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L'Unione informa |
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24 febbraio 2010 - 10 Adar 5770 |
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alef/tav |
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Adolfo Locci, rabbino capo di Padova |
“...Aharon porterà sul suo cuore, davanti al Signore, il giudizio dei figli d’Israele, sempre. ” (Shemot 28, 30).
La Torà ci dice che il pettorale con le dodici pietre, che
rappresentavano le dodici tribù d’Israele, doveva essere posto in
corrispondenza del cuore di Aharon Ha-Kohen. Tuttavia, il Rambam spiega
che il pettorale non era proprio sopra il cuore, come comunemente
ritenuto, ma in una posizione intermedia. Con questa affermazione
sembra che il Maimonide intendesse che il “Sommo Sacerdote”, la cui
occupazione e responsabilità era “l’Avodat HaShem” (il sevizio divino),
dovesse tenere sempre in giusta considerazione il problema del
conflitto tra sentimento e ragione. Il Sommo Sacerdote doveva radicare
la propria condotta sulla via della ragione piuttosto che su quella del
sentimento, capacità che, tuttavia, fu da Aharon ampiamente dimostrata.
Infatti, quando Moshè fu nominato guida del popolo d’Israele, Aharon ha
saputo accettare, con comprensione e gioia, la nomina del fratello più
giovane, dimostrando di saper far prevalere la “ragione” della volontà
divina rispetto al “sentimento” umano (invidia per la nomina del
fratello o delusione per la sua non elezione). Per questo acquistò per
sempre per se e per i suoi discendenti, a differenza di Moshè, la
corona del Sacerdozio. |
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Non si ha diritto di comandare se prima non si è imparato ad obbedire. |
Vittorio Dan Segre,
pensionato |
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davar |
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Qui Milano - I giovani e il rabbino, confronto aperto
Aperitivo
“question time” per i giovani ebrei milanesi. Al classico happy hour
con cocktail e stuzzichini in un grazioso locale del centro città, Efes
2, Ufficio giovani della Comunità ebraica di Milano, ha proposto di
ascoltare il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma su un tema
molto coinvolgente “Coppia e società ebraica. Come ogni nostra scelta
si riflette sugli altri”. Lo spazio è affollatissimo e ci si
siede un po’ dappertutto, compreso il pavimento, creando un’atmosfera
accogliente e familiare, perfetta per una discussione delicata. La
questione è spinosa perché come spiega il rav Di Segni “ha un impatto
sociale molto forte, sono situazioni in cui le scelte dei singoli non
rimangono nella sfera della propria religiosità personale, ma si
ripercuotono sull’intera comunità”. Il rav illustra il problema
demografico con cui l’ebraismo italiano è alle prese. Se nel nostro
paese la media è di 1,4 figli per donna, nelle comunità ebraiche il
dato scende a 1,2. “Nell’affrontare la questione delle conversioni
dobbiamo considerare che l’esperienza, ma anche gli studi statistici,
ci hanno dimostrato che le persone che si convertono all’ebraismo e i
figli di unioni miste, nella grande maggioranza dei casi non mantengono
una vita né un’educazione ebraica”. Il rabbino capo di Roma
parla “del miracolo dell’ebraismo, che con piccolissimi numeri è in
grado di dare vita a qualcosa di straordinario, ma non si può sempre
contare sui miracoli. Quando si pensa al matrimonio l’amore è
fondamentale, ma bisogna anche assumersi delle responsabilità”.
Le
domande del pubblico fioccano, e toccano i punti più caldi e
controversi del tema. I criteri da parte del rabbinato per accettare
una conversione si sono fatti più stringenti negli ultimi anni, e
qualcuno avanza il dubbio che pretendere oggi così tanto si stia
rivelando una politica non vincente, così come lo era fino ad alcuni
anni fa pretendere troppo poco. Viene sottolineata la contraddizione
insita nel fatto che, per convertirsi, venga richiesto un livello di
pratica delle mizvot molto più alto rispetto all’osservanza della
maggior parte dei membri delle comunità. Ci si chiede poi se per
prevenire l’allontanamento di coloro che intraprendono questo percorso
non basterebbe seguire le famiglie anche successivamente alla
conversione. “Per fare chiarezza dobbiamo uscire da una logica
provinciale del problema – ha evidenziato il rav – Tutte le comunità
ebraiche del mondo si stanno misurando con questi temi, e in Israele,
con l’Aliyah dall’Ex Unione Sovietica, questi interrogativi si pongono
in maniera drammatica”. Rav Di Segni ha specificato che l’ebraismo è
basato su una disciplina, quella della Torah. “La legge, le regole
costituiscono il cuore stesso attorno al quale la storia del popolo
ebraico pulsa. È impensabile prescindervi. Per questo, è erroneo
l’assunto che ‘un ebreo possa fare quello che vuole, mentre la persona
che si converte no’. Essere ebrei non è soltanto una condizione
esistenziale, ma anche comportamentale. Ognuno liberamente compie le
sue scelte, ma deve essere consapevole che, facendolo, viola la
disciplina cui è chiamato” aggiunge il rav. E se le regole ci sono, e
ci devono essere, il Beth Din, il tribunale rabbinico che si occupa,
tra le atre cose, delle conversioni, è formato da uomini, tiene a
sottolineare rav Di Segni, che quelle regole le applicano con la loro
umanità, e non come “un Bancomat in cui per prelevare devi inserire un
codice e basta”. D’altra parte il rabbino capo di Roma propone anche di
considerare la questione sotto un’altra prospettiva, quella delle
energie a disposizione. “I rabbini spendono moltissimo del loro tempo
per occuparsi delle conversioni, che non viene impiegato invece per
riavvicinare gli ebrei che si allontanano. Siamo sicuri che sia giusto
inseguire chi si converte per assicurarsi che osservi le mizvot, quando
non riusciamo a farlo neppure con coloro che appartengono alla nostra
comunità da sempre?” Lanciando ai presenti questo spunto di
riflessione, rav Di Segni ha lasciato il locale per il secondo impegno
della sua serata milanese, la lezione su“I misteri della Meghillà”
organizzata dal rabbinato centrale di Milano e dal progetto Kesher. I
giovani sono rimasti, chiacchierando, discutendo, bevendo qualcosa. Un
happy hour diverso dal solito, ulteriore prova della vitalità e del
fermento che pervade l’ebraismo giovanile italiano.
Rossella Tercatin
Qui Venezia - Grossman dà il via alla rassegna Incroci di Civiltà
Al
via la rassegna annuale Incroci di Civiltà, incontri internazionali di
letteratura, un festival letterario promosso dal Comune di Venezia,
assessorato alla Produzione Culturale e Università Ca’ Foscari, facoltà
di Lingue e Letterature straniere, in partnership con importanti
istituzioni culturali cittadine tra le quali l’Ateneo Veneto, la
Fondazione Querini Stampalia e il Centro veneziano di studi ebraici
internazionali. Dopo il successo della scorsa edizione, con gli
appuntamenti dedicati a scrittori come Salman Rushdie, Orhan Pamuk,
Yves Bonnefoy e Javier Marìas, Incroci di Civiltà apre con un evento
invernale in anteprima, l’incontro con David Grossman, uno dei più
rappresentativi scrittori nell’ambito della letteratura ebraica
contemporanea, sostenitore del dialogo come unica via possibile per la
risoluzione pacifica del conflitto mediorientale. Già un’ora prima
dell’evento una folla di curiosi si è raccolta davanti alle porte del
Teatro Goldoni di Venezia in attesa di poter entrare. Quando arriva
infine l’ora fatidica i posti in platea e nei quattro ordini di
palchi-galleria sono al completo per una capienza totale di quasi
ottocento persone. Subito dopo gli interventi d’apertura
dell’assessore alla produzione culturale, Luana Zanella e del magnifico
rettore dell’università Ca’Foscari di Venezia, Carlo Carraro, è entrato
l’ospite d’onore della serata, David Grossman, accompagnato sul palco
da Emanuela Trevisan Semi, docente di Lingua e Letteratura ebraica
moderna all’Università Ca’Foscari di Venezia Antonio Gnoli, giornalista
di Repubblica e scrittore a sua volta, conduttori di una conversazione
con l’autore che ha tocca i temi del conflitto, della letteratura come
filtro per interpretare la realtà e la storia, dell’essere umano e
della precarietà delle prospettive future. Un’incontro per
raccontare l’ultimo libro di Grossman, A un cerbiatto somiglia il mio
amore (Mondadori), con la lettura di un brano tratto dal libro in
ebraico, ma anche l’occasione per interrogarsi sulla natura umana, su
come si dovrebbe tentare di interpretare la realtà attraverso gli occhi
del nemico, sempre più rarefatto e poco definito. “In Israele - secondo
Grossman - è presente un sentimento diffuso d’ansia. L’ansia di non
poter avere un futuro, che Israele non riesca a sopravvivere al
conflitto e ci meravigliamo spesso di quanto in Europa si parli di
piani per il 2040, quando noi valutiamo prevalentemente ciò che avviene
nell’immediato senza la possibilità di una programmazione così a lungo
termine.”
Grossman,
incalzato dagli intervistatori in merito alla classe politica, ha
proposto una riflessione sulla classe politica odierna, così poco
propositiva e sempre più avvezza alle strumentalizzazioni: “I nostri
leader per anni hanno manipolato e strumentalizzato la nostra ansia
riguardante il futuro. Se vuoi essere eletto primo ministro in Israele,
a oggi il metodo migliore è quello di alimentare le paure diffuse tra
la popolazione. Nessun politico, eccetto forse Shimon Peres e per un
breve periodo Yitzhak Rabin, ha mai avuto una visione atta a superare
questo muro di paura e instabilità; Gershom Scholem diceva che tutto il
sangue va sulla ferita e così è anche in questo caso. Tutte le nostre
potenzialità, e sono tante, vengono impiegate per la difesa, mentre
dovremmo tutti condividere una visione di pace affinché sia data, anche
a noi israeliani, la possibilità di vivere come meritiamo, in pace”. Si
è poi parlato della Shoah, con un riferimento specifico a un altro
libro dell’autore: Vedi alla Voce Amore, una storia che analizza la
tragedia attraverso gli occhi di Momix, un bambino. Il protagonista
viene a conoscenza della Shoah attraverso i racconti dei genitori e si
immagina la bestia nazista come un mostro mitologico, abitante di un
mondo lontano nel tempo e nello spazio, Eretz Sham. Ed è proprio su
questi ultimi due concetti, lo spazio e il tempo, che si sofferma David
analizzando come gli ebrei si pongano quando si parla di Shoah e di
come l’approccio sia diversificato quando invece a farlo sono i non
ebrei: “Quando gli ebrei, che parlino ebraico, yiddish, italiano,
parlano della Shoah raccontano di ciò che è accaduto laggiù, in un
luogo ben definito. Quando invece a parlarne sono i non ebrei,
raccontano di quello che è accaduto allora, e c’è un enorme differenza
tra i due approcci. Allora, indica un fatto ben localizzato nel tempo,
ma passato, che non potrà ripresentarsi in futuro. Laggiù invece indica
che parallelamente alla nostra vita presente, in un ipotetico luogo,
persiste la possibilità che si ripresentino gli stessi presupposti del
passato. A noi ebrei il compito di vigilare affinché ciò non accada
nuovamente.”
Michael Calimani
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Diritti umani e credibilità
Se non fosse terribilmente sinistra e tragica, la prospettiva - tutt’altro che remota, come spiega Fiamma Nirenstein ne Il Giornale
del 17 febbraio - che l’Iran entri prossimamente a far parte del
Consiglio dell’ONU per i diritti umani, potrebbe apparire un buffo
refuso di stampa, un beffardo ossimoro, una facile battuta da teatro
dell’assurdo. Con la sua sistematica repressione di qualsiasi forma di
dissidenza, le reiterate condanne a morte di omosessuali e oppositori
politici, le continue impiccagioni di gruppo nelle pubbliche piazze, il
regime di Teheran potrebbe così, fra breve, trovarsi a vigilare, a
livello planetario, sul rispetto dei diritti dell’uomo e delle
minoranze, cercando - presumibilmente - di diffondere la propria
sbrigativa visione del problema. Il Paese ha posto con forza la
propria candidatura, e non sembra impossibile, al momento, che riesca a
ottenere il voto favorevole della maggioranza dei membri dell’Assemblea
generale. E ciò non sembra suscitare, nel mondo occidentale, alcun
serio allarme, né, tanto meno, una riflessione di fondo sullo stesso
significato dell’esistenza di tale Consiglio per i diritti umani: a che
dovrebbe servire tale organismo? A tutelare questi diritti, o a
schiacciarli, dovunque, ancora più sistematicamente? Per quanto
riguarda Israele, è facile prevedere che, con o senza l’Iran,
continuerà comunque a raccogliere, da parte del Consiglio, il più alto
numero di condanne per violazioni dei diritti umani, conservando un
primato che, come ricorda la Nirenstein, pare ormai spettarle di
diritto. Le Nazioni Unite continuano, infatti, a essere quelle di
sempre: quelle della risoluzione del ’77, sull’equiparazione di
sionismo e razzismo, delle Conferenze antisemite di Durban e di
Ginevra, del rapporto Goldstone, e il crescente peso, nell’Assemblea
generale, di Paesi come l’Iran, il Venezuela, la Siria o la Libia
rappresenta un chiaro segno di recrudescenza della torbida fascinazione
esercitata dall’odio contro “l’entità sionista”. E pensare che la
Dichiarazione di Indipendenza di Israele, nel 1948, menzionò per ben
cinque volte, nel proprio breve testo, le Nazioni Unite, legando
indissolubilmente i valori del nascente stato ebraico ai principi di
pace, giustizia e fratellanza scolpiti, tre anni prima, nella Carta di
San Francisco. Ma se alla Dichiarazione d’Indipendenza, pur tra mille
difficoltà, Israele, nei suoi 62 anni di vita, è sempre rimasta fedele,
quella di San Francisco è diventata, da tempo, carta straccia.
Francesco Lucrezi, storico
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rassegna stampa |
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Sui
quotidiani di oggi, in mancanza di autentiche novità, diversi argomenti
sono trattati. L’uccisione di Mahmoud al Mabhouh viene ripresa dal Foglio
in un editoriale che riporta il gran numero di incontri tra i vari
ministri degli esteri, che tuttavia non avrebbero la possibilità di
muovere apertamente accuse ad Israele. Interessante la conclusione: si
richiede sempre all’intelligence di lavorare, salvo poi pretendere le
sue scuse se ha lavorato. Simile la posizione del Wall Street Journal,
che reclama il diritto per Israele di difendersi, come aveva fatto, ad
esempio, al momento del dirottamento dell’aereo pieno di ebrei in
Uganda. Le potenze occidentali sono solitamente pronte ad accusare
Israele per le sue azioni, ma col tempo ne imparano i metodi e li
imitano (o almeno tentano di imitarli). Il governo Netanyahu vuole
annettere al patrimonio dello Stato ebraico le Tombe di Rachele a
Betlemme e dei Patriarchi a Hebron; questo suscita prime iniziative che
rischiano di diventare violente, con i viaggi di Abu Mazen a Bruxelles,
e, a seguire nei prossimi giorni, dei capi di Hamas; ne parla una breve
su Avvenire. Il Giornale,
parlando delle ultime dichiarazioni di Ahmadinejad, accenna al nuovo
super drone israeliano che preoccupa le autorità iraniane: sarebbe in
grado di volare con il suo micidiale carico di missili per 24 ore a
12000 metri, invisibile ai radar. Anche sul Corriere
Cecilia Zecchinelli riprende le pesanti accuse di Ahmadinejad (Italia
sotto le pressioni asfissianti di USA e Israele), e scrive che l’Iran
pretende che le sue attività nucleari avverrebbero tutte sotto la
costante sorveglianza degli ispettori internazionali. Nello stesso
articolo viene ripresa la notizia del dirottamento compiuto dagli
iraniani di un aereo in volo da Kirgizistan a Dubai per poter catturare
un “terrorista” amico dell’occidente, responsabile di un attentato con
41 morti, tra i quali 15 Pasdaran. Su Avvenire
Salvatore Mazza presenta il ”Manuale” messo a punto dal ministro
Frattini per trovare una linea comune tra i paesi UE per difendere i
diritti dei cristiani in giro per il mondo; secondo una strana
classifica pubblicata dal World Watch List si apprende che la Corea del
Nord sarebbe in prima posizione seguita dai paesi islamici, e tuttavia
questi sarebbero “ben distaccati”. Davvero strana questa classifica.
Frattini aggiunge di non voler isolare quei paesi coi quali abbiamo
rapporti politici importanti. Verrebbe da chiedergli: agli amici non si
dovrebbe parlar chiaro? Si accenna anche ad un’eventuale conferenza da
convocarsi presto che sarebbe dedicata solo ai cristiani (e tutte le
altre minoranze minacciate?); vedremo che cosa ci porterà il futuro.
Sullo stesso Avvenire altri articoli presentano i nuovi morti cristiani
a Mosul, in Iraq (5 vittime in una settimana), e l’appello dei vescovi
indiani per la pace dopo l’arresto di 25 cristiani. Intanto alla UE vi
sono stati 2 pronunciamenti sulla libertà religiosa (ma quando poi si
discute di Islam, alla UE si dimenticano tutte le realtà scomode).
Cesare De Carlo sulla Nazione, Resto del Carlino,
descrive la politica di Obama che in Iran sembra seguire la politica
fallimentare di Carter, anziché seguire i metodi di Reagan che,
appoggiando il movimento di Walesa, ottenne grandi risultati. Liberal
pubblica un’intervista fatta da Pierre Chiartano dalla quale appare
quanto la Turchia avrebbe bisogno dell’Europa per continuare lungo la
sua strada; sembrerebbe tuttavia che si pensi piuttosto alla realtà di
Istanbul e non anche a quella di tutta la vasta regione dell’Anatolia
dove la situazione è ben diversa. Italia Oggi
presenta il progetto di costruire una nuova città palestinese nei
Territori che dovrebbe alloggiare 40 mila abitanti; se nel testo si
parla della difficoltà di trovare i proprietari dei terreni sparsi nei
5 continenti e dell’atteggiamento non del tutto favorevole
dell’Autorità palestinese, ci si chiede il perché delle ultime parole:
“prima bisogna aggirare gli ostacoli posti dagli israeliani”. La
spiegazione sta forse nel fatto che, ad una lettura rapida e distratta
bisogna rispondere con titolo e finale ad effetto. Sul Riformista
Virginia Di Marco descrive la situazione di Hebron dove pochi ebrei
religiosi vivono circondati e minacciati da una maggioranza araba. Non
una parola viene spesa per ricordare che gli ebrei vivono da migliaia
di anni a Hebron con un’unica eccezione: dopo il 1929, quando in un
pogrom vennero tutti massacrati. Ma se Hebron è sempre stata anche una
città ebraica, perché biasimare coloro che vogliono mantenere una
presenza ebraica in città? Sul Sole 24 Ore
vengono presentati i risultati di una nuova collaborazione tra aziende
del Lazio e di Israele, in particolare nel settore dell’Hi Tech, delle
energie rinnovabili e della gestione dei rifiuti. Dal canto suo invece l’Unità
riprende la situazione di un migliaio di aziende italiane che stanno
lavorando con l’Iran, e sarebbero danneggiate da un eventuale
boicottaggio; si ricordano anche gli imponenti crediti delle banche
italiane nei confronti delle banche pubbliche iraniane. Sempre in tema
di economia, su Le Monde,
in un articolo dal titolo: Israele Palestina, si parla dei progressi
della Cisgiordania, ma si fa osservare che, nel tentativo di discutere
anche con Hamas, destinato a non sparire dalla realtà politica, gli USA
utilizzano il regime siriano. Sul Corriere
Mario Sznajder riprende dal Mulino un’intervista al professor
Sternhall, dell’Università di Gerusalemme, che critica i fondatori e
abitanti dei kibbutzim che non riuscirono a mantenere un giusto
equilibrio tra nazionalismo e socialismo. Sembrerebbe quasi che non
abbia conosciuto questi pionieri, magari parlando e vivendo con loro. O
forse è solo la passione politica che gli fa pronunciare simili parole.
Tutto sarebbe stato giusto fino al '49, tutto sbagliato dopo il '67. E
reclama due Paesi per due popoli: ma ha letto lo Statuto di Hamas e le
parole dei “moderati” capi di Fatah? Verrebbe da chiedergli come possa
poi giustificare quanto afferma. Su Libero
Roberto Festorazzi racconta la storia del Giusto dottor Salemi che,
sfruttando la sua carica pubblica, riuscì a salvare tanti ebrei
perseguitati. Dopo la fine del regime, tuttavia, dal suo ufficio scoprì
tante verità scomode dei partigiani comunisti, e finì ammazzato nel '46
da una “pistola silenziosa”. Delitto per il quale venne condannato un
povero malato di mente, mentre i probabili veri colpevoli vennero
assolti. La moglie e i figli trovarono la solidarietà dello Stato solo
molti anni dopo, quando oramai non era più di nessun aiuto. Su Liberazione
Maria Grazia Meriggi scrive un articolo su xenofobia ed antisemitismo:
è scritto con un’ottica di parte, senza approfondimenti ed
attualizzazioni dell’antisemitismo; ma serve per scrivere che Israele
ha oggi “il peggior governo di destra”. Infine Libero e il Secolo
riprendono la delibere del comune di Goito dove si confermano i
fondamenti educativi cristiani negli asili locali. La realtà, nel suo
insieme, non appare del tutto chiara dalla lettura dei quotidiani per
una questione già approdata in Parlamento.
Emanuel Segre Amar |
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notizieflash |
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Finanziamenti per la conservazione del campo di Auschwitz Vienna, 23 feb - Le autorità polacche ambiscono a costituire un fondo internazionale di 120 milioni di euro
per la tutela e la conservazione del campo di sterminio di
Auschwitz-Birkenau. Il governo austriaco ha accolto subito la proposta
e ha sbloccato fondi per 6 milioni di euro da destinare al restauro del
sito. "Questa è la cifra rispetto alla quale l'Austria intende
impegnarsi", ha dichiarato il ministro delle Finanze Josef Proll,
precisando che il suo Paese contribuirà in misura proporzionale alle
sue dimensioni così come la Germania che ha promesso 60 milioni di euro.
Ashton in Israele su invito di Lieberman Bruxelles, 24 feb - Avigdor
Lieberman ha invitato l'alto rappresentante della politica estera della
Ue Catherine Ashton in Israele. Ashton giungerà nello Stato
israeliano il 17 marzo. L'incontro, precisa una nota della
rappresentanza di Israele presso Bruxelles, sarà dedicato
principalmente al proseguimento della discussione sul rafforzamento
delle relazioni fra Unione europea e Israele. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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