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L'Unione informa
 
    7 marzo 2010 - 21 Adar 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  benedetto carucci viterbi Benedetto
Carucci Viterbi,

rabbino
La punizione per il vitello d'oro è "spalmata" su tutte le altre punizioni della storia: così suggerisce il Talmud commentando l'espressione "e nel giorno in cui li punirò, mi ricorderò della loro colpa" (Esodo 32, 34). Per ogni trasgressione, dunque, il popolo di Israele paga anche un po' del debito contratto con il vitello: trasgredire contiene evidentemente sempre una componente di idolatria. 
“I depositari della autorità sono così ben disposti a risparmiarci ogni tipo di pena, eccetto quelle di obbedire e pagare. Ci diranno ‘qual è in fondo lo scopo di tutti i vostri sforzi, il motivo del vostro lavorio, l’oggetto delle vostre speranze? Non è forse la felicità? Ebbene, lasciate fare a noi, e questa felicità ve la procureremo!’ No, Signori, non lasciamoli fare. Per quanto allettante sia un così premuroso interessamento, preghiamo l’autorità di restare entro i suoi limiti. Che si preoccupi soltanto di essere giusta, cercheremo da noi di essere felici”. Benjamin Constant, “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”, febbraio 1819. Si può dire meglio?  David
Bidussa,

storico sociale delle idee
bidussa  
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  Corsi di ebraico per gli universitari egiziani 

alfabeto Sono otto le università egiziane che nel presente anno accademico hanno attivato un corso di insegnamento di lingua ebraica.
Fa specie che nel paese di Nasser sia tanto comune l'apprendimento della lingua del nemico, Israele. Eppure oltre 2000 studenti, ogni anno, imparano l'ebraico. “È la lingua del futuro, dicono. Non si può ignorarla”. Certo non è facile per un giovane, nella società egiziana, giustificare la propria decisione d'imparare l'ebraico. Emblematico il caso di Ahmed, figlio di un generale egiziano nella seconda metà degli anni '60. “Perché vuoi parlare con quelli che cercavano di uccidermi?”, gli ha chiesto suo padre. “Che rapporti vuoi avere con i nostri nemici?”.
Nemico, Israele è percepito ancora così dalla popolazione egiziana, ovviamente in modo proporzionale all'età. Tra i più vecchi quasi tutti possono vantare un caro ucciso dall'“esercito sionista”. La normalizzazione delle relazioni politiche e culturali con lo Stato ebraico è ancora un tabù.
Cosa può rispondere Ahmed a suo padre? “Io sono giovane, non ho mai conosciuto la guerra con Israele. So solo che noi egiziani intratteniamo relazioni economiche reciprocamente fruttuose con Israele, che gli scambi tra i nostri paesi sono anche culturali, che politicamente parlando mi sembra, per l'Egitto, molto più minaccioso l'Iran che Israele”. Sono dunque i giovani gli incaricati di superare le reticenze e le diffidenze così diffuse nelle generazioni che li hanno preceduti. Ma questo “vale da entrambi i lati del Sinai”, dice Ahmed. Ahmed lavora in un call-center del gigante informatico americano Xceed. Dal suo ufficio del Cairo riceve telefonate da Gerusalemme, Tel Aviv, Ashqelon, Beer Sheva.... Israeliani con problemi tecnici al computer. Il suo ebraico ormai è tanto fluente da ingannare i madrelingua, ma quando capita che venga fuori che è egiziano, dal capo israeliano del filo del telefono o c'è incredulità: “Ma come, hai imparato l'ebraico al Cairo?”; oppure si erge un vero e proprio muro di diffidenza nei confronti di Ahmed. “Non vogliono parlare con un egiziano -spiega- "inoltre devo farmi chiamare Adam: per molti Ahmed è quasi sinonimo di bombarolo”.
Allora, forse, è davvero la generazione post muro di Berlino quella incaricata di abbattere vecchie, anacronistiche barriere, di cui neanche comprende più il senso. In Europa come in Medioriente. Quella generazione di egiziani che dice: “l'ebraico è la lingua del futuro”. Una generazione che ha avuto la fortuna di non conoscere le guerre dei suoi padri, che, priva di preconcetti, può valutare quanto la conoscenza dell'ebraico (una lingua come un'altra, non quella del diavolo), sia merce preziosa sul mercato del lavoro egiziano. Nel call center di Ahmed, per esempio, è fondamentale. Ma poi nel settore del turismo, ché gli israeliani viaggiano molto. Al Ministero degli Affari esteri, dell'informazione. Nel mondo della radiotelevisione e della stampa. Nella produzione agricola, perfino, poiché la tecniche d'avanguardia sono importate da Israele.
Una buona conoscenza dell'ebraico, al Cairo, vuol dire un buon posto di lavoro assicurato. E in tempi di crisi, i giovani lo sanno, non è il caso di fare gli schizzinosi.

Manuel Disegni


Qui Milano - “L’Ebreo. Da Shylock all’'11 settembre,
antisemiti si nasce o si diventa?”


shylockL'ebreo. Da Shylock all'11 settembre, antisemiti si nasce o si diventa? Questo è il titolo del secondo atto del ciclo di conferenze “Ebraismo e Modernità”, che il Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane insieme alla Comunità Ebraica di Milano e il Teatro Franco Parenti, metterà in scena  questa sera, alle 20.30, questa volta sotto forma di Theatre Talk, un vero e proprio talk show teatrale. Così lo ha voluto chiamare David Parenzo, conduttore e artefice della serata: si tratterà infatti di uno spettacolo con contaminazioni televisive, interviste video registrate - come a Gian Antonio Stella e Gianni Vattimo - filmati, ospiti - come Giulio Giorello - e commenti dal pubblico, performance - come il monologo di Shylock, tratto da “Il mercante di Venezia”, dissacrante compendio del pregiudizio antisemita, scaturito dal genio di William Shakespeare - e sondaggi, che si succederanno in maniera dinamica, provocatoria ma anche risolutiva, lasciando al pubblico un ricco materiale su cui riflettere. Tema di discussione sarà quindi l’'antisemitismo, caso esemplare dell’'ideologia razzista: esiste oggi l’antisemitismo? Come sono percepiti gli ebrei? E in che modo si forma questa percezione? Su quali basi e su quale immaginario? In cosa consiste il “complotto”? Come nascono i pregiudizi e quelle costruzioni sociali che finiscono per “fare” storia? 
 
 
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  A Mon Dragone c'è il diavolo, il nuovo libro di Giona Nazzaro:
superstizione e credenze popolari nel sud d'Italia

a mondragone c'è il diavoloE' uscita il 3 marzo la raccolta di racconti intitolata
A Mon Dragone c’è il diavolo di Giona Nazzaro (Perdisa Editore). L’autore del volume è giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collabora con numerose testate, tra le quali Pagine Ebraiche ed è autore di diversi saggi sul cinema e di studi dedicati a Gus Van Sant, John Woo, Spike Lee, Abel Ferrara e al cinema di Hong Kong.
Qual è il tema che fa da filo conduttore ai nove racconti raccolti in questo volume?
La raccolta nasce come tentativo di raccontare un luogo che sia genericamente il Sud Italia, partendo da una realtà ben specifica che ho vissuto e conosciuto come quella indicata nel titolo con un lieve errore di digitazione. Nel momento in cui scrivo non descrivo più solo quella realtà specifica, ma una realtà più ampia che conserva però le tracce della matrice originaria.
Nel tuo libro viene presentato un mondo cattolico che fonda le sue radici sulla superstizione e sulle credenze popolari. Ad oggi quelle credenze sono ancora una realtà consolidata?
Il diavolo esiste là dove viene evocato, un discorso estensibile a molti ambiti del nostro vivere comune. Il cattolicesimo a cui faccio riferimento nei racconti, è una componente ad oggi minoritaria, un cattolicesimo che al sud era profondamente reazionario, ancorato alle tradizioni più oscure della vita contadina tanto da poter essere definito quasi pagano e lontano dalle aperture del cattolicesimo nel nord Italia.
Secondo lei è cambiato qualcosa nel passaggio dalle campagne alle città moderne?
Le cose non cambiano, quel tipo di cattolicesimo alimentato dal clero a quel tempo era un sistema di controllo piuttosto articolato. Un certo tipo di cattolicesimo volutamente chiuso al dialogo, conservatore, continua a esistere a prescindere dal contesto in cui si trova a vivere. Soprattutto nei paesini più sperduti del nostro meridione continua a esistere. Nelle città oggi purtroppo ci dobbiamo confrontare con l’incubo di Pasolini portato all’ennesima potenza. Difficile capire se sia meglio un mondo contadino nel quale si è circondati da angeli e demoni o un mondo cittadino in cui l’anomia regna sovrana e non ci sono neppure le superstizioni a cui aggrapparsi per uno straccio d’identità.
Nella società italiana sebbene non sia così presente la superstizione, permane similmente una forma irrazionale di pregiudizio verso l’altro. Cosa ne pensa a riguardo ?
Questo è un tema che mi sta molto a cuore, ho tentato di affrontarlo con pudore in alcuni racconti presenti in questa raccolta. Uno degli elementi che torna sempre è il dentro e il fuori, il dentro della realtà in cui si svolge il racconto, il fuori come una possibilità che c’è, ma che non viene colta. Quello che ho notato vivendo al sud, per quanto non possa parlare di tutto il sud, ma esclusivamente della mia limitata esperienza, è la presenza di un timore di contaminazione, che si riflette anche al nord. L’andare incontro all’altro per mettersi in discussione e poter condividere i propri incubi. Un esempio lampante è rappresentato dalle cosiddette cacce all’immigrato che continuano ad alimentare il mancato processo di integrazione nella nostra società.
Crede che anche nel cinema italiano ci sia una certa cultura del provincialismo? In cosa pecca il cinema italiano?
Pur essendo un sostenitore dell’indipendenza del cinema da qualunque tipo di contenutismo, ciò che manca al cinema italiano al di là del fatto che strutturalmente soffriamo di un distaccamento abissale dal punto di vista culturale, finanziario, produttivo e immaginario dal resto del cinema europeo e americano, è che il cinema italiano non è più in grado di raccontare la nostra società. Dagli anni ’50 fino agli anni ’70 la società italiana veniva raccontata attraverso una serie di macrocategorie che si offrivano come uno spettro ampio di possibilità atte a raccontare la realtà. Con l’introduzione e la diffusione capillare dei sistemi di comunicazione di massa è come se avessimo appiattito tutte le potenzialità della lingua italiana in favore della funzione unica della comunicazione, di fatto impoverendo la lingua. Tutto ciò coincide con una impressionante paralisi, intellettuale, linguistica, politica e culturale: abbiamo quasi tutto e non siamo mai stati più poveri. A questo riguardo nel mio libro non c’è il rimpianto di una società chiusa a tratti barbara e crudele, ma la constatazione che quella società lì avesse una possibilità in più di potersi emancipare da se stessa. Il nostro processo di emancipazione è molto più accidentato e il cinema in queste condizioni non può vivere.
All’ultima mostra del cinema di Venezia abbiamo potuto vedere il film di Giuseppe Tornatore, Baaria. Una pellicola che racconta in modo magistrale uno dei tanti riflessi della realtà nel Sud Italia. Esistono quindi produzioni di un certo rilievo in Italia?
Tornatore è uno dei pochi che oggi si ricorda come si faceva cinema. Un’arte che si ricollega ad una precisa corrente ideologica del cinema italiano tentando di aggiornarla al nostro tempo. In Italia sono rimasti veramente in pochi. Oltre a Tornatore è da ricordare Avati, l’altro grande nome è Bellocchio che tiene da solo in piedi la tradizione del modernismo cinematografico italiano. Esiste poi, seppur in forme minoritarie, un cinema che continua a raccontare la società, un cinema prettamente documentario, fuori dai canali convenzionali di produzione, che non si vede nelle sale e che non viene acquistato dalle tv satellitari. Una realtà combattiva e motivata che purtroppo non può definirsi cinema italiano, poiché il cinema è una lingua collettiva in cui ci si ritrovano tutti.
Che cosa troviamo di così innovativo nel cinema del resto d’Europa?
Prendiamo ad esempio il film Il Profeta di Jacques Audiard. Si dovrebbe guardarlo per riuscire a capire come la Francia lavori a tal punto sui temi dell’immigrazione, dell’illegalità e del lavoro nero, da riuscire a produrre un film popolato principalmente da attori di origine araba. Un elemento che da il polso di una società capace di mettersi in discussione e di creare ulteriori possibilità d’integrazione. In Italia non abbiamo ancora uno star system di attori non italiani e i pochi attori esistenti rappresentano solo una quota etnica in nome del politicamente corretto.
Come giudica la presa di coscienza del cinema israeliano negli ultimi anni?
Avendo avuto modo di frequentare il mondo dei festival cinematografici, ho potuto constatare che il cinema israeliano, più quello documentario rispetto a quello di finzione, offra un quadro fortissimo di quello che è l’anima di un dissenso politico articolato e creativo. Un cinema coraggioso che non ha paura di essere frainteso né in casa né fuori e che si afferma in virtù di questa forza. Le produzioni israeliane mostrano come nonostante tutto funzioni una democrazia, per quanto problematica essa sia. C’è una forma di pigrizia intellettuale che è deplorevole. Che tipo di pensiero è quello che schiaccia l’individuo sulle posizioni espresse dal resto del paese? Non si può fare un’operazione di semplificazione così drammatica delle complessità in campo. In Israele le contraddizioni irrisolte della questione palestinese servono sovente per giustificare dei cortocircuiti intellettuali atti a sviscerare pregiudizi sopiti. Ci sono persone che rischiano di essere isolate nel loro paese e fuori, all’esterno poiché israeliane e all’interno per il loro dissenso  rispetto alla politica del loro governo. Il movimento di dissenso che c’è in Israele è come se rilanciasse in maniera estrema quella cultura del dubbio, della laicità, del pluralismo e dell’indagine intellettuale che da sempre è parte integrante del pensiero ebraico.

Michael Calimani
 
 
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Malafede dei professori anti-Israele

La apartheid week contro Israele che si sta concludendo in troppi campus in giro per il mondo, comprese, che peccato, le università di Firenze, Pisa, Milano (mentre la Sapienza di Roma con un bel colpo di reni ha siglato un accordo con l'Università di   Tel Aviv), è uno degli eventi più intellettualmente ripugnanti mai concepiti. E' il sesto anno che professori e allievi estremisti mobilitano gli atenei sul tema «Israele stato di apartheid»: non sono tanti, ma l'impatto delle campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israle sono come il suono del campanello per ll cane di Pavlov, e la risposta allo stimolo è la criminalizzazione e la delegittimazione dello Stato ebraico. Così come il mondo distrusse l'indegno regime sudafricano di apartheid, suggerisce la settimana, altrettanto deve fare con Israele. Uno Stato accusato di discriminare per motivo etnico, razziale, rellgioso i suoi cittadini deve sparire, pensa il mondo attuale. E la «settimana» non ha nel mirino ll razzismo nei suoi tanti aspetti e latitudini: è uno Stato nella sua specificità che è preso di mira, e il velenoso paragone con il Sudafrica dell'apartheid, sparito per la pressione internazionale, suggerisce l'indegnità di Israele ad esistere. Questa costruzione è basata su due colonne: su una bufala, ovvero una serqua di bugie, e sulla disinformazione veterocomunista già affondata dalla storia. La bufala sta nel paragone con Pretoria: «Sotto la sezione 37 della spiaggia di Durban questa zona balneare è riservata ai soli membri del gruppo della razza bianca». Così si legge in inglese e in afrikaner su un cartello del tempo dell'apartheid posto su una spiaggia. Cartelli analoghi erano ovunque e diffidavano i neri, i«coloured» e anche gli asiatici da sedersi con i bianchi agli eventi sportivi, sugli autobus, sui treni, a usare le stesse toilette e gli stessi ristoranti, per non parlare degli ospedali e delle scuole. Le Chiese erano multirazziali. Molti altri cartelli con il teschio minacciavano di morte i neri che varcassero determinate barriere. Era impensabile che i bianchi e i neri condividessero le istituzioni. Tutto il contrario in Israele: ogni e qualsiasi istituzione è multietnica e multi religiosa, le teorie e le discriminazioni razziste sono proibite per legge negli ospedali le donne arabe e le ebree partoriscono letto a letto, curate da personale arabo ed ebreo; da tutto il mondo arabo vengono bambini e pazienti in genere a farsi curare, accolti amorevolmente; all'università gli studenti arabi e ebrei studiano insieme e anche professori arabi, talora molto aggressivi verso il sionismo, insegnano con gli ebrei e agli ebrei mentre sono tradotti libri arabi di ogni tipo; alla Knesset, Il Parlamento israeliano, e al governo siedono cittadini arabi che levan (sempre!) il loro dissenso, senza temere, unici arabi in medio oriente; che qualcuno li aspetti sotto casa per punirli. ll Bagaz, l'Alta Corte, è una sponda totalmente affidabile per tutti: ha appena legiferato che la strada 443, lungo la quale sono avvenuti attacchi contro automobili di ebrei, dopo una chiusura di sicurezza temporanea, venga ora riaperta per motivi di eguaglianza di fronte alla legge, a tutti i veicoli anche se il prezzo può essere la vita di famiglie solo ebree. Qualsiasi arabo, ma anche un ebreo etìope, troverà giustizia di fronte alle discriminazioni razziali se si rivolgerà all'autorità israeliana, perché la legge proibisce la discriminazione. Quelli che proclamano la settimana dell'apartheid sono in totale malafede. Quando citano il «Muro», che poi è un recinto, sanno benissimo che quella barriera ha fatto diminuire il terrorismo del 98 per cento; sanno che le difficoltà di movimento non hanno a che fare con pregiudizi  razziali, ma con evidenti motivi di sicurezza. Sanno anche che invece cristiani ed ebrei nel mondo arabo, ma non soltanto, anche le donne e gli omosessuali, sono segregati e perseguitati a morte per motivi ideologici. E adesso un briciolo di storia: l'accusa di apartheid affonda nel totalitarismo comunista. Lo storico Robert Wistrich dimostra nel suo «A lethal obsession» che dopo la guerra dei Sei giorni Mosca decise che assimilare Gerusalemme a Pretoria avrebbe distrutto la fama liberale di lsraele presso i Paesi occidentali e anche gli Stati africani che avevano fiducia in Israele. I trotzkisti (fra loro, ohimè, parecchi ebrei) divennero fra i più ferventi propagatori della mitologia sionismo eguale razzismo, che poi si trasformò in una risoluzione delle Nazioni Unite. In una parola, trasformare il sionismo in un'ideologia disumana conquistando a questo scopo gli intellettuali (il generale Jap lo suggerì personalmente a Yasser Arafat) era la strada per convincere che un Paese nato su tali disgustose premesse non può che essere smantellato. Anche la violenza terrorista, dunque, può, deve essere perdonata. E siamo sicurissimi che i generosi professori e studenti promotori della settimana dell'apartheid la perdonano, e del colpo alla nuca in Cina, dello sterminio-in Sudan, degli impiccati in Iran, delle donne segregate In tanti Paesi islamici, se ne impipano. Però sono contro l'apartheid in Israele. Che non esiste. 

Fiamma Nirenstein, Il Giornale, 7 marzo 2010

 
 
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notizieflash    
 
 
George Mitchell in Israele, nuovi negoziati Israele-Anp                
Tel Aviv, 6 mar -
L'emissario del presidente Barack Obama per il Medio oriente, George Mitchell, è giunto in Israele dove ha iniziato una nuova spola israelo-palestinese con un colloquio a Tel Aviv con il ministro della difesa Ehud Barak. Tema dell'incontro, a quanto pare, un prossimo annuncio relativo all'avvio di negoziati indiretti ('proximity talks') fra Israele e l'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Mitchell sarà ricevuto a Gerusalemme dal primo ministro Benyamin Netanyahu. L'annuncio ufficiale della ripresa dei negoziati fra Israele e Anp potrebbe giungere nei prossimi giorni, con l'arrivo nella zona del vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden.
 
 
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