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    5 febbraio 2010 - 21 Shevat 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Il popolo ebbe paura e scappò quando vide il monte Sinài che fumava (Shemòt 20,15), eppure non fuggì quando il monte ardeva nel fuoco. E’ noto che il fumo aumenta dopo lo spegnimento di un incendio. Il Sinài è lo specchio dell’ebreo. Nel momento in cui nel popolo vi era calore ed entusiasmo il monte si accese, finito l’entusiasmo iniziale il fuoco si spense e il monte iniziò a fumare. Gli ebrei capirono allora che una vita ebraica priva d’entusiasmo, fatta solo di bei discorsi, teoria fredda, cultura e convegni avrebbe un giorno spento anche la vita ebraica delle famiglie di Israele. Di fronte alla prospettiva di un futuro in serio pericolo il popolo s’impaurì e fuggì.   (Mèshech Chokhmà)
I ricercatori dell'Einstein College di New York, guidati dal genetista Nir Barzilai, stanno
facendo ricerche sul corredo genetico degli ebrei ashkenaziti viventi negli Stati Uniti per individuare
i fattori genetici che prolungano la vita. Sembra infatti che fra gli Ashkenaziti censiti nella ricerca la possibilità di raggiungere i cento anni siano venti volte superiori alla media. Sono sempre un po' diffidente di questo genere di affermazioni, fatto salvo il rispetto dovuto ai genetisti. Già nel 1348 si diceva che gli ebrei fossero più resistenti alla peste, affermazione malevola perché unita all'accusa di spargerla, che è stata all'epoca smentita fin dal papa, che scrisse una bolla apposta per ricordare che gli ebrei morivano come e quanto i cristiani. Non vorrei che fosse un'altra balla, come quella che gli ebrei avvelenavano i pozzi, rimasta presente nel linguaggio della metafora anche oggi che non si attinge più l'acqua al pozzo sotto casa. Tra le balle, comunque, sembra fra le più innocue. E poi, nella storia, fra pogrom, persecuzioni, stermini, il tasso di mortalità degli ebrei è sempre stato tanto alto, che l'idea di essere portatori dei geni che daranno a tutti l'elizir di lunga vita non può che rallegrarci. O almeno dovrebbe, fatto salvo il brivido che ci percorre ogni volta che si parla di fattori genetici propri degli ebrei, e fatto salvo il dubbio che raggiungere i cento anni non sia proprio il massimo dei traguardi, in un mondo in cui la mortalità infantile permane devastante.
Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  israel univ7 febbraio - Israel University Day

Sono sempre più numerosi i ragazzi delle Comunità ebraiche italiane che finito il liceo lasciano il Belpaese per proseguire gli studi. Qualcuno sceglie l’Inghilterra, o gli Stati Uniti, ma la maggioranza insegue un sogno che spesso ha coltivato fin dai primi anni di scuola, e parte alla volta di Israele.
Per venire incontro all’esigenza di maggiori informazioni sulle possibilità che hanno i neodiplomati nella Terra del latte e del miele, l’Assessorato ai giovani dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e l’Unione giovani ebrei d’Italia, hanno organizzato a Roma, per questa domenica 7 febbraio al Centro bibliografico UCEI di Lungotevere Sanzio, l’Israel University Day, dedicato alle università israeliane e ai programmi formativi offerti agli studenti stranieri. "L'entusiasmo e la collaborazione che abbiamo riscontrato - commenta la vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con delega alle politiche giovanili Claudia De Benedetti - costituiscono un valore aggiunto per tutti i progetti di formazione in corso di realizzazione fra i giovani ebrei italiani e un'apertura verso il mondo giovanile che guarda con interesse all'apprendimento delle competenze specifiche negli atenei israeliani".
Alcuni dei ragazzi che, tra un ripasso e l’altro per l’esame di maturità di giugno, parteciperanno alla giornata, hanno già le idee chiare e vogliono partire per frequentare in Israele l’università, magari sanno anche a quale facoltà iscriversi. Altri pensano di
trascorrere lì soltanto un “gap year”, un anno di pausa, per vivere delle esperienze nuove e decidere cosa fare “da grandi” in maniera più consapevole.
Verranno presentate le Shnat Hachsharot, i programmi offerti dai movimenti giovanili Benè Akiva, e Hashomer Hatzair che, articolati in varie tipologie, consentono di lavorare in Kibbutz, frequentare un Ulpàn di ebraico, prestare volontariato, o anche dedicarsi a vari tipi di studi, compresi quelli religiosi, insieme a ragazzi provenienti da tutto il mondo.
Più vicino alla vita universitaria è invece la Mechinà. Gli studenti che vi partecipano, trascorrono un anno in un ateneo israeliano concentrandosi sullo studio della lingua ebraica per raggiungere uno standard universitario. Cominciano ad assaporare l’atmosfera dell’università e possono frequentare alcuni corsi che saranno loro riconosciuti come crediti negli anni successivi.
All’Israel University Day interverranno i rappresentanti dei più prestigiosi atenei israeliani, l’Università ebraica di Gerusalemme, la Bar Ilan University di Tel Aviv, la Ben Gurion University di Beersheva, e il famoso Technion Israel Institute of Technology di
Haifa, uno dei migliori politecnici del mondo, oltre all’IDC di Herzliya, molto popolare fra gli studenti stranieri in Israele per l’offerta di diverse facoltà in lingua inglese, e perché consente l’accesso con prove alternative al terribile Psicometrico, il test di
ammissione a tutte le università israeliane.
Proprio a questo esame è legata un’iniziativa per richiedere che la lingua italiana si aggiunga a ebraico, arabo, russo, inglese, francese e spagnolo, lingue in cui è possibile sostenere lo psicometrico, anche in considerazione del sempre maggiore numero di studenti italiani che lo tentano, risultando particolarmente svantaggiati.
Un ultimo aspetto non è poi da trascurare, quando si tratta di mandare i propri figli a studiare all’estero, quello economico. Anche di questo si parlerà all’Israel University Day. Israele è all’avanguardia nell’aiutare le famiglie. Grazie al contributo dell’Agenzia ebraica, e in particolare della Masa, i ragazzi hanno a disposizione una vastissima offerta di borse di studio. Le istituzioni ebraiche italiane fanno la loro parte, e in questa occasione saranno presentate le borse di studio della Fondazione Cantoni e dell'Unionione delle Comu
nità Ebraiche Italiane.

r.t.

Qui Milano – “Le concert” per gli alberi d’Israele

il concertoOggi arriva nelle sale italiane “Il concerto”, nuovo film del regista Radu Mihaileanu, che ha già firmato capolavori come “Train de vie” e “Vai e vivrai”. In attesa di vedere se l’apprezzamento del pubblico italiano sarà pari a quello della critica al Festival Internazionale del Film di Roma 2009, la pellicola del regista franco-rumeno, intervistato nell’ultimo numero di Pagine Ebraiche, ha dato il suo contributo al sogno di Ben Gurion di rendere verde il deserto d’Israele. Il film è stato infatti proiettato in anteprima nazionale al cinema Anteo per iniziativa del Keren Kayemet Italia. È da poco passato Tu Bishvat, il capodanno degli alberi, e il ricavato della serata sarà impiegato per piantare alberi intorno al villaggio agricolo di Halutzit, fondato da poco nel cuore del Negev.
Un appuntamento culturale e mondano che la gente della comunità ebraica di Milano non si è fatta sfuggire. La sala ha registrato il tutto esaurito, e prima che si spegnessero le luci non è mancato il tempo per saluti, chiacchiere e brusii.
Una volta iniziata la proiezione, la platea è stata catturata dal ritmo del film, dalle musiche di Tchaikovsky, che ne costituiscono l’indispensabile colonna sonora. A tratti esilaranti, a tratti drammatiche, si susseguono le vicende del direttore d’orchestra Andrei Filipov e dei suoi musicisti, obbligati dal regime comunista a cambiare mestiere, fino al momento in cui la vita concede loro una seconda opportunità per raggiungere “l’armonia assoluta” con il Concerto in re maggione n. 35 per violino e orchestra di Tchaikovsky, che erano stati costretti a interrompere trent’anni prima.
Irresistibili gli spunti di comicità, che hanno suscitato risate fragorose, soprattutto durante la prima parte. Al momento del finale, le note del grande compositore romantico nelle scene vorticose che hanno sciolto i nodi della vicenda hanno commosso il pubblico e al termine del film si è alzato spontaneo un forte applauso, che sembrava voler ringraziare direttamente quei musicisti ritrovati.
All’uscita tanti i commenti positivi “Bellissimo”, “Emozionante”, “Musica meravigliosa”, alcuni pronunciati con occhi lucidi. Solo qualche critica per aver “messo un po’ troppa carne al fuoco, troppe storie diverse insieme”.
D’altra parte l’intreccio di storie è una costante per Radu Mihaileanu, e questo film non tradisce le aspettative.

Rossella Tercatin



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Il ritorno travolgente di Radu Mihaileanu:
“Venite tutti al gran Concerto delle identità”


Radu Mihaileanu“Impostura positiva e identità multiple”. Così Radu Mihaileanu, il regista di origine rumena ma naturalizzato francese, definisce la chiave, la cifra, di tutti i suoi film. Anche Il Concerto che sta per uscire nelle sale italiane e che in Francia ha superato il milione di
spettatori. Lo incontriamo a Parigi, dove vive nell’XI arrondissement, un quartiere non chic ma pieno di vita e multietnico. “Per me è una grande fonte di ispirazione”, racconta, un sorriso appena accennato tra i baffi sottili e la barba a punta, da intellettuale. “E’ un quartiere meticcio, come i miei personaggi”.
Lei conosce bene la condizione di diverso.
Sono arrivato a Parigi nel 1980. Ero rumeno ed ebreo, mi sentivo handicappato,
mi vergognavo. Dopo qualche tempo non sapevo più qual era la mia identità. Finché all’improvviso ho capito che non esiste un’identità unica. Abbiamo tutti dentro di noi migliaia di identità, di influenze che si incrociano, siamo tutti meticci di anima. Gastronomia e musica lo hanno compreso e si sono lasciati contaminare. L’umanità invece ha ancora paura del diverso, lo vive come una minaccia, mentre è una ricchezza.
Cosa pensa del dibattito sull’identità, che sta dividendo la Francia?
C’est une betise, una sciocchezza.
Definire è mettere in prigione, ed è un grande errore imprigionare unapersona in una identità. Significa farne un essere a una dimensione, un potenziale fanatico.
Come mai i suoi film spesso hanno come protagonisti degli impostori?
E’ anche questo un tema autobiografico. L’impostura è ciò che ha salvato la mia famiglia. Mio padre, minacciato dal nazismo, riuscì a cambiare nome e cognome, da Mordechai Buchman a Ion Mihaileanu; e io stesso per scappare dal regime Ceacescu che non concedeva visti di emigrazione, ho dovuto fingere di andare a trovare mio nonno in Israele per riuscire a studiare in Francia. Si pensa sempre all’impostura come a qualcosa di negativo. Ma in situazioni drammatiche l’impostura può essere una forma di creatività, di ingegnosità che consente di trovare una scappatoia in modo ludico,invece che soccombere.
Da dove viene questa comicità surreale?
La witz è parte della mia cultura ebraica, o meglio yiddish. Gli ebrei degli shtetl (i miei provengono da un paesino della Moldavia), avevano un profondo senso dell’umorismo,
una reazione alle sofferenze e alle difficoltà, un’arma gioiosa e intelligente contro la barbarie e la morte.
Lei è molto legato alla famiglia. E’ vero che porta suo padre sul set?
Sì, il primo ciak di tutti i miei film è stato lui a darlo. E Train de vie è ispirato, rovesciandola, a una vicenda che lo ha coinvolto. C’è stato un treno della morte in Romania, di cui parla anche Curzio Malaparte, che, promettendo agli ebrei di portarli in Transnistria, li fece girare in tondo per giorni e giorni, finché tutti morirono di fame, sete, stenti. Ottomila persone persero così la vita. Mio padre sfuggì per miracolo, anche se poi fu internato in un campo di lavoro vicino a Timisoara, dal quale riuscì a evadere.
Anche gli altri suoi film prendono spunto da vicende reali?
Sì, Va’ e vivrai nasce dall’incontro a Los Angeles con un ebreo falascià arrivato in Israele con l’Operazione Mosé. E Le Concert è ispirato a un fatto realmente accaduto al Bolshoi. L’orchestra doveva dare un concerto a Hong Kong, ma il direttore si ammalò e i musicisti rifiutarono di suonare senza di lui. Così il Teatro mandò un’altra orchestra, tentando di rifilarla per quella vera. Ma fu smascherata, e il concerto saltò.
Lei è religioso?
No, se intende dire osservante. Sì, se intende la religione come cultura, dottrina filosofica. Per me la religione pone degli interrogativi, fondamentali, ma non dà delle risposte. Perché la domanda ci lascia liberi, mentre la risposta ci imprigiona.
Nel 2009 lei è stato presidente della Commissione del Premio Ecumenico al Festival di Cannes. Un premio istituito da due Associazioni, una cattolica, l’altra protestante...
Sì, è stato un grande onore. All’inizio ero un po’ diffidente, che cosa ci faccio lì io, ebreo... ma avevo torto. Sono stato accolto in modo meraviglioso, da persone intelligenti, attente alla diversità, senza nessuna intolleranza. Ci siamo scambiati belle idee sul cinema, e sulla vita, e siamo stati unanimi nell’attribuire il premio a Il mio amico Eric di Ken Loach e dare una menzione speciale a Il nastro Bianco di Haneke.
Cosa ci dice del suo rapporto con gli zingari, che nei suoi film appaiono spesso?
Amo il popolo gitano. Ho imparato a conoscerlo da bambino. Ho passato molto tempo in un villaggio di contadini, al margine del quale c’era un campo di zingari. Ho scoperto
un popolo stupendo, che ha molti valori simili a quelli di noi ebrei: l’amore per la libertà, l’erranza, la musica, l’arte. Abbiamo condiviso le stesse tragedie, perché siamo dei diversi, non vogliamo integrarci, e nessuno sopporta la diversità.
E con Israele?
E’ un Paese che amo e al quale mi sento profondamente legato. Mi piace che sia un Paese in cui convivono 130 identità diverse. Per un certo periodo si è cercato di amalgamarle, ora invece sta subentrando l’amore per la differenza, ed è un bene.
Si arriverà alla pace?
Non la possono fare né gli israeliani né i palestinesi, che sono entrambi delle vittime. La pace si potrà fare solo quando lo vorranno Siria, Iran e Arabia Saudita.
La cinematografia israeliana sta vivendo un momento magico
E’ paradossale, ma spesso dalla tragedia, dalle difficoltà nasce l’arte, come bisogno, urgenza di esprimersi per sopravvivere, per difendersi. E infatti i migliori films oggi vengono, oltre che da Israele, dalla Corea del Sud, dalla Romania, dall’Iran.
Prossimi progetti?
Sto finendo di scrivere un altro film, che girerò in arabo. Un modo di esplorare nuove identità, anche perché parlerà di donne. Si ispira a una vera storia avvenuta in Turchia: uno sciopero dell’amore, tipo quello di Lisistrata. E parlerà di nuovo di libertà, di identità, di condizione umana.

Viviana Kasam, Pagine Ebraiche -  febbraio 2010




L’America chiede più sacrifici al nostro business

Necessità di sacrifici economici sull’Iran e impegno comune per la difesa dei diritti umani in Cina: sono i due messaggi che Casa Bianca e Congresso hanno consegnato al presidente della Camera, Gianfranco Fini, durante una visita nella quale è stato trattato alla stregua di un leader di governo.
L’incontro alla Casa Bianca con Joe Biden è stato confermato a Fini solo poco prima dell’atterraggio alla base di Andrews ma la suspense del cerimoniale è stata ripagata da un vicepresidente che ha accolto l’ospite discutendo a tutto campo - per oltre un’ora - i temi bilaterali che l'Amministrazione considera più urgenti. A cominciare dall’Iran, dove Biden, pur plaudendo agli impegni presi dal premier Berlusconi alla Knesset di Gerusalemme contro il nucleare, ha posto con franchezza a Fini la necessità per l’Italia di «affrontare sacrifici» per fermare gli investimenti delle aziende italiane che  rafforzano l’economia degli ayatollah.[...]

Maurizio Molinari, La Stampa, 5 febbraio 2010

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  Comix - The Odd Couple

Ely valleyEli Valley è l’autore di “The Great Jewish Cities of Central and Eastern Europe: A Travel Guide and Resource Book to Prague, Warsaw, Cracow, and Budapest” pubblicato nel 1999, un libro molto apprezzato dai viaggiatori statunitensi nei loro viaggi per riscoprire le città dell’Est Europa.
Ma Eli Valley si è ritagliato anche un ruolo di eccellente cartonista per il settimanale ebraico Forward con una serie di tavole graficamente ispirate all’underground statunitense di James Burns o Robert Crumb con un taglio drasticamente ironico o umoralmente sadico sugli ebrei e l’ebraismo. Valley incarna quell’umorismo critico che obbliga, a tratti “con colpi bassi”, a confrontasi con la propria identità. Pregi e difetti.
Nella tavola The Odd Couple troviamo due modelli estremi di identità:da una parte Avi Klopnik, un ortodosso israeliano, dall’altra Brian Greenstein, un giovane statunitense totalmente ignorante delle sue origini. Il nostro giovane ragazzo arriva in Israele dove impatta con il fanatismo di Klopnik, il loro dialogo è tra sordi. Mentre l’ortodosso parla in ebraico, il giovane non lo capisce e solo perché sente parlare in ebraico entra in uno stato emotivo ascetico, dove una serie di emozioni lo spingono a rimanere in Israele ed aderire all’ortodossia senza aver capito una parola del proprio interlocutore.
Il buon Klopnik intanto esprime una serie di concetti tutti intransigenti ed oltranzisti: contro i valori liberali, contro il governo israeliano, contro gli arabi, contro i progressisti, etc... Ma Brian è preso da una tempesta emotiva che gli impedisce di chiedersi:
cosa sta dicendo Avi?
Eli Valley disegna spesso personaggi che ascoltano poco, che fanno piani assurdi e che esprimono concetti così folli da sopravvivere dal giudizio critico, perché alla fine questo non esiste più. Sono personaggi disegnati in toni sopra le righe. Alla fine Brian e Avi rappresentano i due estremi di una identità che nel momento in cui prende alloggio nella casa di un pensiero e si ferma, diventa sorda, incapace di ascoltare, di porre quelle domande, quel processo di antitesi costante di cui parla spesso Joann Sfar. Eli non denigra od offende le figure sociali che rappresentano i suoi personaggi, si limita ad estremizzarle per far emergere i difetti. In fondo con l’ironia smonta le certezze per mostrare quanto sfugge al nostro pensiero. I vari Klopnik e Greenstein stiano in campana...

Andrea Grilli 
 
 
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La conclusione del viaggio di Silvio Berlusconi in Israele non poteva non accompagnarsi alla coda di polemiche sollevate soprattutto da quanti, nell’agone internazionale, si sono sentiti punti nel vivo dalle sue forti dichiarazioni. È quindi il giorno delle dure repliche iraniane, raccolte ancora una volta, tra gli altri, da Serena Martucci su EPolis, Claudio Rizza su il Messaggero, Alessandro Farruggia su la Nazione, un polemico Luigi Spinola per il Riformista e Gerardo Pelosi per il Sole 24 Ore. Il livore delle parole di Teheran colpisce ancora una volta, benché oramai si sia pur fatta una qualche abitudine alla gelida, rutilante, enfatica retorica di taglio combattentistico dell’attuale gruppo dirigente iraniano. Senza mezzi termini, evocando o sottointendo scenari apocalittici (un abito che ben si confà all’estremismo verbale e alla concezione militante delle relazioni internazionali nutrita da quella leadership), e dopo avere riversato l’ennesima sequela di insulti contro Israele, l’affondo contro il premier italiano non si fa attendere. In una nota scritta comparsa in un sito della televisione iraniana, redatta peraltro in lingua italiana, è detto che «Berlusconi, durante il suo discorso alla Knesseth, ha completato tutta la serie di servigi fatta ai padroni israeliani». A seguire, poi, l’elenco della “nequizie” attribuite al Cavaliere. Che, peraltro, non sorprendono nessuno poiché era facilmente prevedibile che il viaggio del leader italiano, così come le sue nette prese di posizione, scontentassero chi si vede ora messo, almeno temporaneamente, ai margini del grande gioco. Al riguardo, infatti, il Riformista, del pari a Paolo Della Sala su il Secolo XIX, ritiene che «tra Israele e ayatollah è finita l’equi-vicinanza». Vincenzo Nigro per la Repubblica, rileva che ciò che nei giorni trascorsi si è consumata è la speranza (o l’illusione) che Roma potesse o volesse giocare un ruolo “terzista”, ossia di mediazione interessata, nella complicata partita con l’Iran. Paese nei confronti del quale il precedente governo Berlusconi, quello del 2001-2005, aveva assunto una posizione assenteista, evitando di entrare nell’intricata partita in corso sul nucleare. Atteggiamento, però, di cui si era pentito, avnedo lasciato campo aperto a Francia, Germania e Gran Bretagna. Ora, il nuovo attivismo che emerge dall’evoluzione politica dettata dalle dichiarazione del premier è comunque destinato ad avere molteplici implicazioni poiché l’interscambio economico con l’Iran è voluminosissimo, come è ben risaputo, ed è difficile credere che non subisca in futuro dei contraccolpi. Già nell’anno appena trascorso, rileva il nostro ministero degli Esteri, si era verificata una riduzione del volume delle transazioni intorno al 30%, dato però contestato dall’Istat che registrerebbe nel medesimo lasso di tempo, invece, una ulteriore crescita. Il trend negativo, non di meno, sempre secondo la Farnesina, dovrebbe proseguire, pur permettendo di portare a compimento accordi e contratti già stipulati, come quelli firmati dall’Eni, così come Stefano Agnoli commenta per il Corriere della Sera. Gli stessi americani, afferma Maurizio Molinari su la Stampa, avrebbero avanzato la richiesta di sacrifici da parte nostra in tal senso. Quel che ha più offeso il regime iraniano è tuttavia il rimando alla necessità di sostenere l’opposizione interna, denuciata come «aperta interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano». I rapporti bilaterali sono quindi prossimi ad una crisi diplomatica, come commenta Cecilia Zecchinelli su il Corriere della Sera. Se ancora due anni fa Mahmoud Ahmadinejad riconosceva nell’Italia un «paese amico, il più amico di tutti» oggi lo scenario è profondamente mutato. La decisione di attaccare politicamente Teheran non è di certo il frutto di una estemporanea manifestazione di volontà di Berlusconi ma il prodotto di una strategia politica concordata a livello non solo dell’esecutivo ma, quasi sicuramente, anche con gli altri partner europei. Per più versi parrebbe indicare che il tempo delle moratorie e dei rinvii è scaduto. In ciò c’è un sostanziale assenso nell’Unione Europea che stanca di misurare il succedersi degli insuccessi dei tentativi di negoziazione pare ora volta verso il varo di nuove sanzioni intese però nell’ottica del «double track», il doppio binario, ovvero non come strumento di mera punizione bensì di induzione ad un atteggiamento più cooperativo. Su quanto queste possano essere praticabili, prima ancora che efficaci, dinanzi soprattutto alla dichiarata indisponibilità cinese, la discussione è tuttavia aperta. Dopo di che, se nulla dovesse essere fatto, l’escalation incontrollata potrebbe infine produrre una reazione militare, ipotesi poco auspicabile ma non esclusa dalle agende politiche degli uni come degli altri. Tuttavia gli scenari, oltre che cupi, potrebbero aprirsi anche a nuove speranze, come lascia intendere Khaled Fouad Allam su il Sole 24 Ore, che mette in rilievo come Ahmadinejad faccia la voce grossa anche perché sa di essere fragile, ovvero di potere contare su un margine di legittimazione interna piuttosto ridotto. Ad essere messo alle corde da un opposizione che continua a manifestare a viva voce le sue ragioni, malgrado la brutale repressione, è, secondo l’autore, il sistema stesso di governo che si è andato affermando in questi ultimi trent’anni a Teheran. Aggiunge Fouad Allam: «probabilmente nei prossimi anni la crisi del modello politico iraniano, che ha indirettamente influenzato il fondamentalismo islamico sunnita, si propagherà anche negli altri paesi musulmani, semplicemente perché per la questione democrazia non sussiste frontiera tra Islam sunnita e islam sciita». Il vero anello debole, ancora una volta. è costituito dall’incapacità delle classi dirigenti iraniane, al di là della retorica forcaiola, di dare risposte alla crisi economica che da tempo attraversa il paese e colpisce le sue classi medie. Vedremo quali saranno gli sviluppi futuri, sui quali si sofferma anche Segre per il Giornale, rilevando come il livello di credibilità dell’Italia in Israele sia ora molto alto e di come questo capitale politico possa essere speso per un effettivo ed innovativo ruolo di mediazione. Insomma, come si suole motteggiare “chi vivrà vedrà”. L’importante è che la politica mediorientale e mediterranea si disponga nel senso della protezione della vita e non della sua distruzione, di contro alle spinte necrofile che ancora oggi il regime iraniano continua a produrre.

Claudio Vercelli

 
 
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Iran: Farnesina, non interferiamo negli affari interni                      
ma sosteniamo i diritti umani

Roma, 5 feb -
La Farnesina attraverso le parole del portavoce, Maurizio Massari, ribadisce la posizione italiana, alla luce del botta e risposta tra Roma e Teheran dopo le dichiarazioni del premier Silvio Berlusconi durante la sua visita in Israele. "Non intendiamo interferire negli affari interni" di Teheran. Ma una cosa sono "gli affari istituzionali, un'altra è la difesa dei diritti umani, che è una valore universale: noi sosteniamo l'opposizione iraniana a manifestare pacificamente le proprie opinioni e idee". 
 
 
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