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L'Unione informa
 
    19 febbraio 2010 - 5 Adar 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino
“Mordekhài  Haiehudì  era il secondo dopo il re Achashveròsh: grande fra gli ebrei e amato da gran parte dei suoi fratelli, cercava il bene del suo popolo e parlava in favore della pace dei suoi figli” (Meghillà 10,3). Grave errore quello di Mordekhài aver messo solo all’ultimo posto nella scala dei valori la pace dei propri figli. Il risultato è che fu sì amato ma solo da una parte del popolo. Chi si occupa più dei figli altrui che dei propri non può fornire una buona immagine di sé. (R’ Chaiìm di Novardok)
Su alcuni giornali si è parlato di “Race to the top” - corsa all’eccellenza – E’ il nuovo programma per potenziare l’istruzione obbligatoria negli Stati Uniti e ottimizzarne il risultato. Ha un budget raddoppiato ma sorprendentemente non prevede investimenti nelle strutture scolastiche o per le metodologie didattiche innovative. Ciò perché questi fattori sono considerati accessori e non sostanziali. Un unico obiettivo: individuare i buoni insegnanti e capire come lo sono diventati per formarne altri. I migliori docenti si identificano, tramite test e valutazioni specifiche soprattutto sui risultati. Si è rilevato che essi presentano alcune caratteristiche comuni: rivedono continuamente le loro strategie, mantengono la loro concentrazione in tutto ciò che fanno per essere certi che contribuisca all’apprendimento, sono contenti di coinvolgere allievi e famiglie nel processo d’insegnamento, si pongono obiettivi alti e poi “lavorano a ritroso” a partire dal risultato che vogliono ottenere. E da noi in Italia? Attualmente i docenti non sono valutati dal Ministero e ci si basa più sul passaparola delle famiglie che su rilevazioni oggettive di cui non ci si fida. Risultato un misto bosco, soggetto al pret a parler. C’è da chiederci quindi quale sia oggi lo stato dell’arte delle nostre scuole ebraiche, e cosa fare in merito. In ogni caso noi almeno sappiamo che dovremmo sempre rispondere con più coraggio perché, come diceva Rabbì Ismael, la scuola non è un luogo in cui le risposte si vendono preconfezionate, ma dove le risposte si cercano.

Sonia
Brunetti Luzzati,
pedagogista
Sonia Brunetti Luzzati  
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  Qui Milano – Un nuovo centro sociale per la Comunità

noam“Per la Comunità, i giovani e l’educazione sono una priorità fondamentale, perché rappresentano il nostro futuro. Tuttavia vorrei ricordare anche la grave crisi economica che colpisce duramente tante nostre famiglie. Il costo dei servizi sociali è quadruplicato negli ultimi anni, e le divisioni al nostro interno acuiscono le difficoltà. Certo un centro per i giovani può essere molto importante per superare tanti problemi, e se sarà possibile ricostituirlo la Comunità farà la propria parte”. Lo ha affermato il Presidente della Comunità Ebraica di Milano Leone Sued nel corso di una serata dedicata alle strutture sociali da destinare ai giovani milanesi.
Centro sociale sì, centro sociale no. Da qualche tempo all’interno della Comunità ebraica di Milano si sta riflettendo sulle poche possibilità offerte ai giovani. Ha preso forza l’idea di aprire un centro sociale, ricordando il mitico centro Maurizio Levi, chiuso una ventina d’anni fa. Al Maurizio Levi si andava per studiare, giocare a carte, partecipare a dibattiti, ma soprattutto per fare nuove conoscenze. E sono decine le coppie che si sono incontrate lì, compresa quella della signora Miriam Hason, che ha organizzato, per discutere il tema, una serata al centro Noam, dal titolo “Dove vanno i nostri figli? Vogliamo smettere di chiedercelo e dare a tutti i ragazzi della nostra comunità la possibilità di incontrarsi?”.
Così Dolfi Diwald, che è stato per molti anni presidente e animatore del centro Levi ha ricordato come quel luogo rappresentasse un posto per tutti, e soprattutto per coloro che non erano inseriti nel contesto della comunità. “A seconda delle iniziative, venivano coinvolti giovani di diverse età, ma la domenica pomeriggio le mamme portavano lì i bambini, e i dibattiti erano frequentati da tutta la comunità, come quando venne Menachem Begin”. Il problema delle politiche per i giovani è stato analizzato anche da un’altra angolazione, quella della frammentazione della comunità milanese, che si riflette sui ragazzi specie per i due gruppi più numerosi, quello persiano e quello libanese, che tendono a chiudersi nei confronti del resto della comunità.
Rav Levi Hazan, del movimento Chabad, ha chiarito che, se le differenti tradizioni hanno sempre rappresentato un’enorme ricchezza dell’ebraismo nel mondo, “le divisioni negative ci spezzano. Per cui occorre sforzarsi di cambiare mentalità e un luogo in cui tutti possano sentirsi a proprio agio potrebbe essere di grande aiuto”. Fermamente favorevole alla creazione di un centro sociale si è detto Yoram Ortona (nell'immagine in alto a sinistra insieme alla vicepresidente Ucei Claudia De Benedetti, Tana Abeni, Simone Mortara e David Piazza), assessore alla comunicazione della Comunità di Milano e Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. “Non dobbiamo dimenticare che la realtà giovanile è molto complessa. Noi abbiamo il dovere di offrire qualcosa ai giovani, che permetta loro di confrontarsi con la società dei nostri tempi in maniera positiva. Per ottenere questo risultato servono fondi, strategie e soprattutto ascoltare e collaborare con i ragazzi stessi”.
C’è però anche chi ritiene sia più produttivo concentrarsi su quello che la Comunità di Milano già offre, guardando al bicchiere mezzo pieno. Così Claudia De Benedetti, assessore ai giovani dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane “E’ vero che ogni volta che vengo a Milano rimango colpita per le tante comunità nella comunità. Ma sono anche colpita dalla vitalità, dall’impegno, dal numero di iniziative che esistono qui. Questo è fondamentale, più che qualsiasi sede o luogo. Facciamo sentire ai nostri giovani l’appoggio e la fiducia, perché già questo consente di ottenere risultati straordinari”.

noam 2L’assessore ai giovani della Comunità di Milano David Piazza ha ricordato la creazione dell’Ufficio giovani Efes2, che negli ultimi due anni ha organizzato attività di ogni genere, dai corsi di danza e cucina, agli aperitivi dibattito. “Sui giovani, la Comunità non si è mai tirata indietro, e non lo farà nemmeno se si deciderà di puntare sulla riapertura di un centro sociale. Ma perché questa iniziativa abbia successo bisogna pensare ai contenuti. In ogni caso, per farlo occorre la collaborazione delle famiglie, non basta l’impegno della Comunità”. Già perché dal dibattito e dagli interventi di alcune madri, sembra che l’ebraismo milanese si trovi davanti a un’emergenza educativa, per cui i genitori fanno fatica a trasmettere un’identità ebraica forte ai ragazzi e allo stesso tempo sono preoccupati per la mancanza di alternative ai locali notturni della città, dove vedono i propri figli esposti a troppi pericoli, specie i più giovani. Il rabbino Simantov, responsabile del Noam avverte però che in questo senso la creazione del centro sociale non risolverà i problemi. “Se un genitore non dà ai propri figli un certo tipo di educazione, non sarà il centro sociale a colmare la lacuna. Si parla di cambiare la mentalità dei ragazzi, ma forse prima bisogna cambiare quella dei genitori”.
I giovani chiamati in causa Tana Abeni, 25 anni, vicepresidente dell’Unione giovani ebrei d’Italia e Ester Aziz, maturanda alla scuola ebraica, tuttavia mostrano di gradire l’idea di un luogo che permetta a tutti di avere una sede per tante attività diverse, organizzate o meno. Ester ha raccontato i desideri suoi e dei compagni, che si preparano a lasciare la scuola, “l’ultimo luogo per ritrovarci”. Tana Abeni che da anni si occupa di organizzare momenti di aggregazione ha preso a modello il centro comunitario di Budapest con attività rivolte a tutte le età, dai bambini agli anziani, sempre attivo, con tanto di bar e foresteria.
La notizia è che la vecchia sede del Maurizio Levi, ottocento metri quadri nel cuore di Milano, è in vendita. Chissà se sarà possibile riportarla agli antichi splendori.

Rossella Tercatin
 
 
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  Comix - Sholom Aleichem sarà un cartoon

sholom aleichem Il grande autore della letteratura yiddish è tornato ancora una volta a ispirare le nostre emozioni, i nostri sensi grazie all’intervento del New Israeli Foundation for Cinema & TV (www.nfct.org.il/siteFiles/1/74/3809.asp) che il 29 dicembre 2009 ha annunciato un progetto per trasportare su pellicola le storie e i personaggi di Aleichem (nelle immagini). E in particolare Tevye the dairyman presente nei racconti dell’autore fin dal 1854. Non è la prima volta che Aleichem è fonte di ispirazione, non bisogna dimenticare Fiddler on the Roof del 1971 del regista Norman Jewison che portò a casa 3 Oscar, tra cui miglior colonna sonora grazie a quel mostro sacro di John Williams, noto ai più per Indiana Jones e Star Wars. Mentre Topol rischiò di vincere l’Oscar come miglior attore.
Accanto al cinema israeliano però si sta affermando una scuola di animazione che ha già conquistato le sale mondiale con Waltz With Bashir di Ari Forman che ha vinto anche lui un Oscar (2008) come miglior film straniero. Così l’ipotesi è anche quella di produrre sullo stile di Forman, una serie di episodi da trasmettere in televisione con l’idea di coinvolgere non solo un piccolo gruppo di interessati, ma il maggior numero di persone dai giovani ai più anziani e saggi della società civile.

AleichemLe storie di Sholom Aleichem superano i confini geografici dei luoghi dove sono state ambientate, possono trovare alloggio in un villaggio arabo, come uno shtetl in europa dell’est che in un quartiere di Tel-Aviv e come ha sottolineato Dorit Inbar, direttore generale del New Israeli Foundation for Cinema & TV, anche in un insediamento su Marte.
Da segnalare che chiunque abbia un’idea, una ispirazione per questo progetto può proporsi, tempo fino al 2 marzo 2010, quando le prime dieci proposte che verranno scelte, potranno avere dei finanziamenti (per informazioni rivolgersi a: info@nfct.org.il).
D’altra parte la grandezza di un autore è nel superare il limite del tempo e dello spazio per raccontare in modo universale le trame della vita e degli uomini... anche su Marte un giorno potranno esserci uomini e Sholom sarà anche lì.

Andrea Grilli 
 
 
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Ci sono giorni in cui le notizie parrebbe di doverle cercare con il lumicino tanto la piattezza dell’ovvio pare avere la meglio su qualsiasi altro riscontro. Abbondano allora i rimandi alle inezie così come alle mitologizzazioni. Una di queste, in giorni di scarsità, è quella sul Mossad, il proverbiale (è proprio il caso di dirlo) servizio di sicurezza israeliano coinvonto – non è però certo la prima volta – in una connection internazionale. Ne parlano in tanti, tra i quali Loveday Morris su l’Internazionale, Francesca Marretta su Liberazione, Francesca Paci su la Stampa, Francesco Battistini per il Corriere della Sera, Alberto Stabile su Repubblica, Roberto Bongiorni su il Sole 24 Ore, Umberto De Giovannangeli su l’Unità e Michele Giorgio su il Manifesto. Il fuoco della polemica sono lo stato delle relazioni diplomatiche tra Londra e Gerusalemme, entrando in gioco l’utilizzo di passaporti falsi intestati a ignari titolari. In realtà, però, la vicenda parrebbe demandare ad un vero e proprio intrigo internazionale, degno di un film di Alfred Hitchcok. Chi ha tela da tessere tesserà ma intanto non è per nulla detto che l’immagine dell’«Istituto» israeliano ne esca ridimensionata, malgrado i toni polemici di Maurizio Matteuzzi su il Manifesto. Su un altro versante, quello della “lunga durata”, si segnalano i risultati dell’inchiesta promossa dalle Regioni italiane sul rapporto tra i giovani e il razzismo. Così Corrado Giustiniani su il Messaggero e Alessandro Armuzzi per DNews. Sono dati preoccupanti che segnalano soprattutto una robusta caduta di quegli anticorpi culturali che ci avrebbero dovuto invece aiutare a fare fronte ai tempi di mutamento che stiamo vivendo. Chi lavora nel campo della ricerca sociale non si sorprende più di tanto dinanzi a certi esiti, avendoli già anticipati con le sue analisi di tendenza. E tuttavia il riscontrare che i toni pessimistici hanno un fondamento non è mai cosa gradevole. Intendiamoci, come l’autoconsiderazione per la quale gli italiani sarebbero stati sempre «brava gente» non ha mai avuto un vero riscontro nei fatti, non di meno non può valere la lettura a rovescio, da certuni compiaciutamente diffusa in questi ultimi anni, per cui saremmo un popolo razzista. Le generalizzazioni, tanto più in campi come questo, sono sempre indebite. Rimane il fatto, tuttavia, che il confronto con le sfide della modernità ci vede culturalmente incapaci di dare ad esse nomi e sembianti che non siano quelli dell’angoscia. Da ciò alla razzizzazione il passo, purtroppo, è spesso breve. Interessante (e condivisibile per molti aspetti) la chiave di lettura del rapporto tra Israele e Berlusconi, fondato su una reciprocità forte, che ci è offerta da Segre su il Giornale. C’è un effetto di rispecchiamento tra il paese e il leader politico che va al di là di una transitoria simpatia, per corroborarsi come nesso profondo. Inutile cercare analogie – inesistenti – tra il profilo di un uomo e quello di una società nazionale. Sono due entità diverse. Piuttosto, ed è questo uno dei punti forti dell’analisi, sarebbe il bisogno di trovare nell’amicizia un legame fiduciario, che ad entrambi è sempre mancato, a costituire l’anello forte, che accomuna l’uno all’altra (e viceversa). Siamo più nel campo della psicologia della politica che non in quello della politica tout court ma è non meno vero che sia Berlusconi che Israele rappresentano, ognuno a modo suo, due “storie di successo”. Un imprenditore vivace e, a tratti, spregiudicato che spiazza i suoi interlocutori costruendo da sé la scena sulla quale giocare le sue pedine; un paese che nasce da una intenzione e da un concorso di volontà, traendo pressoché dal nulla le energie per costituirsi come soggetto collettivo in un consesso mondiale. Molto polemico è invece l’articolo di Tim McGirk su l’Internazionale riguardo al ricorso all’archeologia in Israele, vera passione nazionale, come strumento di legittimazione politica e, soprattutto, afferma il testo, di espulsione della popolazione araba gerosolomitana. La questione, in realtà, non è nuova e più che ascriverla ad un calcolo mancino fatto da certuni demanda alla irrisolta questione delle radici territoriali e di quele identitarie su di una terra che è oggetto di contesa in ogni suo centimetro. In queste circostanze, anche gli scavi archeologici non sono neutri poiché la ricerca sul passato ha un immediato riflesso sul piano del presente, ovvero sul versante dell’autoconciderazione e delle rivendicazioni. Gerusalemme è una città il cui statuto va ben oltre quello di una comune metropoli, richiamando la stratificazione e la sovrapposizione di storie e aspirazioni diverse, intrecciate tra di loro in nodi che, a volta, rischiano anche di strangolare qualcuno.

Claudio Vercelli

 
 
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Codannato a morte ex ufficiale di polizia libanese                         
Beirut, 19 feb -
Mahmud Rafee un ex ufficiale di polizia libanese, riconosciuto colpevole di aver lavorato come spia in favore di Israele e di aver partecipato all'uccisione, in un attentato, di due leader palestinesi in Libano, è stato condannato a morte dal tribunale militare di Beirut. Rafee era stato arrestato nel 2006 e aveva allora confessato di aver collaborato col "nemico" israeliano dal 1993. L'ex ufficiale delle Forze di sicurezza interna (Fsi, polizia) aveva anche ammesso di esser stato coinvolto attivamente nella preparazione dell'attentato dinamitardo compiuto nel maggio 2006 nel porto meridionale di Sidone e costato la vita a due leader della Jihad islamica in Libano, i fratelli Mahmud e Nidal Majzub. Assieme a Rafee è stato condannato a morte in contumacia un suo complice, Suleiman Khattab, che secondo al Manar, la tv del movimento sciita Hezbollah, si troverebbe attualmente in Israele. In caso di collaborazione col "nemico", la condanna alla pena di morte - il cui decreto deve però essere firmato dal presidente della Repubblica - in Libano è solitamente decisa quando l'accusato è riconosciuto colpevole di omicidio. Negli altri casi, ci si limita a condannare l'imputato all'ergastolo e ai lavori forzati.
 
 
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