giovani il ricordo della Shoah, si afferma che senza memoria non c'è futuro, che la memoria rappresenta l’unico baluardo possibile contro il rischio che si ripeta una tragedia che ha segnato profondamente la storia dell'Europa. Quello che rimane ancora poco chiaro è quali contenuti si debbano tramandare alle nuove generazioni e in che modo farlo. Non è chiaro se il giorno della memoria debba essere un momento di riflessione ed elaborazione o una giornata che scada nella ritualità, un tritatutto mediatico dove gettare la propria coscienza insieme a spettacoli, mostre, discorsi più o meno confezionati e dibattiti che da anni inneggiano all’amore per il diverso, quando all’apparir del vero le parole cozzano con i fatti. Un bambino se ben direzionato, riesce ad esprimere un’intelligenza, una genuinità di intenti e una sensibilità che difficilmente un adulto, intrappolato in gabbie di razionalità, riuscirebbe ad esprimere.
E’ il caso dei ragazzi di alcune scuole di Venezia e dintorni, che negli scorsi mesi hanno avuto la possibilità di seguire un percorso educativo sulla Shoah organizzato dal Museo Ebraico di Venezia in collaborazione con la sezione locale dell’Associazione Figli della Shoah e gli Itinerari Educativi del Comune di Venezia.
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  Comix - The Unmasked Project, fumetti per il sociale

comixProgetti collegati al mondo del fumetto e al sociale sono tanti e nascono frequentemente. Di solito sono collegati ad eventi specifici, come la prevenzione all’uso delle droghe, oppure per commemorare qualche evento particolare, come la storia dell’Uomo Ragno sull’11 settembre.
The Unmasked Comics Project è un progetto di Inbal Freund, Novick and Chari Pere. I loro fumetti hanno un alto profilo di impegno sociale ed etico. E’ sicuramente questo uno dei motivi per cui questo progetto è decisamente diverso dagli altri. E non solo perché parte dal web. [...]

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Ora basta: reagiamo alle minacce dell'Iran negazionista
È venuta la Giornata della Memoria 2010 e personalmente l'ho trascorsa in casa. Non sono stato chiamato a partecipare ad alcun evento o manifestazione, neppure come invitato, malgrado abbia dedicato qualche libro alla questione ebraica e alle leggi razziali del 1938 e una serie interminabile (...) (...) di articoli all'antisemitismo. Non me ne stupisco e non me ne dolgo perché ho da tempo assunto come regola quella di parlare, in queste occasioni, soltanto dell'antisemitismo che minaccia gli ebrei viventi. Del resto, non si ripete fino alla noia che conoscere la storia passata serve a non ripeterne gli orrori? Tuttavia, parlare dell'antisemitismo di oggi non è gradito e serve a farsi depennare. Come ha scritto Fiamma Nirenstein sul Giornale, per lo più si usano dire due parole di circostanza per poi parlare di Hiroshima, delle minoranze etniche e della Resistenza. A me capitò di sentir equiparare i campi di concentramento e i centri di permanenza temporanea (Cpt) per i clandestini. Qualcuno più audace passa dai Cpt a Gaza, e ne deriva l'equazione Gaza Auschwitz, da cui discende il corollario che gli israeliani (e quindi gli ebrei) sono i nuovi nazisti. Ebbene, per poter parlare della Shoah non pago il pedaggio di dire che Maroni è il nuovo Himm1er, per cui preferisco starmene a casa a sfogliare in silenzio le foto dei miei parenti trucidati ad Auschwitz, i pochi documenti che ne conservo, e a parlarne con i miei figli.
Tuttavia quest'anno sono successi alcuni fatti nuovi che potrebbero cambiare le cose - almeno speriamo. [...]
Giorgio Israel, il Giornale, 29 gennaio 2010

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notizieflash    
 
 
Crocifisso nelle scuole: i dubbi degli italiani                                    
Roma, 29 gen -
Crocifisso nelle scuole. Il 60 per cento degli italiani è favorevole, sono convinti che il crocifisso debba sempre essere esposto nelle scuole o nelle sedi delle istituzioni statali. Questo il risultato dell'indagine promossa dalla Eurispes. Ma a confrontare i dati emergono altre informazioni interessanti:  il 12 per cento di questa maggioranza sono favorevoli ma alla condizioni che ciò non urti la sensibilità delle altre confessioni religiose;  aumenta la percentuale dei contrari che passano dal 10,5 per cento del 2006 al 17,2 per cento del 2010, tra i contrari c'é chi ritiene che la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici non rispetterebbe le altre religioni (10,1 per cento) o comunque ne limiterebbe la liberà di culto (7,1 per cento).
 
 
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