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    15 marzo 2010 - 29 Adar 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Domani inizia il mese di Nisan. Tra poco arriva Pesach. Sono stato intervistato l'altro giorno alla radio insieme ad un antropologo e un sacerdote cattolico, per parlare della Pasqua (o delle Pasque). La domanda insistente era: "Pasqua come festa della pace". E' un segno della marmellata ecumenica-mediatica-politically correct che ci viene servita ogni giorno acriticamente. Tutti buoni, tutti fratelli, tutti pacifisti e così via. Ho cercato di spiegare che Pesach non è la festa della pace, ma la festa della libertà, l'intervento divino nella storia per liberare un popolo dall'oppressione di un altro popolo. Messaggio non di poco conto in questi tempi, che viene evitato però accuratamente parlando di "pace". Il brano che abbiamo letto solennemente questo Shabat con la lettura della parashat haChodesh, Esodo 12 non è un messaggio di pace, è un manifesto di liberazione.
Capita di imbattersi, del tutto casualmente, in un testo di sapore profetico, in cui una vivida illuminazione si spalanca sul futuro, riempiendo di spavento e stupore chi, come noi, quel futuro ben lo conosce. Così leggendo un testo del giugno
1933, cioè cinque mesi dopo la presa del potere di Hitler, pubblicato sull'inglese Quarterly Review da  Israel Cohen, e tradotto nello stesso anno dalla nostra Rassegna Mensile di Israel: "La  persecuzione degli ebrei” - scriveva Cohen - “è il tratto principale che distingue questa rivoluzione da tutte le altre rivoluzioni dei tempi moderni, perché, mentre tutte le altre rivoluzioni sono state prodotte da forze politiche o economiche, la sollevazione nazional-socialista è stata pure accesa e dominata da principio alla fine dall’'odio di razza".” E ancora, "Se si dimostrerà impossibile per la Lega delle Nazioni, per ragioni di tecnica o di tattica, compiere la liberazione degli Ebrei di Germania... la sua inerzia o la sua passività significheranno la rovina dei principi fondamentali sui quali essa fu edificata e il fallimento indecoroso della civiltà moderna"”.
Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Qui Venezia - In Memory's Kitchen, vecchi sapori di cucina ebraica
nel ricettario della Memoria delle donne di Terezin

Memory's KitchenPer un gruppo di donne internate nel campo di Terezin, la cucina non era solo un argomento di conversazione. Esse riuscirono a scrivere un libro di ricette nonostante gli stenti, sapendo di non poter mai più preparare i piatti che così minuziosamente descrivevano. Quello che ne esce rappresenta un elemento quasi unico nella letteratura sulla Shoah, un libro di ricette sognate, immaginate: un ricettario della memoria.
Di questo parla il libro In Memory’s Kitchen, caso letterario dell’anno per il New York Times, presentato l'altra sera dall’autrice Cara de Silva e introdotto da Shaul Bassi, professore di Lingua e Letteratura Inglese all'Università di Ca' Foscari, in collaborazione con Il Museo ebraico di Venezia, il Centro veneziano di studi ebraici internazionali, la Biblioteca Renato Maestro, il Centro interdipartimentale di studi balcanici e il Centro studi e documentazione della cultura armena.
Cara de Silva è una scrittrice e una giornalista pluripremiata. Per dieci anni ha scritto per il New York Newsday, uno dei giornali più diffusi negli Stati Uniti, con una rubrica dedicata alla gastronomia newyorkese. Oltre a In Memory’s Kitchen è stata autrice e coautrice di una serie di saggi apparsi in pubblicazioni dai nomi piuttosto accattivanti come Gastropolis: Food and New York City, Food and Judaism, A Slice of Life: Contemporary Writers on Food. Cara ha inoltre collaborato con giornali e riviste come il New York Times, il Washington Post, il Los Angeles Times Syndicate, Food & Wine, Eating Well, Martha Stewart Living, Cuisine.
La vicenda ha inizio 25 anni dopo la morte a Terezin di Mina Pächter, una delle autrici del ricettario, quando uno sconosciuto contattò telefonicamente la figlia, Anny Stern e le comunicò di avere un pacchetto per lei da parte di sua madre. Per più di dieci anni Anny non aprì il pacchetto, per lei rappresentava qualcosa di sacro, un ultimo ricordo della madre. Ebbe poi il coraggio di farlo visionare a una collezionista di libri di cucina, che subito si rese conto del valore intrinseco del manoscritto. Si misero quindi in contatto con una traduttrice, Bianca Steiner Brown, sopravvissuta del campo di Terezin, per poi arrivare alla giornalista Cara de Silva che decise di raccontare la storia di questo ricettario.
“Quando vidi per la prima volta il manoscritto – spiega Cara de Silva – scritto con calligrafie diverse, tremolanti, non mi resi subito conto che, al pari del diario di Anna Frank, queste ricette erano un documento altrettanto commovente e importante. Non sono solo ricette, ma sono autobiografie di persone. Ogni ricetta ha una storia da raccontare, nuovi elementi sulla vita a Terezin.”
Terezin era una città fortezza, costruita dall’imperatore d’Austria Giuseppe II alla fine del ‘700. Sotto il Terzo Reich divenne però un luogo di morte. La Gestapo utilizzò Terezin, più conosciuta con il nome tedesco di Theresienstadt, come campo di concentramento. Circa 144 mila ebrei furono imprigionati qui (tra questi 15 mila bambini), dei quali 33 mila morirono, a causa della fame, delle malattie e del sovrappopolamento. Terezin infatti era stata inizialmente progettata per ospitare circa 7 mila persone e arrivò ad ospitarne invece più di 90 mila. Si viveva cibandosi di rifiuti e più di cento persone al giorno morivano di stenti: i cadaveri sparsi ovunque per le strade della città destinata da Hitler agli ebrei, una città scenario principe della bieca propaganda nazista che dissimulò la vita del campo in favore di una realtà edulcorata da poter esibire in occasione della visita di alcuni osservatori della croce rossa.
Attraverso la vitalità del ricordo prende corpo una lotta contro l’oblio, il tentativo di lasciare non solo un segno di sé, ma il ricordo di un’intera tradizione. Le persone che hanno scritto le ricette contenute in questo libro non erano di certo le uniche che hanno tentato di preservare le proprie tradizioni, ma rispetto ad altri libri di questo genere Memory’s Kitchen ha permesso ai lettori di avvicinarsi al tema della Shoah da una prospettiva più intima, più a misura d’uomo.
“Il cibo - secondo l’autrice - quando si unisce al ricordo riesce a superare qualsiasi confine, diventa un linguaggio universale che tutti riusciamo a comprendere e ad assimilare”.
Per sopravvivere in quelle condizioni la fantasia era un elemento essenziale e Mina Pächter insieme alle sue compagnie di prigionia cercarono di rendere più vivido il ricordo di un mondo al quale volevano disperatamente tornare attraverso le ricette della tradizione ebraica. Ciò dimostra quale sia il potere del cibo come metafora di vita, come tratto identitario di un popolo, una forma di resistenza psicologica contro chi, in questo caso, cerca il tuo annientamento.

Michael Calimani 
 
 
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  Wittgenstein, l’umorismo e la democrazia in pericolo

Donatella Di CesareRiflettendo nel 1948 sul nazismo Ludwig Wittgenstein ha scritto: “L’umorismo non è una disposizione dell’animo, bensì una visione del mondo. Perciò, se è giusto dire che nella Germania nazista l’umorismo era stato estirpato, ciò non significa che la gente non fosse di buon umore, ma qualcosa di molto più profondo e importante”.
Di che cosa si tratta? Wittgenstein lo spiega così: “è come se tra certe persone ci fosse l’uso di gettarsi la palla; uno la getta, l’altro la raccoglie e la rimanda. Ma ci sono alcuni che non la rimandano e invece se la mettono in tasca”.
Dove l’umorismo è bandito, dove c’è qualcuno che si mette in tasca la palla, ferma il gioco, impedisce ogni altro modo di guardare il mondo, lì la democrazia è già in pericolo.

Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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rassegna stampa    
 
 
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Gli articoli significativi sulla stampa oggi sono tutti dedicati alla questione di Gerusalemme. Come si sa, il vicepresidente americano Biden era andato a Gerusalemme a inaugurare una sessione di colloqui indiretti fra Israele e palestinesi, ottenuti a gran fatica dalla mediazione americana vincendo le resistenze palestinesi. Mentre erano in corso le visite di Biden un ministro israeliano ha annunciato di aver concesso il permesso all'edificazione di un migliaio di case in un quartiere ebraico di Gerusalemme. La cosa è stata presa a pretesto dai palestinesi per non iniziare i colloqui, ed è stata oggetto di una reazione assai poco diplomatica da parte degli americani, che per esempio hanno dichiarato di essere stati "offesi" e "insultati" dalla decisione, ricevendo in cambio delle "scuse" da Netanyahu per il cattivo tempismo della decisione. (Vita Bekker sul Financial Times, Thomas Friedman sullo Herald Tribune Paolo Valentino sul Corriere). Le scuse però non sono bastate e la campagna di stampa contro Israele prosegue (Salerno sul Messaggero, De Giovannangeli sull'Unità).
E' una questione che merita di essere capita. Sia sul piano della legge internazionale, sia per quanto riguarda gli impegni di Netanyahu, almeno quelli pubblici, l'annuncio delle nuove costruzioni non costituisce affatto una violazione. Quando il governo israeliano ha promesso la moratoria di dieci mesi nelle costruzioni, l'ha fatto per gli insediamenti in Giudea e Samaria, facendo esplicita eccezione per Gerusalemme, dove si trova il quartiere in discussione. Sul piano del diritto internazionale, se è in discussione tutto lo status dei Territori, che non sono mai appartenuti a uno Stato palestinese mai costituito, lo è ancora di più quello di Gerusalemme, che il piano originario dell'Onu del '47 per la cessazione del mandato britannico voleva territorio internazionalizzato. L'occupazione illegale giordana dal '48 al '67 non costituisce certo un diritto per i palestinesi, né certo lo è l'"aspirazione" palestinese a farne la capitale di un nuovo Stato. Né esiste quella divisione fra Gerusalemme Est e Ovest che vorrebbero gli americani: Gerusalemme è una città unica, e se si dovesse seguire anche a Gerusalemme il tracciato armistiziale del '49 per dividere i due popoli, Israele dovrebbe cedere tutta la città vecchia incluso il Kotel, cosa che nessun governo israeliano ha mai accettato e che certo oggi non sarebbe accettabile alla stragrande maggioranza degli israeliani. Dare per scontato che esista una Gerusalemme Est, come fa l'amministrazione Obama e che essa debba essere ceduta ai Palestinesi è la premessa sicura dell'impossibilità di nuove trattative. Ancora una volta Obama aizza gli irrigidimenti palestinesi, salvo lamentare che non si svolgano trattative, che questo tentativo di precostituire dei risultati diplomatici estremamente sfavorevoli a Israele avvenga con clamore a mezzo stampa e non nelle sedi internazionali, è caratteristico di questa amministrazione e del suo stile demagogico, capace solo di fare annunci e non di modificare le situazioni politiche reali. Quando qualcuno come Friedman sullo Herald Tribune accusa Israele di sacrificare la politica internazionale a miseri calcoli di politica interna, dovrebbe interrogarsi se questo non è ciò che sta facendo l'amministrazione americana. E inoltre dovrebbe chiedersi, lui e tutti i giornali italiani, se non vi sia molto di coloniale nel dichiararsi "insultati" da una decisione legittima presa da uno Stato sovrano. Si parla tanto di colonie, ma in questo caso sono Obama e i suoi che stanno cercando di trattare Israele come una colonia, del tempo in cui per piegare gli stati alla politica dei grandi si muoveva una cannoniera o due.

Ugo Volli

 
 
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notizieflash    
 
 
Visita ufficiale del Presidente del Brasile in Israele           Gerusalemme, 15 mar -
E' iniziata oggi a Gerusalemme la prima visita ufficiale del presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva in Israele. Il Presidente da Silva che si recherà anche in Iran, ha detto di voler vedere il Brasile svolgere un ruolo più attivo nei processi diplomatici mediorientali. La visita di Lula suscita interesse a Gerusalemme dove, accanto a calde espressioni di benvenuto, si prevede che la parte israeliana non celerà le sue critiche alle strette relazioni del Brasile con l' Iran e alle posizioni negative nei confronti di Israele che il Brasile è solito assumere nei fori internazionali. Israele considera il programma nucleare dell'Iran una minaccia alla sua stessa esistenza e insiste per l'adozione di dure sanzioni economiche internazionali, che il Brasile ritiene invece controproducenti. Una fonte nell'ufficio del premier Benyamin Netanyahu ha detto: "é una visita importante perché offre la possibilità di ampliare le relazioni col Brasile in tutti i campi... e anche i contatti politici e diplomatici". Secondo fonti informate, Israele cercherà di convincere Lula che l'ambizione del Brasile di svolgere un ruolo di protagonista sul palcoscenico politico mondiale comporta anche un'assunzione di responsabilità. Lula, in interviste alla stampa israeliana prima di partire per il Medio Oriente, ha affermato che è tempo che nuovi attori emergano per fare da mediatori tra israeliani e palestinesi, al posto di quelli vecchi che non hanno avuto successo. Lula, che ripartirà mercoledì, vedrà i maggiori esponenti politici del governo israeliano, visiterà l'Autorità palestinese e il presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) a Ramallah e terrà un discorso alla Knesset.
 
 
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