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L'Unione informa
 
    17 maggio 2010 - 4 Sivan 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Hagbalà è la parola ebraica che indica la limitazione, la definizione dei confini, siano essi geografici che di comportamento. I tre giorni che precedettero la rivelazione sul monte Sinai furono giorni di hagbalà, di limiti da non superare in vari sensi (non avvicinarsi al monte, non avere rapporti coniugali ecc.), con l'obiettivo di preparare fisicamente e spiritualmente tutto il popolo al grande evento. Ogni anno, prima di Shavuot, tempo della donazione della Torà, ricordiamo i tre giorni di hagbalà e oggi è il secondo di questi giorni. Sono giorni prefestivi che dovrebbero essere dedicati alla ri-definizione dei limiti e alla purificazione. Nel contesto attuale delle nostre comunità sembra un messaggio proveniente da un altro pianeta, ma non dovrebbe essere così.
L'uscita in italiano per Guanda del romanzo di Yannick Haenel "Il testimone inascoltato" sembra riaprire le polemiche che già l'anno passato hanno accompagnato l'uscita del libro in Francia e che negli ultimi anni hanno segnato il successo delle "Benevole" di Littell. Almeno a giudicare dall'intervista a Haenel apparsa stamane su Repubblica, il problema non è semplicemente quello del rapporto tra storia e finzione letteraria, ma è quello, ben diverso, della trasmissione della memoria sulla Shoah, una volta esaurita l'era dei testimoni. A chi toccherà adesso tramandare la memoria? non agli storici, afferma Haenel, ma ai romanzieri. Toccherà a loro rappresentare "quella parte di verità che è per sua natura irrapresentabile". Siamo di fronte ad un conflitto tra storici e romanzieri per l'occupazione di quell'enorme spazio narrativo lasciato dalla Shoah? e come pensano i romanzieri di subentrare agli storici e ai testimoni in questo ruolo, come si disponono ad usare questo esplosivo, la parola è dello stesso Haenel, che è la finzione letteraria? forse il problema sta soprattutto qui, nel come e non nel se. Resta il fatto, comunque, che siamo di fronte ad un altro segnale dell'urgenza di ripensare non tanto la Shoah quanto il nostro modo di farne memoria.   Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Qui Torino - "Tanz, tanz" il gruppo Mishkalè scatena la Piazza

torino“Tanz, Tanz”, in yiddish “balla, balla”. Un invito allegro e travolgente come la musica  klezmer del gruppo Mishkalé che ieri sera si è esibito a Torino in una piazzetta Primo Levi gremita. Oltre duecento persone, infatti, sono accorse, richiamate dall’armonia delle note klezmer, gitane, greche per il concerto organizzato dalla Comunità Ebraica di Torino e dalla circoscrizione VIII, all’interno della rassegna Salone Off. Un successo di pubblico nel cuore di San Salvario, quartiere simbolo del melting pot torinese, per la presentazione del nuovo cd “Tanz, tanz” del sestetto Mishkalé. “Il nucleo embrionale di questo gruppo” racconta il clarinettista Sergio Appendino “è nato sedici anni fa. Il mio primo contatto con la musica klezmer fu casuale: ero a teatro per suonare in uno spettacolo quando un mio amico e collega mi fece sentire un pezzo di questa musica affascinante e piena di energia. Poi mi disse ‘ecco, questo è quello che dovrai suonare’, senza spartiti, tutto a memoria. Dopo quel giorno – continua Appendino – e nei successivi tre anni mi dedicai intensamente alla ricerca, mi documentai sia sulla musica sia sul mondo ebraico”. Da allora i Mishkalé hanno fatto molta strada, cambiando formazione, in un evoluzione continua per trovare una identità propria, un modo personale e originale per tradurre questa musica. “Non volevamo più fare semplici cover” spiega Appendino “dopo il primo cd del 2005 abbiamo lavorato intensamente per dare un impronta nostra ai pezzi. Anche perché, come mi disse una volta Moni Ovadia, il klezmer non è un genere musicale ma un modo di essere”, è lo specchio dell’identità di un popolo, di una cultura, di una tradizione. “Il nostro è un approccio gentile da gentili” racconta il trombettista Andrea Verza “abbiamo un profondo rispetto per i mondi da cui traiamo ispirazione”.
Dallo shtetl ai palchi di tutto il mondo, la musica yiddish ha raggiunto il grande pubblico con il suo intreccio di allegria e melanconia. Sentire oggi note jazz o gitane all’interno del klezmer, è una testimonianza di come la musica non rispetti le barriere, spaziali o culturali che siano. Si suonava nei ghetti dell’est Europa, nei sobborghi poveri di Brooklyn per allietare Bar Mitzva o matrimoni mentre oggi la possiamo ascoltare in una piacevole serata primaverile torinese. 
Il concerto si è chiuso con una delle canzoni ebraiche popolari più conosciute, Hava Nagila. E un gruppo di giovani ha preso in parola il titolo del nuovo cd dei Mishkalé, “Tanz, Tanz”, danzando e divertendosi sulle note di questa canzone. La danza, come ricorda un racconto di rav Nachman di Breslau citata nel cd, ha un valore curativo. Rav Nachman narrava, infatti, la storiella dei sette mendicanti, ciascuno con un determinato difetto, che vennero convocati al matrimonio del figlio del gran re, il quale, nonostante il felice evento, era cronicamente malato di tristezza. Tutti e sette i mendicanti portarono in dono una benedizione che simboleggiava, nonostante l’invalidità, la capacita più sublime, suggerita, in modo controverso, dallo stesso handicap. Una sorta di contrappasso dantesco in positivo. Il primo, cieco, era dotato di perfetta lungimiranza e di incommensurabile capacità di comprendere la realtà. Il secondo, sordo, era puro perché non sentiva i pettegolezzi e le maldicenze della gente. Il terzo era balbuziente, ma esprimeva idee e parole colme di saggezza.  Il settimo e ultimo era uno storpio, che, secondo la tradizione, aveva la capacità di danzare, un talento meraviglioso con cui incredibilmente riuscì a curare l’erede al trono dalla sua melanconia.





Qui Torino - Vittorio Foa e la Gerusalemme rimandata


Foa Vittorio“Are you ready? Gentlemen, are you ready?” chiedeva Lloyd George ai capi del sindacato nel 1919, all’indomani dei grandi movimenti operai che paralizzarono il Regno Unito. “Voi avete vinto” disse il capo di governo inglese “noi non abbiamo nessuna forza, nei campi militari abbiamo gli ammutinamenti, la polizia è completamente insicura, gli industriali sono presi dalla paura, se voi fate lo sciopero avete vinto. Siete pronti? Signori siete pronti?”. “In quel momento – dichiarò poi il capo dei minatori – capimmo di aver perduto”.
Da quella sconfitta inizia la riflessione di Vittorio Foa nella sua La Gerusalemme rimandata - Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento, la cui riedizione è stata presentata alla Fiera del Libro di Torino. Un’occasione per celebrare un’opera accurata e puntuale ma anche, e forse soprattutto, per ricordare il grande intellettuale torinese, scomparso nel 2008. “Oggi più che mai rimpiangiamo la voce di Vittorio Foa ” sostiene Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale, “nel deserto politico italiano, sentiamo la mancanza della sua capacità di fare analisi della società per immaginare un futuro diverso”. I ricordi si intrecciano, le parole dei relatori ripercorrono la storia di un libro, rievocando al tempo stesso la storia del suo autore. “Per scrivere quest’opera” ricorda lo storico Paul Ginsborg “Foa si allontanò dalla vita politica. Erano gli anni settanta e la classe operaia italiana stava vivendo un momento di crisi. Vittorio iniziò a porsi delle domande sul futuro, sull’evoluzione di questo periodo di transazione. Scelse il silenzio, cercando delle risposte altrove”. Provò a volgere la sua attenzione al proletariato inglese che ammirava e rispettava. Iniziò la sua ricerca, discostandosi dagli schemi classici della storiografia tanto da scrivere, quasi a mettere le mani avanti, “questo non è un libro di storia”. “La Gerusalemme rimandata è stata una vera impresa per Foa” spiega Ginsborg “penso si possa dire che quel libro lo fece addirittura soffrire. Ma ricordo ancora la grande fiducia e serenità che riponeva nel suo lavoro nonostante le difficoltà. Ogni mattina si alzava presto per studiare e, a differenza di noi storici, non si isolava anzi accoglieva chiunque passasse dal suo studio. Ricordo con affetto il suo chiedere con un sorriso ‘gioia cara, hai dormito bene?’ ”.
La sua allegria, il suo ottimismo emergono immancabilmente nella sua opera che Franco Marenco, docente di letteratura all’università di Torino, definisce utopica quanto realista, un lavoro che oltrepassa i limiti della storia. “Vittorio” racconta Marenco “era un uomo che prestava grande attenzione alle relazioni sociali, all’incontro con l’altro, all’idea di comunità. Da questa sua tensione si comprende il suo interesse per il movimento operaio dell’Inghilterra degli anni venti”. Una classe sociale viva, in pieno fermento che però inspiegabilmente, sul confine della terra promessa, si ritira. Ad un passo dalla vittoria, dall’arrivo alla meta tanto ambita, il movimento operaio si sfalda, rimandando la sua Gerusalemme. Sul motivo di questa disgregazione, Foa riflette. Ricerca nell’errore del passato la soluzione del futuro. “Le risposte però” sostiene Ginsborg “non sono soddisfacenti. Gerusalemme non è solo rimandata ma deve essere ripensata. In ogni caso il punto fermo nel pensiero politico di Foa rimane la necessità di resistere all’arroganza del potere, la visione di un socialismo che contrappone il rispetto agli abusi”.

Daniel Reichel



Qui Torino – La Giuntina festeggia 30 anni con Il forno di Akhnai


il forno di akhnaiE sono trenta. La gloriosa casa editrice Giuntina, nata nel 1980 per iniziativa di Daniel Vogelmann, festeggia tre decenni di attività presentando al pubblico del Salone Internazionale del libro di Torino Il forno di Akhnai – Una discussione talmudica sulla catastrofe, volume che dimostra ancora una volta la grande attualità del Talmud babilonese e degli insegnamenti che si possono trarre dalle sue pagine. A presentare il libro insieme ai tre autori (Stefano Levi Della Torre, Joseph Bali e Vicky Franzinetti) è stato il giornalista Gad Lerner, che ha preso spunto dal testo per fare un parallelo tra le vicende di cui Rabbi Eliezer è suo malgrado protagonista e quelle che in questi giorni vedono il rabbino Somekh e la Comunità Ebraica di Torino sotto i riflettori della cronaca cittadina e nazionale. Il motivo del parallelismo tra due storie appartenenti ad epoche così differenti? “In ambedue i casi è evidente il fallimento della controversia, che non trova una composizione armonica tra chi detiene la verità (o penso di detenerla) e la maggioranza”, la sentenza del presentatore de L'Infedele, che ha avuto Somekh come rabbino per nove anni (dal 1993 al 2002). Non tutti i presenti in sala hanno considerato opportuno questo paragone. In breve la storia del forno di Akhnai: Rabbi Eliezer sostiene che un forno da pane spezzato in formelle è puro e dunque utilizzabile, mentre gli altri Saggi sostengono il contrario. Per convincerli ricorre a miracoli strabilianti (ad esempio sposta un carrubo con la forza del pensiero), ma i suoi antagonisti restano impassibili perché ritengono che i miracoli non siano argomentazioni pertinenti. Rabbi Eliezer, dopo una serie di mirabilie che non portano ad alcun risultato, arriva a invocare la Voce del Cielo, che si pronuncia in suo favore. Ma non è una prova sufficiente. Anzi, gli altri Saggi la ritengono una fonte di legittimazione inadeguata: Rabbi Yehoshua controbatte che il Cielo non c’entra niente, perché la legge non è in cielo ma sulla terra e per la terra ed è dunque compito loro stabilirla interpretando i testi. Allora succede quello che sembrerebbe impensabile: Dio osserva i suoi figli che si accapigliano, sorride e commenta: “I miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno sconfitto”. Il testo, ambientato ai tempi della caduta di Gerusalemme e della distruzione del secondo Tempio ad opera dei romani, è un riflesso del passaggio da una cultura della certezza religiosa a quella dubitativa ed interpretativa. “Una discussione più su criteri che sulle decisioni”, spiega Della Torre. Il libro è complesso, tanto che Lerner commenta: “Andrebbe letto almeno tre volte per capirlo in tutte le sue dimensioni”. Bali approfitta dell’assist per buttarla giù in battuta: “Allora ne dovete comprare tre copie”. Ma ironie e scherzi a parte, Il forno di Akhnai ha il grande merito di farci porre un interrogativo valido in ogni tempo e società: come affrontare e gestire una situazione di cambiamento o di radicale trasformazione?

Adam Smulevich



Qui Torino - Le Scintille di Gad Lerner

scintilleMolteplici sono i filoni lungo i quali può essere letto l'ultimo libro di Gad Lerner, Scintille. Questa l'opinione del teologo cattolico di orientamento progressista Vito Mancuso, amico e consueto conversatore di Lerner, che indica le principali chiavi di lettura al pubblico del Salone del libro. “Prepotente – secondo il teologo – si afferma l'aspetto psicanalitico della narrazione, quello che scava nel profondo le dinamiche psichiche del rapporto col padre e con l'ebraismo. In questo momento della narrazione Lerner mette a nudo le sue paure e le sue vergogne”, vergognosamente legate all'essere ebreo: “esiste una sgradevolezza ebraica?, si chiede Lerener”. È una domanda che non tutti hanno il coraggio di confessare, è l'ostensione pubblica del complesso dello straniero. “Solo grazie alla fortuna sfacciata che ho avuto nella vita familiare e professionale – ammette Lerner – ho avuto la possibilità di fare certe confessioni, la disponibilità a mettersi in cattiva luce”, a esporre vicende tanto intime.
“Il secondo filone – continua Mancuso – è quello storico-geopolitico, di straordinario interesse”. “Ripercorre le vicende del Libano, il tema dell'infelicità araba, rievoca momenti drammatici come la strage di Sabra e Shatila, arriva fino a descrivere la presa del potere degli Hezbollah”. Ma, grazie ad artifici quasi sensisti da scrittore consumato, “Lerner ci fa assaporare anche la sensualità delle donne libanesi”, gli intensi profumi della terra dei cedri.
“Un altro punto di interesse del testo di Gad – nota Vito Mancuso – sono i richiami letterari, su tutti quello a Bruno Schultz, e poi Primo Levi”, che l'autore, in gioventù, ebbe modo di intervistare, “e David Grossman”. Ma il tema che più interessa, che più attiene alle competenza di Vito Mancuso è quello teologico-filosofico. “C'è una concezione filosofica dell'uomo e della sua anima in questo libro – spiega l'autore de L'anima e il suo destino – in molti tratti della quale mi ritrovo perfettamente”. La spiegazione di Mancuso trova il suo perno nel concetto di Gilgul, vagabondaggio delle anime, “che originariamente doveva essere il titolo del libro”, racconta Lerner.
“L'anima è la vita, considerata in tutte la sue manifestazioni – argomenta il teologo. Da Scintille esce chiaramente l'immagine di un'anima a strati, determinata dalla molteplicità di tradizioni e relazioni che costituiscono il nostro universo mentale”. Lerner conferma: “sono da sempre legato all'idea di un'identità dinamica, non un'essenza statica e immutabile, piuttosto un edificio in continua costruzione”, costruzione i cui mattoni sono essenzialmente le relazioni umane. “Ecco perché il gilgul, il vagabondaggio, è così centrale – è la spiegazione teologica del professore. Si tratta di un precetto che troviamo nel testo bilbico”, l'indicazione esistenziale che Dio rivolge ad Abramo: “Lekh lekhà, vattene via, vai verso te stesso”. È la condizione vagabonda, l'instabilità , la relazione anche conflittuale con l'altro – questo il punto che mette d'accordo il teologo cattolico e il giornalista ebreo - “il luogo in cui realizzare se stessi, dare identità e scopo alla propria anima”. Preso dall'entusiasmo, Mancuso chiama in causa addirittura Hegel, definendo il libro di Lerner “una fenomenologia dello spirito del nostro tempo”: la sua vicenda particolare, esaminata, lungo i diversi filoni illustrati, con tale profondità e sincerità, “intercetta le determinazioni di quella comune a tutti, ovvero il viaggio che l'anima deve compiere nel mondo”.

Manuel Disegni, Rossella Tercatin



Qui Torino – Yeud sull'informazione


YeudSi è concluso ieri a Torino il terzo appuntamento di «Yeud», il progetto che mira alla formazione dei futuri leader delle nostre Comunità. L’idea è nata grazie alla sinergia tra l’assessorato ai Giovani dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il Corso di Laurea in Studi Ebraici e L’Unione Giovani Ebrei d'Italia (Ugei).
Nel terzo capitolo di questo percorso, coordinato dalla vicepresidente Ucei, Claudia De Benedetti, è stata protagonista la Comunicazione: i ragazzi hanno avuto l’opportunità di ascoltare i direttori delle più importanti testate comunitarie. Venerdì scorso il giornalista Guido Vitale, che coordina i dipartimenti Informazione e Cultura dell'Unione, ha ripercorso la storia della nascita del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it e del giornale dell'ebraismo italiano Pagine ebraiche. E non è mancata la testimonianza dei giovani praticanti, che da ormai diversi mesi lavorano in redazione. È stata poi la volta di Amalia Luzzati, vicepresidente dell’Ugei, che ha raccontato la rinascita dello storico giornale dei giovani, Hatikva. Sabato non potevano mancare gli interventi dei direttori delle testate delle comunità di Roma e Milano. Giacomo Kahn e Fiona Diwan hanno esaminato le problematiche che stanno dietro la pubblicazione di un mensile ufficiale di una Comunità. A raccontare la sua esperienza è stato poi David Sorani, direttore della storica testata torinese Hakeillà: un giornale ebraico indipendente.
Il contributo dei direttori è servito a fotografare la comunicazione nelle nostre Comunità. Nonostante la situazione particolare in cui si trovava la realtà torinese, nel pieno della polemica sull'incarico revocato al suo ex capo rabbino, non sono mancate, oltre l’ospitalità, gli interventi delle massime cariche. Rav Somekh ha aperto i lavori il venerdì raccontando la sua esperienza di lavoro nel capoluogo piemontese. Di seguito gli interventi del presidente della Comunità Ebraica di Torino, Tullio Levi e della direttrice delle Scuole, Marta Silva. Infine la testimonianza dell’Assessore alla Cultura, Sara Kaminski. Tra gli ospiti, molti nomi della comunicazione ebraica e non: da Angelo Pezzana tra i fondatori del Salone del Libro di Torino e promotore di Informazione corretta, a Vera Schiavazzi, direttore del Master in Giornalismo dell’Università di Torino e giornalista de La Repubblica, che ha messo a confronto l’esperienza della Comunità Valdese con quella ebraica. Anche qui la parola d’ordine è stata Comunicazione. Un pilastro oggi fondamentale per la formazione dei leader di domani.


Alan Naccache



 
 
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  L'ortodossia italiana

donatella di cesare Ma davvero essere ortodossi significa essere rigidi e antiquati? Avere certezze assolute? Rimanere ciechi di fronte ai mutamenti del mondo? Sordi alla cultura circostante? Immobili e fermi – quasi medievali insomma? Definizioni di questo genere sono emerse negli ultimi giorni, in modo neppure molto larvato. Agli esordi dell’emancipazione l’ebraismo europeo ha conosciuto la divisione della “riforma” che ha trovato terreno fertile nella Germania della Haskalà. E molto illuminista è l’atteggiamento di chi vuole riformare. Perché si reputa soggetto autonomo e sovrano che, ricorrendo ai lumi della ragione, può passare al vaglio la tradizione. Ma perché mai quella regola antiquata? E quella mitzvà così inspiegabile? E perché non cambiare qui e là i testi, anche quelli millenari? Non sorprende che il movimento abbia attecchito nel paese della Riforma per eccellenza, la Germania, e da lì sia poi sbarcato negli Stati Uniti. L’umanesimo italiano, che si è protratto fino oltre il Settecento – basti pensare a Vico – e ha avuto tra i suoi esponenti anche rabbini illustri, fino a Elia Benamozegh, ha costituito in Italia un argine. Perché ha insegnato non solo a diffidare della ragione (che è del singolo e si pretende universale), ma a interrogare la tradizione nella consapevolezza che già la domanda innova. Il che ebraicamente si traduce in quella temimùth del “faremo” che precede l’“ascolteremo”. Diverso è dunque l’atteggiamento verso la Legge. Compiere una mitzvà può dischiudere una dimensione prima sconosciuta; non compierla può rinviare ai propri limiti. E il riconoscimento dei propri limiti fa parte dell’umanesimo ebraico.
La tradizione dell’ortodossia italiana, flessibile, umana, “soft” – come dicono gli stranieri che la conoscono e l’apprezzano – è un bene prezioso, insieme dell’ebraismo e della cultura italiana, che dovrebbe essere riconosciuto e valorizzato molto di più.


Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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Il Nobel ElBaradei al clan Mubarak: «Un Egitto libero»
Tra tappeti antichi e quadri moderni, nel suo salotto nel cuore di Vienna, Mohammed ElBaradei si concede una pausa. Il paladino della diplomazia con l'Iraq e l'Iran, l'egiziano dai baffi curati e gli occhiali tartarugati che la Cia sotto Bush sorvegliava con una cimice nel telefono ha lasciato a dicembre la guida dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica dell'Onu, dopo 12 anni e un Nobel per la Pace. Ma non s'è abbandonato a tempo pieno ai suoi hobby jazz, poesia, comprare vestiti alla nipotina Maya di 2 anni. A 67 armi, la sua vita è più intensa che mai. Tiene conferenze sui «problemi globali» e, appena può, va in Egitto dove intellettuali e membri dell'opposizione lo spingono a candidarsi nel 2011 alla presidenza, che Hosni Mubarak detiene da 29 anni. Si candiderà se le elezioni saranno democratiche, ha detto. E con lo slogan taghyeer (cambiamento) ha lanciato una petizione per riformare il processo elettorale e abolire la legge marziale in vigore dal 1981, appena prorogata di 2 anni. «L'Egitto rischia di esplodere», scrive su Twitter. «il cambiamento è inevitabile».
Lei avverte che l'Egitto «è una bomba a orologeria». Perché?
«Se si continua a reprimere la gente con la legge di emergenza, col carcere, negando diritti fondamentali come quello di riunirsi, prima o poi ci sarà una rivolta. Nessuno è felice. Il 42% degli egiziani vive con un dollaro al giorno, il 30% non sa leggere e scrivere, la disoccupazione è dilagante, la corruzione ovunque... Per la maggioranza la priorità sono i bisogni primari, non c'è speranza per il futuro. E se hai i soldi, vivi isolato in zone residenziali ma non puoi comprare l'aria pulita o una burocrazia funzionante. Nessuno sente di poter controllare il proprio destino. Voglio far capire al regime che è meglio cambiare in modo pacifico». [...]

Viviana Mazza, Il Corriere della Sera, 17 maggio 2010 

 
 
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Qui Venezia - Luzzatto verso la presidenza della Comunità

amos luzzattoAmos Luzzatto sarà il nuovo presidente della Comunità ebraica di Venezia. La nomina sarà ufficializzata in occasione della prima riunione di Consiglio aperta alla Comunità che si terrà questa sera, ma la notizia è ormai più che confermata. Quest’anno si è registrato un notevole calo della percentuale di votanti che si attesta per questa tornata elettorale sul 45,3 per cento degli aventi diritto contro il 57,1 per cento delle precedenti elezioni del 2006. Luzzatto, che è stato in passato presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha ottenuto il numero più alto di consensi (119 voti), confermando le indiscrezioni circolate in Comunità nelle scorse settimane che lo volevano candidato alla presidenza. A seguire, nella lista dei consensi,  Mario Gesuà Sive Salvadori (107 voti) e Corrado Calimani (70 voti). Gli altri candidati eletti in consiglio sono: Luciano Silva (69 voti), Claude Sciaky-Menasche (58 voti), Enrico Mariani (57 voti), Annavera Sullam (52 voti). Nella riunione di questa sera oltre all’ufficializzazione del presidente, del vicepresidente e dei membri di giunta, verranno probabilmente assegnate anche le principali deleghe.
M.C.

Qui Firenze – Arnoldo Foa visita sinagoga e museo ebraico

Arnoldo FoaEra tanto che non ci metteva piede. A distanza di molti anni dalla sua ultima visita, Arnoldo Foa è tornato a varcare la soglia della sinagoga di Firenze. Il grande volto del teatro italiano, in città per prendere parte alla maratona vocale che rende omaggio a Dante Alighieri, ha voluto concedersi una passeggiata nel luogo sacro di via Farini e nelle stanze del museo ebraico, soffermandosi per alcuni minuti nella Stanza della Memoria, dove è riprodotta una sua lettura di Se questo è un uomo. La visita di Foa nel Beth Haknesset fiorentino è stata organizzata e fortemente voluta dall’architetto Renzo Funaro, presidente dell’Opera del Tempio Ebraico e coordinatore dei lavori di restauro e di illuminazione che si sono appena conclusi e che hanno riportato la sinagoga e la sua verde cupola agli antichi fasti di un tempo.
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