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L'Unione informa |
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5 febbraio 2010 - 21 Shevat 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
Il
popolo ebbe paura e scappò quando vide il monte Sinài che fumava
(Shemòt 20,15), eppure non fuggì quando il monte ardeva nel fuoco. E’
noto che il fumo aumenta dopo lo spegnimento di un incendio. Il Sinài è
lo specchio dell’ebreo. Nel momento in cui nel popolo vi era calore ed
entusiasmo il monte si accese, finito l’entusiasmo iniziale il fuoco si
spense e il monte iniziò a fumare. Gli ebrei capirono allora che una
vita ebraica priva d’entusiasmo, fatta solo di bei discorsi, teoria
fredda, cultura e convegni avrebbe un giorno spento anche la vita
ebraica delle famiglie di Israele. Di fronte alla prospettiva di un
futuro in serio pericolo il popolo s’impaurì e fuggì.
(Mèshech Chokhmà)
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I ricercatori dell'Einstein College di New York, guidati dal genetista Nir Barzilai, stanno facendo ricerche sul corredo genetico degli ebrei ashkenaziti viventi negli Stati Uniti per individuare i
fattori genetici che prolungano la vita. Sembra infatti che fra gli
Ashkenaziti censiti nella ricerca la possibilità di raggiungere i cento
anni siano venti volte superiori alla media. Sono sempre un po'
diffidente di questo genere di affermazioni, fatto salvo il rispetto
dovuto ai genetisti. Già nel 1348 si diceva che gli ebrei fossero più
resistenti alla peste, affermazione malevola perché unita all'accusa di
spargerla, che è stata all'epoca smentita fin dal papa, che scrisse una
bolla apposta per ricordare che gli ebrei morivano come e quanto i
cristiani. Non vorrei che fosse un'altra balla, come quella che gli
ebrei avvelenavano i pozzi, rimasta presente nel linguaggio della
metafora anche oggi che non si attinge più l'acqua al pozzo sotto
casa. Tra le balle, comunque, sembra fra le più innocue. E poi,
nella storia, fra pogrom, persecuzioni, stermini, il tasso di mortalità
degli ebrei è sempre stato tanto alto, che l'idea di essere portatori
dei geni che daranno a tutti l'elizir di lunga vita non può che
rallegrarci. O almeno dovrebbe, fatto salvo il brivido che ci percorre
ogni volta che si parla di fattori genetici propri degli ebrei, e fatto
salvo il dubbio che raggiungere i cento anni non sia proprio il massimo
dei traguardi, in un mondo in cui la mortalità infantile permane
devastante. |
Anna Foa,
storica |
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7 febbraio - Israel University Day
Sono sempre più numerosi i ragazzi delle Comunità ebraiche italiane che
finito il liceo lasciano il Belpaese per proseguire gli studi. Qualcuno
sceglie l’Inghilterra, o gli Stati Uniti, ma la maggioranza insegue un
sogno che spesso ha coltivato fin dai primi anni di scuola, e parte
alla volta di Israele. Per
venire incontro all’esigenza di maggiori informazioni sulle possibilità
che hanno i neodiplomati nella Terra del latte e del miele,
l’Assessorato ai giovani dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e
l’Unione giovani ebrei d’Italia, hanno organizzato a Roma, per questa
domenica 7 febbraio al Centro bibliografico UCEI di Lungotevere Sanzio,
l’Israel University Day, dedicato alle università israeliane e ai
programmi formativi offerti agli studenti stranieri. "L'entusiasmo e la
collaborazione che abbiamo riscontrato - commenta la vicepresidente
dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con delega alle politiche
giovanili Claudia De Benedetti - costituiscono un valore aggiunto per
tutti i progetti di formazione in corso di realizzazione fra i giovani
ebrei italiani e un'apertura verso il mondo giovanile che guarda con
interesse all'apprendimento delle competenze specifiche negli atenei
israeliani". Alcuni dei ragazzi che, tra un ripasso e l’altro per
l’esame di maturità di giugno, parteciperanno alla giornata, hanno già
le idee chiare e vogliono partire per frequentare in Israele
l’università, magari sanno anche a quale facoltà iscriversi. Altri
pensano di trascorrere lì soltanto un “gap year”, un anno di
pausa, per vivere delle esperienze nuove e decidere cosa fare “da
grandi” in maniera più consapevole. Verranno presentate le Shnat
Hachsharot, i programmi offerti dai movimenti giovanili Benè Akiva, e
Hashomer Hatzair che, articolati in varie tipologie, consentono di
lavorare in Kibbutz, frequentare un Ulpàn di ebraico, prestare
volontariato, o anche dedicarsi a vari tipi di studi, compresi quelli
religiosi, insieme a ragazzi provenienti da tutto il mondo. Più
vicino alla vita universitaria è invece la Mechinà. Gli studenti che vi
partecipano, trascorrono un anno in un ateneo israeliano concentrandosi
sullo studio della lingua ebraica per raggiungere uno standard
universitario. Cominciano ad assaporare l’atmosfera dell’università e
possono frequentare alcuni corsi che saranno loro riconosciuti come
crediti negli anni successivi. All’Israel University Day
interverranno i rappresentanti dei più prestigiosi atenei israeliani,
l’Università ebraica di Gerusalemme, la Bar Ilan University di Tel
Aviv, la Ben Gurion University di Beersheva, e il famoso Technion
Israel Institute of Technology di Haifa, uno dei migliori
politecnici del mondo, oltre all’IDC di Herzliya, molto popolare fra
gli studenti stranieri in Israele per l’offerta di diverse facoltà in
lingua inglese, e perché consente l’accesso con prove alternative al
terribile Psicometrico, il test di ammissione a tutte le università israeliane. Proprio
a questo esame è legata un’iniziativa per richiedere che la lingua
italiana si aggiunga a ebraico, arabo, russo, inglese, francese e
spagnolo, lingue in cui è possibile sostenere lo psicometrico, anche in
considerazione del sempre maggiore numero di studenti italiani che lo
tentano, risultando particolarmente svantaggiati. Un ultimo
aspetto non è poi da trascurare, quando si tratta di mandare i propri
figli a studiare all’estero, quello economico. Anche di questo si
parlerà all’Israel University Day. Israele è all’avanguardia
nell’aiutare le famiglie. Grazie al contributo dell’Agenzia ebraica, e
in particolare della Masa, i ragazzi hanno a disposizione una
vastissima offerta di borse di studio. Le istituzioni ebraiche italiane
fanno la loro parte, e in questa occasione saranno presentate le borse
di studio della Fondazione Cantoni e dell'Unionione delle Comunità Ebraiche Italiane.
r.t.
Qui Milano – “Le concert” per gli alberi d’Israele
Oggi
arriva nelle sale italiane “Il concerto”, nuovo film del regista Radu
Mihaileanu, che ha già firmato capolavori come “Train de vie” e “Vai e
vivrai”. In attesa di vedere se l’apprezzamento del pubblico italiano
sarà pari a quello della critica al Festival Internazionale del Film di
Roma 2009, la pellicola del regista franco-rumeno, intervistato
nell’ultimo numero di Pagine Ebraiche, ha dato il suo contributo al
sogno di Ben Gurion di rendere verde il deserto d’Israele. Il film è
stato infatti proiettato in anteprima nazionale al cinema Anteo per
iniziativa del Keren Kayemet Italia. È da poco passato Tu Bishvat, il
capodanno degli alberi, e il ricavato della serata sarà impiegato per
piantare alberi intorno al villaggio agricolo di Halutzit, fondato da
poco nel cuore del Negev. Un appuntamento culturale e mondano
che la gente della comunità ebraica di Milano non si è fatta sfuggire.
La sala ha registrato il tutto esaurito, e prima che si spegnessero le
luci non è mancato il tempo per saluti, chiacchiere e brusii. Una
volta iniziata la proiezione, la platea è stata catturata dal ritmo del
film, dalle musiche di Tchaikovsky, che ne costituiscono
l’indispensabile colonna sonora. A tratti esilaranti, a tratti
drammatiche, si susseguono le vicende del direttore d’orchestra Andrei
Filipov e dei suoi musicisti, obbligati dal regime comunista a cambiare
mestiere, fino al momento in cui la vita concede loro una seconda
opportunità per raggiungere “l’armonia assoluta” con il Concerto in re
maggione n. 35 per violino e orchestra di Tchaikovsky, che erano stati
costretti a interrompere trent’anni prima. Irresistibili gli
spunti di comicità, che hanno suscitato risate fragorose, soprattutto
durante la prima parte. Al momento del finale, le note del grande
compositore romantico nelle scene vorticose che hanno sciolto i nodi
della vicenda hanno commosso il pubblico e al termine del film si è
alzato spontaneo un forte applauso, che sembrava voler ringraziare
direttamente quei musicisti ritrovati. All’uscita tanti i
commenti positivi “Bellissimo”, “Emozionante”, “Musica meravigliosa”,
alcuni pronunciati con occhi lucidi. Solo qualche critica per aver
“messo un po’ troppa carne al fuoco, troppe storie diverse insieme”. D’altra parte l’intreccio di storie è una costante per Radu Mihaileanu, e questo film non tradisce le aspettative.
Rossella Tercatin


Il ritorno travolgente di Radu Mihaileanu: “Venite tutti al gran Concerto delle identità”
“Impostura
positiva e identità multiple”. Così Radu Mihaileanu, il regista di
origine rumena ma naturalizzato francese, definisce la chiave, la
cifra, di tutti i suoi film. Anche Il Concerto che sta per uscire nelle
sale italiane e che in Francia ha superato il milione di spettatori.
Lo incontriamo a Parigi, dove vive nell’XI arrondissement, un quartiere
non chic ma pieno di vita e multietnico. “Per me è una grande fonte di
ispirazione”, racconta, un sorriso appena accennato tra i baffi sottili
e la barba a punta, da intellettuale. “E’ un quartiere meticcio, come i
miei personaggi”. Lei conosce bene la condizione di diverso. Sono arrivato a Parigi nel 1980. Ero rumeno ed ebreo, mi sentivo handicappato, mi
vergognavo. Dopo qualche tempo non sapevo più qual era la mia identità.
Finché all’improvviso ho capito che non esiste un’identità unica.
Abbiamo tutti dentro di noi migliaia di identità, di influenze che si
incrociano, siamo tutti meticci di anima. Gastronomia e musica lo hanno
compreso e si sono lasciati contaminare. L’umanità invece ha ancora
paura del diverso, lo vive come una minaccia, mentre è una ricchezza. Cosa pensa del dibattito sull’identità, che sta dividendo la Francia? C’est une betise, una sciocchezza. Definire
è mettere in prigione, ed è un grande errore imprigionare unapersona in
una identità. Significa farne un essere a una dimensione, un potenziale
fanatico. Come mai i suoi film spesso hanno come protagonisti degli impostori? E’
anche questo un tema autobiografico. L’impostura è ciò che ha salvato
la mia famiglia. Mio padre, minacciato dal nazismo, riuscì a cambiare
nome e cognome, da Mordechai Buchman a Ion Mihaileanu; e io stesso per
scappare dal regime Ceacescu che non concedeva visti di emigrazione, ho
dovuto fingere di andare a trovare mio nonno in Israele per riuscire a
studiare in Francia. Si pensa sempre all’impostura come a qualcosa di
negativo. Ma in situazioni drammatiche l’impostura può essere una forma
di creatività, di ingegnosità che consente di trovare una scappatoia in
modo ludico,invece che soccombere. Da dove viene questa comicità surreale? La
witz è parte della mia cultura ebraica, o meglio yiddish. Gli ebrei
degli shtetl (i miei provengono da un paesino della Moldavia), avevano
un profondo senso dell’umorismo, una reazione alle sofferenze e alle difficoltà, un’arma gioiosa e intelligente contro la barbarie e la morte. Lei è molto legato alla famiglia. E’ vero che porta suo padre sul set? Sì,
il primo ciak di tutti i miei film è stato lui a darlo. E Train de vie
è ispirato, rovesciandola, a una vicenda che lo ha coinvolto. C’è stato
un treno della morte in Romania, di cui parla anche Curzio Malaparte,
che, promettendo agli ebrei di portarli in Transnistria, li fece girare
in tondo per giorni e giorni, finché tutti morirono di fame, sete,
stenti. Ottomila persone persero così la vita. Mio padre sfuggì per
miracolo, anche se poi fu internato in un campo di lavoro vicino a
Timisoara, dal quale riuscì a evadere. Anche gli altri suoi film prendono spunto da vicende reali? Sì,
Va’ e vivrai nasce dall’incontro a Los Angeles con un ebreo falascià
arrivato in Israele con l’Operazione Mosé. E Le Concert è ispirato a un
fatto realmente accaduto al Bolshoi. L’orchestra doveva dare un
concerto a Hong Kong, ma il direttore si ammalò e i musicisti
rifiutarono di suonare senza di lui. Così il Teatro mandò un’altra
orchestra, tentando di rifilarla per quella vera. Ma fu smascherata, e
il concerto saltò. Lei è religioso? No,
se intende dire osservante. Sì, se intende la religione come cultura,
dottrina filosofica. Per me la religione pone degli interrogativi,
fondamentali, ma non dà delle risposte. Perché la domanda ci lascia
liberi, mentre la risposta ci imprigiona. Nel
2009 lei è stato presidente della Commissione del Premio Ecumenico al
Festival di Cannes. Un premio istituito da due Associazioni, una
cattolica, l’altra protestante... Sì, è stato un grande
onore. All’inizio ero un po’ diffidente, che cosa ci faccio lì io,
ebreo... ma avevo torto. Sono stato accolto in modo meraviglioso, da
persone intelligenti, attente alla diversità, senza nessuna
intolleranza. Ci siamo scambiati belle idee sul cinema, e sulla vita, e
siamo stati unanimi nell’attribuire il premio a Il mio amico Eric di
Ken Loach e dare una menzione speciale a Il nastro Bianco di Haneke. Cosa ci dice del suo rapporto con gli zingari, che nei suoi film appaiono spesso? Amo
il popolo gitano. Ho imparato a conoscerlo da bambino. Ho passato molto
tempo in un villaggio di contadini, al margine del quale c’era un campo
di zingari. Ho scoperto un popolo stupendo, che ha molti valori
simili a quelli di noi ebrei: l’amore per la libertà, l’erranza, la
musica, l’arte. Abbiamo condiviso le stesse tragedie, perché siamo dei
diversi, non vogliamo integrarci, e nessuno sopporta la diversità. E con Israele? E’
un Paese che amo e al quale mi sento profondamente legato. Mi piace che
sia un Paese in cui convivono 130 identità diverse. Per un certo
periodo si è cercato di amalgamarle, ora invece sta subentrando l’amore
per la differenza, ed è un bene. Si arriverà alla pace? Non
la possono fare né gli israeliani né i palestinesi, che sono entrambi
delle vittime. La pace si potrà fare solo quando lo vorranno Siria,
Iran e Arabia Saudita. La cinematografia israeliana sta vivendo un momento magico E’
paradossale, ma spesso dalla tragedia, dalle difficoltà nasce l’arte,
come bisogno, urgenza di esprimersi per sopravvivere, per difendersi. E
infatti i migliori films oggi vengono, oltre che da Israele, dalla
Corea del Sud, dalla Romania, dall’Iran. Prossimi progetti? Sto
finendo di scrivere un altro film, che girerò in arabo. Un modo di
esplorare nuove identità, anche perché parlerà di donne. Si ispira a
una vera storia avvenuta in Turchia: uno sciopero dell’amore, tipo
quello di Lisistrata. E parlerà di nuovo di libertà, di identità, di
condizione umana.
Viviana Kasam, Pagine Ebraiche - febbraio 2010
L’America chiede più sacrifici al nostro business
Necessità
di sacrifici economici sull’Iran e impegno comune per la difesa dei
diritti umani in Cina: sono i due messaggi che Casa Bianca e Congresso
hanno consegnato al presidente della Camera, Gianfranco Fini, durante
una visita nella quale è stato trattato alla stregua di un leader di
governo. L’incontro alla Casa Bianca con Joe Biden è stato
confermato a Fini solo poco prima dell’atterraggio alla base di Andrews
ma la suspense del cerimoniale è stata ripagata da un vicepresidente
che ha accolto l’ospite discutendo a tutto campo - per oltre un’ora - i
temi bilaterali che l'Amministrazione considera più urgenti. A
cominciare dall’Iran, dove Biden, pur plaudendo agli impegni presi dal
premier Berlusconi alla Knesset di Gerusalemme contro il nucleare, ha
posto con franchezza a Fini la necessità per l’Italia di «affrontare
sacrifici» per fermare gli investimenti delle aziende italiane
che rafforzano l’economia degli ayatollah.[...]
Maurizio Molinari, La Stampa, 5 febbraio 2010
L'articolo prosegue sul Portale dell'ebraismo italiano moked.it
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Comix - The Odd Couple
Eli
Valley è l’autore di “The Great Jewish Cities of Central and Eastern
Europe: A Travel Guide and Resource Book to Prague, Warsaw, Cracow, and
Budapest” pubblicato nel 1999, un libro molto apprezzato dai
viaggiatori statunitensi nei loro viaggi per riscoprire le città
dell’Est Europa. Ma Eli Valley si è ritagliato anche un ruolo di
eccellente cartonista per il settimanale ebraico Forward con una serie
di tavole graficamente ispirate all’underground statunitense di James
Burns o Robert Crumb con un taglio drasticamente ironico o umoralmente
sadico sugli ebrei e l’ebraismo. Valley incarna quell’umorismo critico
che obbliga, a tratti “con colpi bassi”, a confrontasi con la propria
identità. Pregi e difetti. Nella tavola The Odd Couple troviamo
due modelli estremi di identità:da una parte Avi Klopnik, un ortodosso
israeliano, dall’altra Brian Greenstein, un giovane statunitense
totalmente ignorante delle sue origini. Il nostro giovane ragazzo
arriva in Israele dove impatta con il fanatismo di Klopnik, il loro
dialogo è tra sordi. Mentre l’ortodosso parla in ebraico, il giovane
non lo capisce e solo perché sente parlare in ebraico entra in uno
stato emotivo ascetico, dove una serie di emozioni lo spingono a
rimanere in Israele ed aderire all’ortodossia senza aver capito una
parola del proprio interlocutore. Il buon Klopnik intanto esprime
una serie di concetti tutti intransigenti ed oltranzisti: contro i
valori liberali, contro il governo israeliano, contro gli arabi, contro
i progressisti, etc... Ma Brian è preso da una tempesta emotiva che gli
impedisce di chiedersi: cosa sta dicendo Avi? Eli Valley
disegna spesso personaggi che ascoltano poco, che fanno piani assurdi e
che esprimono concetti così folli da sopravvivere dal giudizio critico,
perché alla fine questo non esiste più. Sono personaggi disegnati in
toni sopra le righe. Alla fine Brian e Avi rappresentano i due estremi
di una identità che nel momento in cui prende alloggio nella casa di un
pensiero e si ferma, diventa sorda, incapace di ascoltare, di porre
quelle domande, quel processo di antitesi costante di cui parla spesso
Joann Sfar. Eli non denigra od offende le figure sociali che
rappresentano i suoi personaggi, si limita ad estremizzarle per far
emergere i difetti. In fondo con l’ironia smonta le certezze per
mostrare quanto sfugge al nostro pensiero. I vari Klopnik e Greenstein
stiano in campana...
Andrea Grilli |
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rassegna stampa |
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La
conclusione del viaggio di Silvio Berlusconi in Israele non poteva non
accompagnarsi alla coda di polemiche sollevate soprattutto da quanti,
nell’agone internazionale, si sono sentiti punti nel vivo dalle sue
forti dichiarazioni. È quindi il giorno delle dure repliche iraniane,
raccolte ancora una volta, tra gli altri, da Serena Martucci su EPolis, Claudio Rizza su il Messaggero, Alessandro Farruggia su la Nazione, un polemico Luigi Spinola per il Riformista e Gerardo Pelosi per il Sole 24 Ore.
Il livore delle parole di Teheran colpisce ancora una volta, benché
oramai si sia pur fatta una qualche abitudine alla gelida, rutilante,
enfatica retorica di taglio combattentistico dell’attuale gruppo
dirigente iraniano. Senza mezzi termini, evocando o sottointendo
scenari apocalittici (un abito che ben si confà all’estremismo verbale
e alla concezione militante delle relazioni internazionali nutrita da
quella leadership), e dopo avere riversato l’ennesima sequela di
insulti contro Israele, l’affondo contro il premier italiano non si fa
attendere. In una nota scritta comparsa in un sito della televisione
iraniana, redatta peraltro in lingua italiana, è detto che «Berlusconi,
durante il suo discorso alla Knesseth, ha completato tutta la serie di
servigi fatta ai padroni israeliani». A seguire, poi, l’elenco della
“nequizie” attribuite al Cavaliere. Che, peraltro, non sorprendono
nessuno poiché era facilmente prevedibile che il viaggio del leader
italiano, così come le sue nette prese di posizione, scontentassero chi
si vede ora messo, almeno temporaneamente, ai margini del grande gioco.
Al riguardo, infatti, il Riformista, del pari a Paolo Della Sala su il Secolo XIX, ritiene che «tra Israele e ayatollah è finita l’equi-vicinanza». Vincenzo Nigro per la Repubblica,
rileva che ciò che nei giorni trascorsi si è consumata è la speranza (o
l’illusione) che Roma potesse o volesse giocare un ruolo “terzista”,
ossia di mediazione interessata, nella complicata partita con l’Iran.
Paese nei confronti del quale il precedente governo Berlusconi, quello
del 2001-2005, aveva assunto una posizione assenteista, evitando di
entrare nell’intricata partita in corso sul nucleare. Atteggiamento,
però, di cui si era pentito, avnedo lasciato campo aperto a Francia,
Germania e Gran Bretagna. Ora, il nuovo attivismo che emerge
dall’evoluzione politica dettata dalle dichiarazione del premier è
comunque destinato ad avere molteplici implicazioni poiché
l’interscambio economico con l’Iran è voluminosissimo, come è ben
risaputo, ed è difficile credere che non subisca in futuro dei
contraccolpi. Già nell’anno appena trascorso, rileva il nostro
ministero degli Esteri, si era verificata una riduzione del volume
delle transazioni intorno al 30%, dato però contestato dall’Istat che
registrerebbe nel medesimo lasso di tempo, invece, una ulteriore
crescita. Il trend negativo, non di meno, sempre secondo la Farnesina,
dovrebbe proseguire, pur permettendo di portare a compimento accordi e
contratti già stipulati, come quelli firmati dall’Eni, così come
Stefano Agnoli commenta per il Corriere della Sera. Gli stessi americani, afferma Maurizio Molinari su la Stampa,
avrebbero avanzato la richiesta di sacrifici da parte nostra in tal
senso. Quel che ha più offeso il regime iraniano è tuttavia il rimando
alla necessità di sostenere l’opposizione interna, denuciata come
«aperta interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano». I
rapporti bilaterali sono quindi prossimi ad una crisi diplomatica, come
commenta Cecilia Zecchinelli su il Corriere della Sera.
Se ancora due anni fa Mahmoud Ahmadinejad riconosceva nell’Italia un
«paese amico, il più amico di tutti» oggi lo scenario è profondamente
mutato. La decisione di attaccare politicamente Teheran non è di certo
il frutto di una estemporanea manifestazione di volontà di Berlusconi
ma il prodotto di una strategia politica concordata a livello non solo
dell’esecutivo ma, quasi sicuramente, anche con gli altri partner
europei. Per più versi parrebbe indicare che il tempo delle moratorie e
dei rinvii è scaduto. In ciò c’è un sostanziale assenso nell’Unione
Europea che stanca di misurare il succedersi degli insuccessi dei
tentativi di negoziazione pare ora volta verso il varo di nuove
sanzioni intese però nell’ottica del «double track», il doppio binario,
ovvero non come strumento di mera punizione bensì di induzione ad un
atteggiamento più cooperativo. Su quanto queste possano essere
praticabili, prima ancora che efficaci, dinanzi soprattutto alla
dichiarata indisponibilità cinese, la discussione è tuttavia aperta.
Dopo di che, se nulla dovesse essere fatto, l’escalation incontrollata
potrebbe infine produrre una reazione militare, ipotesi poco
auspicabile ma non esclusa dalle agende politiche degli uni come degli
altri. Tuttavia gli scenari, oltre che cupi, potrebbero aprirsi anche a
nuove speranze, come lascia intendere Khaled Fouad Allam su il Sole 24 Ore,
che mette in rilievo come Ahmadinejad faccia la voce grossa anche
perché sa di essere fragile, ovvero di potere contare su un margine di
legittimazione interna piuttosto ridotto. Ad essere messo alle corde da
un opposizione che continua a manifestare a viva voce le sue ragioni,
malgrado la brutale repressione, è, secondo l’autore, il sistema stesso
di governo che si è andato affermando in questi ultimi trent’anni a
Teheran. Aggiunge Fouad Allam: «probabilmente nei prossimi anni la
crisi del modello politico iraniano, che ha indirettamente influenzato
il fondamentalismo islamico sunnita, si propagherà anche negli altri
paesi musulmani, semplicemente perché per la questione democrazia non
sussiste frontiera tra Islam sunnita e islam sciita». Il vero anello
debole, ancora una volta. è costituito dall’incapacità delle classi
dirigenti iraniane, al di là della retorica forcaiola, di dare risposte
alla crisi economica che da tempo attraversa il paese e colpisce le sue
classi medie. Vedremo quali saranno gli sviluppi futuri, sui quali si
sofferma anche Segre per il Giornale,
rilevando come il livello di credibilità dell’Italia in Israele sia ora
molto alto e di come questo capitale politico possa essere speso per un
effettivo ed innovativo ruolo di mediazione. Insomma, come si suole
motteggiare “chi vivrà vedrà”. L’importante è che la politica
mediorientale e mediterranea si disponga nel senso della protezione
della vita e non della sua distruzione, di contro alle spinte necrofile
che ancora oggi il regime iraniano continua a produrre. Claudio Vercelli |
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Iran: Farnesina, non interferiamo negli affari interni ma sosteniamo i diritti umani Roma, 5 feb - La
Farnesina attraverso le parole del portavoce, Maurizio Massari,
ribadisce la posizione italiana, alla luce del botta e risposta tra
Roma e Teheran dopo le dichiarazioni del premier Silvio Berlusconi
durante la sua visita in Israele. "Non intendiamo interferire negli
affari interni" di Teheran. Ma una cosa sono "gli affari istituzionali,
un'altra è la difesa dei diritti umani, che è una valore universale:
noi sosteniamo l'opposizione iraniana a manifestare pacificamente le
proprie opinioni e idee". |
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indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
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offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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