se non visualizzi correttamente questo messaggio, fai  click qui  
 
  logo  
L'Unione informa
 
    21 marzo 2010 - 6 Nisan 5770  
alef/tav   davar   pilpul   rassegna stampa   notizieflash  
 
Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  benedetto carucci viterbi Benedetto Carucci Viterbi,
rabbino 
Tra i sacrifici, di cui la Torà parla nel libro di Vaikrà che si è iniziato a leggere ieri, ve ne erano alcuni che andavano completamente bruciati ed altri di cui l'offerente poteva mangiare alcune parti. Nel rapporto con Dio a volte l'uomo si deve completamente annullare, altre deve mettere bene in vista se stesso e le sue necessità.   
“Pluralismo nella società e pluralità nell’ebraismo” è il titolo di un convegno che si sta svolgendo oggi a Roma promosso dal gruppo Martin Buber e a cui partecipano persone diverse ed esperienze culturali dei mondi ebraici in Italia spesso molto lontane l’una dall’altra. Non so come stia andando e se le opinioni diverse a confronto siano in  grado di andare oltre le formule di cortesia. E’ un fatto comunque che almeno dal nostro piccolo angolo di pluralismo se ne veda poco e la condizione di pluralità appaia alquanto dimessa, o corrisponda a una sorta di quadro arcobaleno che alla fine lascia il tempo che trova. Forse per la legge dei piccoli numeri sia il pluralismo che la pluralità sono due condizioni che la realtà ebraica in Italia non può permettersi di vivere. Ciò non toglie, che occorrerebbe uscire da una condizione di pigrizia, o di timore e considerarsi come parte di una comunità più vasta, almeno geograficamente, che ne so almeno sud europea, con cui confrontarsi e di cui comprendere i temi e i problemi. In ogni caso occorrerebbe mettere un po’ la testa “fuori casa”.
David
Bidussa,

storico sociale delle idee
david bidussa  
  torna su
davar    
 
  pagine ebraiche banner1
banner 2



gomelLa grande sfida di essere plurali

 Il Gruppo Martin Buber - Ebrei per la pace e il Centro ebraico Pitigliani hanno organizzato una giornata di studio a Roma il 21 marzo sul tema Pluralismo nella società e pluralità nell’ebraismo. E’ un argomento controverso, complesso, e molto rilevante per l’ebraismo, in Italia, in Europa, nel mondo. Quali i motivi ispiratori? Li condenso così. Con la nascita di Israele, l’identità ebraica ha assunto forme molteplici: quella politico nazionale in Israele, quella religiosa e quella di ebrei, soprattutto in Occidente, che tendono a integrarsi in società che si evolvono verso forme multiculturali. Gli ebrei partecipano alla vita civile e politica dei paesi in cui vivono e mantengono nello stesso tempo legami d’appartenenza con la storia ebraica, con la tradizione di fede, con la terra e con lo Stato di Israele. Anche in Italia abbiamo assistito alla “mutazione genetica” di un ebraismo che molti consideravano ormai laicizzato: la riscoperta, da parte di molti, del valore specifico della cultura ebraica e del ritorno alle tradizioni. Uno sguardo attento alla storia degli ebrei dovrebbe però indurre a concludere che anche l’ortodossia si è manifestata in forme articolate. Forme di pensiero e comportamenti monolitici, lontani dal confronto dialettico, sono estranei all’ebraismo. Vi è poi il problema del rapporto nuovo e, in alcuni casi, “organico” e pericolosamente distorto con la politica e con specifiche forze e partiti. Riusciremo a costruire una “democrazia plurale”? Al “pluralismo” tra le diverse comunità potrà corrispondere il rispetto per la “pluralità” delle identità in ciascuna comunità? La nozione di democrazia plurale presuppone la coerenza tra il rispetto richiesto da ogni comunità, soprattutto di minoranza, e il rispetto dovuto in seno a ogni comunità alle identità individuali. Si può infatti essere atei e clericali ritenendo che autorità religiose debbano stabilire i valori e le modalità di regolazione dei fatti di interesse pubblico. Analogamente si può essere credenti e laici, ritenendo che la dimensione della fede abbia un proprio ambito d’azione e che la società debba essere regolata sulla base di convenzioni che tengano conto delle diverse sensibilità. Il rispetto per la coscienza di ogni persona o comunità esige che un’idea o un credo non dominino gli altri nelle regole comuni della convivenza. Le questioni etiche non esulano dallo spazio del dibattito pubblico. Ciò vale in particolare in relazione a due questioni. L’attribuzione di poteri dei quali lo Stato è titolare a soggetti terzi, organi decentrati o soggetti privati che operano in forme sussidiarie rispetto a quelli pubblici (per esempio scuole, ospedali ed altre istituzioni assistenziali). Le questioni eticamente sensibili, quali malattia, interruzione di gravidanza, procreazione assistita, accanimento terapeutico, testamento biologico, eutanasia, diritti dei single e diritti degli omosessuali. Nel caso degli ebrei, a tali questioni se ne aggiungono altre quali la convivenza di posizioni diverse nei confronti delle varie forme di ebraismo; gli orientamenti delle comunità ebraiche verso Israele e il rapporto tra esso e la Diaspora, nonché verso gli schieramenti politici nazionali; la scelta di affrontare problemi attuali (matrimoni misti, conversioni) in una prospettiva “rigoristica” o come parte di un processo storico e culturale con cui misurarsi.

Giorgio Gomel, Gruppo Martin Buber - Ebrei per la pace, Pagine Ebraiche - aprile 2010


minerbiUn anticonformista nel vortice della Storia

Conobbi Raffaele Cantoni dopo la liberazione di Milano nel 1945. Ero un ragazzo di 16 anni molto attivo nel movimento Hechaluz al quale dedicavo anima e corpo. Cantoni apparve subito molto diverso dai dirigenti comunitari che avevo conosciuto fino ad allora. Era un uomo d’azione, senza peli sulla lingua, dinamico anzi impetuoso alle volte, pronto a urlare se non veniva accettato subito quanto proponeva. Era il momento in cui affluivano in Italia decine di migliaia di profughi ebrei sopravissuti ai campi di sterminio con l’anelito di arrivare al Mediterraneo per imbarcarsi su qualche navicella dell’Aliya bet ed arrivare nella Palestina mandataria. Nel frattempo bisognava trovare per loro un alloggio qualsiasi, talvolta in colonie estive costruite per i giovani
fascisti, con magre razioni alimentari fornite dall’American Joint. Era anche il momento in cui gli ebrei italiani, talvolta ancora increduli di essere rimasti vivi, tornavano alle loro case che potevano essere occupate dagli sfollati. Il mio primo viaggio da Roma a Milano durò 22 ore poiché il treno doveva aspettare ore e ore su un binario morto, mentre qualcuno cercava di capire quali ponti fossero ancora agibili. Cantoni tornò dalla Svizzera dove si era rifugiato alla fine del 1943 dopo essere saltato dal treno diretto a Auschwitz. Era ancora sul treno che da Lugano lo riportava in Italia quando scrisse al medico Marcello Cantoni per affidargli l’incarico di curare i bambini per conto dell’Ose (Oeuvre de secours aux enfants). Qualche giorno dopo la liberazione di Milano fu nominato Commissario straordinario per la Comunità di Milano. Grazie ai suoi contatti politici col Partito socialista, e in particolare con Riccardo Lombardi, ottenne il palazzo di via Unione 5 a Milano. Cominciò allora l’epopea di via Unione centro comunitario per gli ebrei Italiani e per i profughi, per le varie organizzazioni d’assistenza e per l’Haganah, tappa molto importante per gli ebrei allora in Italia e per i soldati “palestinesi” arruolatisi come volontari nell’esercito britannico.
Cantoni era un organizzatore nato e in via Eupili a Milano ripristinava la scuola, affidando l’internato a Matilde Cassin, che successivamente sposò Max Varadi e fece con lui l’aliyà. Matilde si occupò anche della colonia di Selvino nei pressi di Bergamo,
dove erano ospitati centinaia di bambini profughi..
Cantoni accompagnò nel settembre 1945 Kubowitzki del Congresso mondiale ebraico in Vaticano, non partecipò però al colloquio che questi ebbe con Pio XII per chiedergli la restituzione dei bambini ebrei salvati nei conventi ma rimasti orfani e quindi non reclamati dai genitori.
Pio XII chiese un memorandum e non solo non fece nulla per accogliere la richiesta ebraica, ma anzi l’anno dopo, il 23 ottobre 1946, fece inviare delle istruzioni al Nunzio a Parigi, Angelo Roncalli (successivamente Papa Giovanni XXII), affinché i bambini battezzati non fossero restituiti a organizzazioni ebraiche. Secondo i documenti pubblicati dal noto storico Alberto Melloni, il Vaticano scriveva al Nunzio “Non deve dare risposte scritte alle autorità ebraiche e precisare che la Chiesa valuterà caso per caso; i bambini battezzati possono essere dati solo a istituzioni che ne garantiscano l’educazione cristiana; i bambini che ‘non hanno più genitori’ non vanno restituiti e i genitori eventualmente sopravvissuti potranno riaverli solo nel caso che non siano stati battezzati”. Raffaele Cantoni si recò in Vaticano una seconda volta, pochi mesi dopo, insieme a Gerhardt Riegner del Congresso mondiale ebraico. Furono ricevuti dal cardinal Montini (successivamente Papa Paolo VI) che chiese dove fossero i bambini. Riegner rispose: “Se sapessi dove si trovano, non avrei bisogno di voi”. Il 26 marzo 1946 Cantoni venne eletto presidente dell’Unione delle Comunità e utilizzò i suoi poteri per sostenere l’Alya beit e ottenere finanziamenti per l’acquisto di armi per l’Haganah. Quando il 4 aprile 1946 fu scoperto un convoglio di camion militari britannici con a bordo 1014 profughi ebrei che si imbarcavano per la Palestina sulla nave Fede, Cantoni accorse immediatamente a La Spezia e vi portò Harold Laski che promise di incontrare a Londra il premier Attlee. Nello stesso tempo Cantoni ebbe un colloquio col presidente del Consiglio Alcide De Gaperi e alla fine i mille poterono salpare su due navi, per la Palestina. Alla Conferenza della pace a Parigi, nel 1946, Cantoni appoggiò le posizioni del governo italiano antifascista che non voleva discutere in quella sede gli indennizzi agli Ebrei, ma i governi successivi non si affrettarono a reintegrare gli ebrei. Gli ebrei italiani non ebbero diritto alle restituzioni tedesche e solo con grande difficoltà a quelle parziali italiane che non coprono né il lucro cessante di coloro che per otto anni non poterono lavorare, né la restituzione dei beni sequestrati. Un vitalizio previsto dalla legge del 1980 fu assegnato agli interessati solo passati alcuni decenni dopo un lungo ostruzionismo delle autorità. Passarono più di cinquant’anni dalla liberazione e nel 1998 fu nominata la Commissione Anselmi che in tre anni di lavoro individuò 7 mila 116 decreti di confisca in Italia settentrionale: più della metà concernevano dei depositi bancari. Ma la Commissione Anselmi non aveva poteri esecutivi e l’auspicio di una pronta soluzione, rimase lettera morta. Sorge quindi il dubbio che la fiducia riposta da Cantoni a Parigi nei futuri governi italiani, fossse esagerata. Appena creato lo Stato d’Israele, il 14 Maggio 1948. Cantoni si precipitò in Israele e ricevette il visto d’entrata numero uno. Molte attività come l’Aliya beit e l’acquisto di armi per l’Haganah , che erano state semiclandestine, divennero ufficiali e apparvero alla luce del sole. C’era anche comunione di interessi fra Italia e profughi nel volere che costoro partissero al più presto per altri lidi. In tutte queste azioni Raffaele Cantoni spiccò per la sua personalità, l’efficienza e il coraggio.

Sergio Minerbi, Pagine Ebraiche, aprile 2010


sposa sirianaQui Venezia - La sposa siriana chiude
il Kolno'a Festival della Laguna


Si è chiuso ieri alla Casa del Cinema di Venezia il Pitigliani Kolno’a Festival, con la proiezione de La sposa siriana (Ha-kala Ha-surit) di Eran Riklis, regista venuto alla ribalta di recente con il film Il giardino dei limoni.
Successo sia per la critica che per il pubblico, La sposa siriana è stato candidato dall’Israel Film Academy a sette premi, tra questi il premio per la miglior regia e la miglior sceneggiatura. Il film narra le vicende di Mona una giovane donna drusa originaria di Majdal Shams, un paesino sulle alture del Golan vicino al confine tra Israele e Siria.
La protagonista è promessa sposa del cugino siriano, Tallel, famoso attore di sit-com a Damasco, che ha potuto conoscere solo per via epistolare e vedere esclusivamente attraverso lo schermo della televisione. La sposa dovrà lasciare il suo villaggio e attraversare il confine per poter convolare infine a nozze. Lo stato emotivo della sposa, già di per se precario per il matrimonio combinato, si carica di un ulteriore elemento di drammaticità: Mona è infatti consapevole che una volta attraversato il confine siriano, non potrà mai più tornare in Israele, non potrà più tornare né al suo villaggio né dalla sua famiglia. Sarà destinata a vivere per il resto della sua vita a Damasco, città sconosciuta e inospitale.
La pellicola ripercorre le 24 ore del matrimonio introducendo il dramma di questo piccolo villaggio di confine. Al centro della vicenda la famiglia della sposa: il padre, Hammed, fervente attivista filo-siriano appena rilasciato su cauzione dalle forze di polizia locali, il fratello maggiore, Hattam, scomunicato dagli anziani della comunità drusa per aver abbandonato le tradizioni ed essersi sposato con una dottoressa russa, il fratello minore, Marwan, un mercante donnaiolo, e la sorella, Amal, voce narrante e sposa infelice, che rifiuta il ruolo di moglie servile mettendosi in diretto contrasto con il marito Amid e con la cultura tradizionale della comunità. Lo stesso atteggiamento di ribellione si ritroverà poi nella figlia maggiore di Amal, innamorata di un ragazzo appartenente a una famiglia filo-israeliana.
Man mano che si avvicina l’ora fatidica del matrimonio, insorgono continue complicazioni che coinvolgono la croce rossa, le truppe di confine e la polizia israeliana: la concessione del permesso per l’attraversamento è infatti estremamente rara e garantita solo in casi eccezionali dopo una lunga trafila burocratica. I parenti si trovano quindi rinchiusi con Mona nella terra di nessuno tra il checkpoint israeliano e quello siriano in attesa di un visto d’ingresso per la sposa.
La pellicola prende spunto dal documentario Borders, che Riklis aveva girato nel 1998, sui territori di confine israeliani. Con La sposa siriana, Riklis pone l’attenzione sull’incidenza che hanno le questioni geopolitiche sulla vita ordinaria delle popolazioni di confine, e su quanto la spinta alla modernità riesca a penetrare nei processi arcaici di una comunità tradizionale come quella drusa disgregandone totalmente i ritmi.

Michael Calimani
 
 
  torna su
pilpul    
 
  ugo volliA proposito di pluralismo

Pluralismo non è solo il dato di fatto della differenziazione sociale o culturale, ma la valutazione positiva della presenza di diverse opinioni, parti, tendenze nello stesso corpo sociale. Rispetto ad altre culture classiche che vedevano la differenza delle posizioni come un male necessario o una pura differenza di funzioni sociali e alle culture che hanno forzato la loro unità con dogmi, cleri e gerarchie, l’ebraismo si è sempre caratterizzato non solo per la sua pluralità (le dodici tribù, gli askenaziti e i sefarditi), ma per il suo pluralismo, come emerge per esempio dalla scelta talmudica di riportare sistematicamente le opinioni di minoranza e di riconoscere loro il titolo di “parole del D-o vivente). Il commento ebraico è per definizione pluralista. Per questo è importante il convegno sulla pluralità ebraica organizzato da Pitigliani e Martin Buber.
E però vi è autentico pluralismo solo sullo sfondo di un’identità condivisa. Interrogarsi intorno al pluralismo ebraico richiede dunque di porsi immediatamente il problema dell’identità ebraica. Questione tanto più urgente quanto più differenziato è oggi di fatto il popolo ebraico. Differenziato, prima che pluralista. Diviso fra israeliani e abitanti della diaspora, fra tradizioni orientali e occidentali, fra grandi correnti religiose. Ma da noi diviso, oltre che naturalmente per collocazione e provenienza geografica, stato sociale e professionale, riferimento politico e religioso, innanzitutto sul piano dell’adesione alla pratica religiosa fra pochissimi ebrei veramente osservanti, un’altra parte più consistente ma ancora minoritaria comunque attenta alla dimensione religiosa, per esempio alle feste principali; e infine una maggioranza pressoché completamente laicizzata, in via di progressiva dispersione.
Bisogna dunque innanzitutto interrogarsi su quale sia l’identità comune che unisce oggi il laico e il religioso, il popolano e l’intellettuale, il gher e il “lontano” che si possano dire ebrei. La mia idea è che questa identità sia, per dirla con Rav Soloveitchik, la scelta di condividere il destino storico del popolo ebraico, la scelta di essere attivamente quel che si è per eredità - il che significa tanto la continuità con la tradizione storica e religiosa quanto l’adesione alla scelta sionista e allo Stato di Israele. Non è possibile naturalmente sviluppare né tanto meno giustificare qui quest’idea dell’identità, che io propongo come una base fattuale e non certo come un ideale di perfezione e completezza. Se si accetta che il minimo comun denominatore dell’identità ebraica oggi in Italia sia il riconoscimento di una comunità storica, si deve dire che il pluralismo ebraico è l’accettazione della diversità di opinioni, di credenze, di pratiche all’interno di coloro che accettano di “essere ciò che sono”, cioè di sentirsi parte del destino comune del nostro popolo.
Dentro questo quadro la pluralità delle ideologie politiche e delle posizioni religiose è molto vasta: si contano haredim e modern orthodox e ebrei progressivi, vi sono sionisti per la pace e i nazionalisti religiosi e difensori di Israele senza etichette. Essere pluralisti vuol dire ammetterli tutti nel discorso comune, benché certamente senza rinunciare a difendere la propria convinzione. Da liberale, questo è il mio principio: non sono d’accordo con te, ma difendo il tuo diritto di parlare. Vale la pena però intanto di sottolineare ancora la cornice di questa sfera comune: l’identità dentro cui si deve sviluppare il pluralismo è sempre l’accettazione del destino storico del nostro popolo, l’amore per Israele. E poi di notare che vi sono posizioni più o meno utili a sostenere questa identità. Per esempio, io non credo che la critica pregiudiziale dello stato di Israele, in mezzo alle sue difficoltà attuali, aiuti l’ebraismo, anzi, considero che sia una posizione molto negativa e la combatto a viso aperto.
Su un altro piano, credo che non sia utile l’alternativa religiosa rigorista fra una perfetta osservanza delle mitzvot o l’estraneità, anche perché il primo corno del dilemma si traduce nella grande maggioranza dei casi nell’ipocrisia di una non osservanza appena mascherata e nel secondo porta alla perdita dell’identità. Penso che l’ebraismo italiano abbia compiuto centocinquanta anni fa, al momento dell’emancipazione, la scelta sbagliata di trattarsi come una religione (per lo più di specie cattolica, con i “preti” ben distinti dal “gregge”), mettendo in secondo piano la dimensione di popolo. E abbia scelto con ciò di rinunciare a trovare mediazioni fra la sua pratica sociale vera, sempre più assimilata e laicizzata, e la sua ipotetica appartenenza religiosa. Per questo è importante e positivo, secondo me che lo pratico, la nascita di un pluralismo religioso organizzato in Italia, sperabilmente capace di ridurre questa forbice fra religione e stile di vita, e di recuperare così all’ebraismo consapevole le fasce sempre più importanti che rischiano oggi di abbandonare anche l’identità e non solo la pratica religiosa. In ogni caso l’apertura di uno spazio plurale ebraico è un rimedio importante al rischio che l’ebraismo corre oggi di sparire per l’impossibilità di molti a identificarsi davvero con la sua corrente maggioritaria e più ufficiale. Davvero si può dire che la scelta è fra pluralismo attivo e dispersione involontaria

Ugo Volli
 
 
 
  torna su
rassegna stampa    
 
 
leggi la rassegna
 
 

I palestinesi vogliono la fine degli ebrei 
Per dialogare devono cambiare obiettivo 

Per Avraham B. Yehoshua, fra i più famosi scrittori israeliani contemporanei, la passione politica è sempre andata di pari passo con l'amore per la letteratura. Tra i fondatori di Shalom Ahshav (Pace Adesso), il primo movimento pacifista, ha sempre saputo per mantenere saldo lo spirito sionista e laico che ha contraddistinto la tempra dei fondatori dello Stato ebraico. Ieri ha scritto per la Stampa un articolo nel quale ha paragonato l'America di Barak Obama al buon padre di famiglia che riprende e punisce il figlio che ama, in questo caso Israele, pur di riportarlo sulla retta via. Perché, e qui Yehoshua ha perfettamente ragione, Israele per continuare ad essere uno Stato ebraico e democratico nello stesso tempo, deve allontanare al più presto da sè il pericolo di veder crescere al proprio interno la popolazione araba, un futuro inevitabile se la politica di sviluppo urbano nelle periferie dei territori israeliani, cioè vicini a quello che dovrà diventare il probabile confine con lo Stato palestinese, dovesse inglobare zone con vasta popolazione araba. Il riferimento è rivolto alle nuove abitazioni nella parte orientale di Gerusalemme e allo sviluppo di altri quartieri intorno alla periferia della città, annuncio che ha dato origine alle polemiche di questi giorni con la Casa Bianca. Secondo Yehoshua questo compromette la possibilità di una separazione fra le due popolazioni e la creazione di un confine concordato fra Israele e Palestina. Un'analisi condivisibile, se i due contendenti stessero già discutendo su come realizzare di comune accordo la loro separazione, ma questo obiettivo è condiviso soltanto dalla parte israeliana, quella palestinese ha dato finora soltanto prove del suo disinteresse, non esprimendosi mai sul problema dei confini, e a qualsiasi soluzione che tenesse conto degli interessi dello Stato ebraico. Non riconoscendolo come tale, imponendo precondizioni inaccettabili, quali l'arresto dello sviluppo urbano sul territorio nazionale, ributtando sul tavolo la questione del ritorno dei profughi, una richiesta che non è mai stata presa in considerazione dagli organismi internazionali alla fine di ogni guerra che ha modificato i confini precedenti. Per non citare l'argomento più serio di tutti, la sicurezza, che viene del tutto trascurato dall'Autorità palestinese, come se si trattasse di un optional e non invece un fattore di vitale importanza per Israele. Yehoshua ha visto nella richiesta americana un gesto capace di spingere Israele verso una strada che potrà condurre verso la pace, una volta che avrà acconsentito a cedere alle richieste palestinesi. L'utopia ha sempre rappresentato una attrazione per gli intellettuali, abituati a risolvere i problemi con l'aiuto della sola speranza. Che la realtà sia lontana daf loro sogni è solo un dettaglio trascurabile. Quanto è avvenuto a Gaza, un territorio consegnato ai palestinesi, senza più la presenza di un solo ebreo, perché cominciassero a costruirvi le basi del nuovo Stato, si è trasformato in una entità nemica che non ha smesso finora di attaccare Israele, non insegnando nulla a chi, sicuramente in buona fede, spinge per accelerare un processo denso di pericoli per la stessa sopravvivenza di Israele. Il sogno di A.B.Yehoshua, che poi è il sogno di tutte le persone di buona volontà, si realizzerà quando gli arabi capiranno che le grandi potenze e gli organismi internazionali stanno dalla parte della democrazia, non più disposti ad accettare risoluzioni che favoriscono governi totalitari e dittatoriali, come son la maggior parte degli stati della regione, in una parola quando si ricorderanno che i valori che sostengono Israele sono gli stessi per i quali nel secolo passato si sono combattute due guerre mondiali. È l'islam che deve dare segnali seri di cambiamento, non Israele. E' dalla sua parte che devono schierarsi gli stati di diritto. Grazie all'esempio della presidenza Obama, sta avvenendo il contrario.

Angelo Pezzana, Libero, 20 marzo 2010

 
 
  torna su
notizieflash    
 
 
Israele, Benyamin Netanyahu agli Stati Uniti:                                  
"Costruire a Gerusalemme è come costruire a Tel Aviv"             
Gerusalemme, 21 mar -
"La costruzione a Gerusalemme è come quella a Tel Aviv" ha dichiarato il premier israeliano Benyamin Netanyahu aprendo la seduta settimanale del suo governo, alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti. Netanyahu ha ribadito che per i progetti israeliani di sviluppo nell'intero territorio municipale di Gerusalemme la politica del suo governo non differisce da quella dei governi passati. Con queste precisazioni Netanyahu ha inteso respingere la critiche espresse dagli Stati Uniti per progetti di estensione del rione ebraico ortodosso di Ramat Shlomo (con 1.600 nuovi alloggi), progetti annunciati mentre a Gerusalemme si trovava in visita il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden. Quell'episodio ha innescato un'aspra crisi fra Israele e Usa. In nottata, dopo aver incontrato l'emissario statunitense George Mitchell e il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban ki-Moon, Netanyahu partirà per Washington (accompagnato dal ministro della difesa Ehud Barak), dove parteciperà ad un evento della Aipac, la lobby filo-israeliana. Ancora non è noto se Netanyahu sarà ricevuto dal presidente Barack Obama, così come anticipato dalla rete televisiva Fox News.
 
 
    torna su
 
L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili.
Gli utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste, in redazione Daniela Gross.
Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”.