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L'Unione informa |
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17 maggio 2010 - 4 Sivan 5770 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
Hagbalà
è la parola ebraica che indica la limitazione, la definizione dei
confini, siano essi geografici che di comportamento. I tre giorni che
precedettero la rivelazione sul monte Sinai furono giorni di hagbalà,
di limiti da non superare in vari sensi (non avvicinarsi al monte, non
avere rapporti coniugali ecc.), con l'obiettivo di preparare
fisicamente e spiritualmente tutto il popolo al grande evento. Ogni
anno, prima di Shavuot, tempo della donazione della Torà, ricordiamo i
tre giorni di hagbalà e oggi è il secondo di questi giorni. Sono giorni
prefestivi che dovrebbero essere dedicati alla ri-definizione dei
limiti e alla purificazione. Nel contesto attuale delle nostre comunità
sembra un messaggio proveniente da un altro pianeta, ma non dovrebbe
essere così.
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L'uscita
in italiano per Guanda del romanzo di Yannick Haenel "Il testimone
inascoltato" sembra riaprire le polemiche che già l'anno passato hanno
accompagnato l'uscita del libro in Francia e che negli ultimi anni
hanno segnato il successo delle "Benevole" di Littell. Almeno a
giudicare dall'intervista a Haenel apparsa stamane su Repubblica, il
problema non è semplicemente quello del rapporto tra storia e finzione
letteraria, ma è quello, ben diverso, della trasmissione della memoria
sulla Shoah, una volta esaurita l'era dei testimoni. A chi toccherà
adesso tramandare la memoria? non agli storici, afferma Haenel, ma ai
romanzieri. Toccherà a loro rappresentare "quella parte di verità che è
per sua natura irrapresentabile". Siamo di fronte ad un conflitto tra
storici e romanzieri per l'occupazione di quell'enorme spazio narrativo
lasciato dalla Shoah? e come pensano i romanzieri di subentrare agli
storici e ai testimoni in questo ruolo, come si disponono ad usare
questo esplosivo, la parola è dello stesso Haenel, che è la finzione
letteraria? forse il problema sta soprattutto qui, nel come e non nel
se. Resta il fatto, comunque, che siamo di fronte ad un altro segnale
dell'urgenza di ripensare non tanto la Shoah quanto il nostro modo di
farne memoria. |
Anna Foa,
storica |
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Qui Torino - "Tanz, tanz" il gruppo Mishkalè scatena la Piazza
“Tanz,
Tanz”, in yiddish “balla, balla”. Un invito allegro e travolgente come
la musica klezmer del gruppo Mishkalé che ieri sera si è esibito a Torino in
una piazzetta Primo Levi gremita. Oltre duecento persone, infatti, sono
accorse, richiamate dall’armonia delle note klezmer, gitane, greche per
il concerto organizzato dalla Comunità Ebraica di Torino e dalla
circoscrizione VIII, all’interno della rassegna Salone Off. Un successo
di pubblico nel cuore di San Salvario, quartiere simbolo del melting
pot torinese, per la presentazione del nuovo cd “Tanz, tanz” del
sestetto Mishkalé. “Il nucleo embrionale di questo gruppo” racconta il
clarinettista Sergio Appendino “è nato sedici anni fa. Il mio primo
contatto con la musica klezmer fu casuale: ero a teatro per suonare in
uno spettacolo quando un mio amico e collega mi fece sentire un pezzo
di questa musica affascinante e piena di energia. Poi mi disse ‘ecco,
questo è quello che dovrai suonare’, senza spartiti, tutto a memoria.
Dopo quel giorno – continua Appendino – e nei successivi tre anni mi
dedicai intensamente alla ricerca, mi documentai sia sulla musica sia
sul mondo ebraico”. Da allora i Mishkalé hanno fatto molta strada,
cambiando formazione, in un evoluzione continua per trovare una
identità propria, un modo personale e originale per tradurre questa
musica. “Non volevamo più fare semplici cover” spiega Appendino “dopo
il primo cd del 2005 abbiamo lavorato intensamente per dare un impronta
nostra ai pezzi. Anche perché, come mi disse una volta Moni Ovadia, il
klezmer non è un genere musicale ma un modo di essere”, è lo specchio
dell’identità di un popolo, di una cultura, di una tradizione. “Il
nostro è un approccio gentile da gentili” racconta il trombettista
Andrea Verza “abbiamo un profondo rispetto per i mondi da cui traiamo
ispirazione”. Dallo shtetl ai palchi di tutto il mondo, la
musica yiddish ha raggiunto il grande pubblico con il suo intreccio di
allegria e melanconia. Sentire oggi note jazz o gitane all’interno del
klezmer, è una testimonianza di come la musica non rispetti le
barriere, spaziali o culturali che siano. Si suonava nei ghetti
dell’est Europa, nei sobborghi poveri di Brooklyn per allietare Bar
Mitzva o matrimoni mentre oggi la possiamo ascoltare in una piacevole
serata primaverile torinese. Il concerto si è chiuso con una
delle canzoni ebraiche popolari più conosciute, Hava Nagila. E un
gruppo di giovani ha preso in parola il titolo del nuovo cd dei
Mishkalé, “Tanz, Tanz”, danzando e divertendosi sulle note di questa
canzone. La danza, come ricorda un racconto di rav Nachman di Breslau
citata nel cd, ha un valore curativo. Rav Nachman narrava, infatti, la
storiella dei sette mendicanti, ciascuno con un determinato difetto,
che vennero convocati al matrimonio del figlio del gran re, il quale,
nonostante il felice evento, era cronicamente malato di tristezza.
Tutti e sette i mendicanti portarono in dono una benedizione che
simboleggiava, nonostante l’invalidità, la capacita più sublime,
suggerita, in modo controverso, dallo stesso handicap. Una sorta di
contrappasso dantesco in positivo. Il primo, cieco, era dotato di
perfetta lungimiranza e di incommensurabile capacità di comprendere la
realtà. Il secondo, sordo, era puro perché non sentiva i pettegolezzi e
le maldicenze della gente. Il terzo era balbuziente, ma esprimeva idee
e parole colme di saggezza. Il settimo e ultimo era uno storpio, che,
secondo la tradizione, aveva la capacità di danzare, un talento
meraviglioso con cui incredibilmente riuscì a curare l’erede al trono
dalla sua melanconia.
Qui Torino - Vittorio Foa e la Gerusalemme rimandata
“Are
you ready? Gentlemen, are you ready?” chiedeva Lloyd George ai capi del
sindacato nel 1919, all’indomani dei grandi movimenti operai che
paralizzarono il Regno Unito. “Voi avete vinto” disse il capo di
governo inglese “noi non abbiamo nessuna forza, nei campi militari
abbiamo gli ammutinamenti, la polizia è completamente insicura, gli
industriali sono presi dalla paura, se voi fate lo sciopero avete
vinto. Siete pronti? Signori siete pronti?”. “In quel momento –
dichiarò poi il capo dei minatori – capimmo di aver perduto”. Da quella sconfitta inizia la riflessione di Vittorio Foa nella sua La Gerusalemme rimandata - Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento,
la cui riedizione è stata presentata alla Fiera del Libro di Torino.
Un’occasione per celebrare un’opera accurata e puntuale ma anche, e
forse soprattutto, per ricordare il grande intellettuale torinese,
scomparso nel 2008. “Oggi più che mai rimpiangiamo la voce di Vittorio
Foa ” sostiene Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte
Costituzionale, “nel deserto politico italiano, sentiamo la mancanza
della sua capacità di fare analisi della società per immaginare un
futuro diverso”. I ricordi si intrecciano, le parole dei relatori
ripercorrono la storia di un libro, rievocando al tempo stesso la
storia del suo autore. “Per scrivere quest’opera” ricorda lo storico
Paul Ginsborg “Foa si allontanò dalla vita politica. Erano gli anni
settanta e la classe operaia italiana stava vivendo un momento di
crisi. Vittorio iniziò a porsi delle domande sul futuro,
sull’evoluzione di questo periodo di transazione. Scelse il silenzio,
cercando delle risposte altrove”. Provò a volgere la sua attenzione al
proletariato inglese che ammirava e rispettava. Iniziò la sua ricerca,
discostandosi dagli schemi classici della storiografia tanto da
scrivere, quasi a mettere le mani avanti, “questo non è un libro di
storia”. “La Gerusalemme rimandata è stata una vera impresa per Foa”
spiega Ginsborg “penso si possa dire che quel libro lo fece addirittura
soffrire. Ma ricordo ancora la grande fiducia e serenità che riponeva
nel suo lavoro nonostante le difficoltà. Ogni mattina si alzava presto
per studiare e, a differenza di noi storici, non si isolava anzi
accoglieva chiunque passasse dal suo studio. Ricordo con affetto il suo
chiedere con un sorriso ‘gioia cara, hai dormito bene?’ ”. La sua
allegria, il suo ottimismo emergono immancabilmente nella sua opera che
Franco Marenco, docente di letteratura all’università di Torino,
definisce utopica quanto realista, un lavoro che oltrepassa i limiti
della storia. “Vittorio” racconta Marenco “era un uomo che prestava
grande attenzione alle relazioni sociali, all’incontro con l’altro,
all’idea di comunità. Da questa sua tensione si comprende il suo
interesse per il movimento operaio dell’Inghilterra degli anni venti”.
Una classe sociale viva, in pieno fermento che però inspiegabilmente,
sul confine della terra promessa, si ritira. Ad un passo dalla
vittoria, dall’arrivo alla meta tanto ambita, il movimento operaio si
sfalda, rimandando la sua Gerusalemme. Sul motivo di questa
disgregazione, Foa riflette. Ricerca nell’errore del passato la
soluzione del futuro. “Le risposte però” sostiene Ginsborg “non sono
soddisfacenti. Gerusalemme non è solo rimandata ma deve essere
ripensata. In ogni caso il punto fermo nel pensiero politico di Foa
rimane la necessità di resistere all’arroganza del potere, la visione
di un socialismo che contrappone il rispetto agli abusi”.
Daniel Reichel
Qui Torino – La Giuntina festeggia 30 anni con Il forno di Akhnai
E
sono trenta. La gloriosa casa editrice Giuntina, nata nel 1980 per
iniziativa di Daniel Vogelmann, festeggia tre decenni di attività
presentando al pubblico del Salone Internazionale del libro di Torino Il forno di Akhnai – Una discussione talmudica sulla catastrofe,
volume che dimostra ancora una volta la grande attualità del Talmud
babilonese e degli insegnamenti che si possono trarre dalle sue pagine.
A presentare il libro insieme ai tre autori (Stefano Levi Della Torre,
Joseph Bali e Vicky Franzinetti) è stato il giornalista Gad Lerner, che
ha preso spunto dal testo per fare un parallelo tra le vicende di cui
Rabbi Eliezer è suo malgrado protagonista e quelle che in questi giorni
vedono il rabbino Somekh e la Comunità Ebraica di Torino sotto i
riflettori della cronaca cittadina e nazionale. Il motivo del
parallelismo tra due storie appartenenti ad epoche così differenti? “In
ambedue i casi è evidente il fallimento della controversia, che non
trova una composizione armonica tra chi detiene la verità (o penso di
detenerla) e la maggioranza”, la sentenza del presentatore de
L'Infedele, che ha avuto Somekh come rabbino per nove anni (dal 1993 al
2002). Non tutti i presenti in sala hanno considerato opportuno questo
paragone. In breve la storia del forno di Akhnai: Rabbi Eliezer
sostiene che un forno da pane spezzato in formelle è puro e dunque
utilizzabile, mentre gli altri Saggi sostengono il contrario. Per
convincerli ricorre a miracoli strabilianti (ad esempio sposta un
carrubo con la forza del pensiero), ma i suoi antagonisti restano
impassibili perché ritengono che i miracoli non siano argomentazioni
pertinenti. Rabbi Eliezer, dopo una serie di mirabilie che non portano
ad alcun risultato, arriva a invocare la Voce del Cielo, che si
pronuncia in suo favore. Ma non è una prova sufficiente. Anzi, gli
altri Saggi la ritengono una fonte di legittimazione inadeguata: Rabbi
Yehoshua controbatte che il Cielo non c’entra niente, perché la legge
non è in cielo ma sulla terra e per la terra ed è dunque compito loro
stabilirla interpretando i testi. Allora succede quello che sembrerebbe
impensabile: Dio osserva i suoi figli che si accapigliano, sorride e
commenta: “I miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno
sconfitto”. Il testo, ambientato ai tempi della caduta di Gerusalemme e
della distruzione del secondo Tempio ad opera dei romani, è un riflesso
del passaggio da una cultura della certezza religiosa a quella
dubitativa ed interpretativa. “Una discussione più su criteri che sulle
decisioni”, spiega Della Torre. Il libro è complesso, tanto che Lerner
commenta: “Andrebbe letto almeno tre volte per capirlo in tutte le sue
dimensioni”. Bali approfitta dell’assist per buttarla giù in battuta:
“Allora ne dovete comprare tre copie”. Ma ironie e scherzi a parte, Il
forno di Akhnai ha il grande merito di farci porre un interrogativo
valido in ogni tempo e società: come affrontare e gestire una
situazione di cambiamento o di radicale trasformazione?
Adam Smulevich
Qui Torino - Le Scintille di Gad Lerner
Molteplici
sono i filoni lungo i quali può essere letto l'ultimo libro di Gad
Lerner, Scintille. Questa l'opinione del teologo cattolico di
orientamento progressista Vito Mancuso, amico e consueto conversatore
di Lerner, che indica le principali chiavi di lettura al pubblico del
Salone del libro. “Prepotente – secondo il teologo – si afferma
l'aspetto psicanalitico della narrazione, quello che scava nel profondo
le dinamiche psichiche del rapporto col padre e con l'ebraismo. In
questo momento della narrazione Lerner mette a nudo le sue paure e le
sue vergogne”, vergognosamente legate all'essere ebreo: “esiste una
sgradevolezza ebraica?, si chiede Lerener”. È una domanda che non tutti
hanno il coraggio di confessare, è l'ostensione pubblica del complesso
dello straniero. “Solo grazie alla fortuna sfacciata che ho avuto nella
vita familiare e professionale – ammette Lerner – ho avuto la
possibilità di fare certe confessioni, la disponibilità a mettersi in
cattiva luce”, a esporre vicende tanto intime. “Il secondo filone
– continua Mancuso – è quello storico-geopolitico, di straordinario
interesse”. “Ripercorre le vicende del Libano, il tema dell'infelicità
araba, rievoca momenti drammatici come la strage di Sabra e Shatila,
arriva fino a descrivere la presa del potere degli Hezbollah”. Ma,
grazie ad artifici quasi sensisti da scrittore consumato, “Lerner ci fa
assaporare anche la sensualità delle donne libanesi”, gli intensi
profumi della terra dei cedri. “Un altro punto di interesse del
testo di Gad – nota Vito Mancuso – sono i richiami letterari, su tutti
quello a Bruno Schultz, e poi Primo Levi”, che l'autore, in gioventù,
ebbe modo di intervistare, “e David Grossman”. Ma il tema che più
interessa, che più attiene alle competenza di Vito Mancuso è quello
teologico-filosofico. “C'è una concezione filosofica dell'uomo e della
sua anima in questo libro – spiega l'autore de L'anima e il suo destino
– in molti tratti della quale mi ritrovo perfettamente”. La spiegazione
di Mancuso trova il suo perno nel concetto di Gilgul, vagabondaggio
delle anime, “che originariamente doveva essere il titolo del libro”,
racconta Lerner. “L'anima è la vita, considerata in tutte la sue
manifestazioni – argomenta il teologo. Da Scintille esce chiaramente
l'immagine di un'anima a strati, determinata dalla molteplicità di
tradizioni e relazioni che costituiscono il nostro universo mentale”.
Lerner conferma: “sono da sempre legato all'idea di un'identità
dinamica, non un'essenza statica e immutabile, piuttosto un edificio in
continua costruzione”, costruzione i cui mattoni sono essenzialmente le
relazioni umane. “Ecco perché il gilgul, il vagabondaggio, è così
centrale – è la spiegazione teologica del professore. Si tratta di un
precetto che troviamo nel testo bilbico”, l'indicazione esistenziale
che Dio rivolge ad Abramo: “Lekh lekhà, vattene via, vai verso te
stesso”. È la condizione vagabonda, l'instabilità , la relazione anche
conflittuale con l'altro – questo il punto che mette d'accordo il
teologo cattolico e il giornalista ebreo - “il luogo in cui realizzare
se stessi, dare identità e scopo alla propria anima”. Preso
dall'entusiasmo, Mancuso chiama in causa addirittura Hegel, definendo
il libro di Lerner “una fenomenologia dello spirito del nostro tempo”:
la sua vicenda particolare, esaminata, lungo i diversi filoni
illustrati, con tale profondità e sincerità, “intercetta le
determinazioni di quella comune a tutti, ovvero il viaggio che l'anima
deve compiere nel mondo”.
Manuel Disegni, Rossella Tercatin
Qui Torino – Yeud sull'informazione
Si
è concluso ieri a Torino il terzo appuntamento di «Yeud», il progetto
che mira alla formazione dei futuri leader delle nostre Comunità.
L’idea è nata grazie alla sinergia tra l’assessorato ai Giovani
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il Corso di Laurea in
Studi Ebraici e L’Unione Giovani Ebrei d'Italia (Ugei). Nel terzo
capitolo di questo percorso, coordinato dalla vicepresidente Ucei,
Claudia De Benedetti, è stata protagonista la Comunicazione: i ragazzi
hanno avuto l’opportunità di ascoltare i direttori delle più importanti
testate comunitarie. Venerdì scorso il giornalista Guido Vitale, che
coordina i dipartimenti Informazione e Cultura dell'Unione, ha
ripercorso la storia della nascita del Portale dell'ebraismo italiano
www.moked.it e del giornale dell'ebraismo italiano Pagine ebraiche. E
non è mancata la testimonianza dei giovani praticanti, che da ormai
diversi mesi lavorano in redazione. È stata poi la volta di Amalia
Luzzati, vicepresidente dell’Ugei, che ha raccontato la rinascita dello
storico giornale dei giovani, Hatikva. Sabato non potevano mancare gli
interventi dei direttori delle testate delle comunità di Roma e Milano.
Giacomo Kahn e Fiona Diwan hanno esaminato le problematiche che stanno
dietro la pubblicazione di un mensile ufficiale di una Comunità. A
raccontare la sua esperienza è stato poi David Sorani, direttore della
storica testata torinese Hakeillà: un giornale ebraico indipendente. Il
contributo dei direttori è servito a fotografare la comunicazione nelle
nostre Comunità. Nonostante la situazione particolare in cui si trovava
la realtà torinese, nel pieno della polemica sull'incarico revocato al
suo ex capo rabbino, non sono mancate, oltre l’ospitalità, gli
interventi delle massime cariche. Rav Somekh ha aperto i lavori il
venerdì raccontando la sua esperienza di lavoro nel capoluogo
piemontese. Di seguito gli interventi del presidente della Comunità
Ebraica di Torino, Tullio Levi e della direttrice delle Scuole, Marta
Silva. Infine la testimonianza dell’Assessore alla Cultura, Sara
Kaminski. Tra gli ospiti, molti nomi della comunicazione ebraica e non:
da Angelo Pezzana tra i fondatori del Salone del Libro di Torino e
promotore di Informazione corretta, a Vera Schiavazzi, direttore del
Master in Giornalismo dell’Università di Torino e giornalista de La
Repubblica, che ha messo a confronto l’esperienza della Comunità
Valdese con quella ebraica. Anche qui la parola d’ordine è stata
Comunicazione. Un pilastro oggi fondamentale per la formazione dei
leader di domani.
Alan Naccache
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L'ortodossia italiana
Ma davvero essere ortodossi significa essere rigidi e antiquati? Avere
certezze assolute? Rimanere ciechi di fronte ai mutamenti del mondo?
Sordi alla cultura circostante? Immobili e fermi – quasi medievali
insomma? Definizioni di questo genere sono emerse negli ultimi giorni,
in modo neppure molto larvato. Agli esordi dell’emancipazione
l’ebraismo europeo ha conosciuto la divisione della “riforma” che ha
trovato terreno fertile nella Germania della Haskalà. E molto
illuminista è l’atteggiamento di chi vuole riformare. Perché si reputa
soggetto autonomo e sovrano che, ricorrendo ai lumi della ragione, può
passare al vaglio la tradizione. Ma perché mai quella regola antiquata?
E quella mitzvà così inspiegabile? E perché non cambiare qui e là i
testi, anche quelli millenari? Non sorprende che il movimento abbia
attecchito nel paese della Riforma per eccellenza, la Germania, e da lì
sia poi sbarcato negli Stati Uniti. L’umanesimo italiano, che si è
protratto fino oltre il Settecento – basti pensare a Vico – e ha avuto
tra i suoi esponenti anche rabbini illustri, fino a Elia Benamozegh, ha
costituito in Italia un argine. Perché ha insegnato non solo a
diffidare della ragione (che è del singolo e si pretende universale),
ma a interrogare la tradizione nella consapevolezza che già la domanda
innova. Il che ebraicamente si traduce in quella temimùth del “faremo”
che precede l’“ascolteremo”. Diverso è dunque l’atteggiamento verso la
Legge. Compiere una mitzvà può dischiudere una dimensione prima
sconosciuta; non compierla può rinviare ai propri limiti. E il
riconoscimento dei propri limiti fa parte dell’umanesimo ebraico. La
tradizione dell’ortodossia italiana, flessibile, umana, “soft” – come
dicono gli stranieri che la conoscono e l’apprezzano – è un bene
prezioso, insieme dell’ebraismo e della cultura italiana, che dovrebbe
essere riconosciuto e valorizzato molto di più.
Donatella Di Cesare, filosofa
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rassegna stampa |
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Il Nobel ElBaradei al clan Mubarak: «Un Egitto libero» Tra
tappeti antichi e quadri moderni, nel suo salotto nel cuore di Vienna,
Mohammed ElBaradei si concede una pausa. Il paladino della diplomazia
con l'Iraq e l'Iran, l'egiziano dai baffi curati e gli occhiali
tartarugati che la Cia sotto Bush sorvegliava con una cimice nel
telefono ha lasciato a dicembre la guida dell'Agenzia internazionale
per l'energia atomica dell'Onu, dopo 12 anni e un Nobel per la Pace. Ma
non s'è abbandonato a tempo pieno ai suoi hobby jazz, poesia, comprare
vestiti alla nipotina Maya di 2 anni. A 67 armi, la sua vita è più
intensa che mai. Tiene conferenze sui «problemi globali» e, appena può,
va in Egitto dove intellettuali e membri dell'opposizione lo spingono a
candidarsi nel 2011 alla presidenza, che Hosni Mubarak detiene da 29
anni. Si candiderà se le elezioni saranno democratiche, ha detto. E con
lo slogan taghyeer (cambiamento) ha lanciato una petizione per
riformare il processo elettorale e abolire la legge marziale in vigore
dal 1981, appena prorogata di 2 anni. «L'Egitto rischia di esplodere»,
scrive su Twitter. «il cambiamento è inevitabile». Lei avverte che l'Egitto «è una bomba a orologeria». Perché? «Se
si continua a reprimere la gente con la legge di emergenza, col
carcere, negando diritti fondamentali come quello di riunirsi, prima o
poi ci sarà una rivolta. Nessuno è felice. Il 42% degli egiziani vive
con un dollaro al giorno, il 30% non sa leggere e scrivere, la
disoccupazione è dilagante, la corruzione ovunque... Per la maggioranza
la priorità sono i bisogni primari, non c'è speranza per il futuro. E
se hai i soldi, vivi isolato in zone residenziali ma non puoi comprare
l'aria pulita o una burocrazia funzionante. Nessuno sente di poter
controllare il proprio destino. Voglio far capire al regime che è
meglio cambiare in modo pacifico». [...]
Viviana Mazza, Il Corriere della Sera, 17 maggio 2010
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notizieflash |
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Qui Venezia - Luzzatto verso la presidenza della Comunità
Amos
Luzzatto sarà il nuovo presidente della Comunità ebraica di Venezia. La
nomina sarà ufficializzata in occasione della prima riunione di
Consiglio aperta alla Comunità che si terrà questa sera, ma la notizia
è ormai più che confermata. Quest’anno si è registrato un notevole calo
della percentuale di votanti che si attesta per questa tornata
elettorale sul 45,3 per cento degli aventi diritto contro il 57,1 per
cento delle precedenti elezioni del 2006. Luzzatto, che è stato in
passato presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha
ottenuto il numero più alto di consensi (119 voti), confermando le
indiscrezioni circolate in Comunità nelle scorse settimane che lo
volevano candidato alla presidenza. A seguire, nella lista dei
consensi, Mario Gesuà Sive Salvadori (107 voti) e Corrado
Calimani (70 voti). Gli altri candidati eletti in consiglio sono:
Luciano Silva (69 voti), Claude Sciaky-Menasche (58 voti), Enrico
Mariani (57 voti), Annavera Sullam (52 voti). Nella riunione di questa
sera oltre all’ufficializzazione del presidente, del vicepresidente e
dei membri di giunta, verranno probabilmente assegnate anche le
principali deleghe. M.C.
Qui Firenze – Arnoldo Foa visita sinagoga e museo ebraico
Era
tanto che non ci metteva piede. A distanza di molti anni dalla sua
ultima visita, Arnoldo Foa è tornato a varcare la soglia della sinagoga
di Firenze. Il grande volto del teatro italiano, in città per prendere
parte alla maratona vocale che rende omaggio a Dante Alighieri, ha
voluto concedersi una passeggiata nel luogo sacro di via Farini e nelle
stanze del museo ebraico, soffermandosi per alcuni minuti nella Stanza
della Memoria, dove è riprodotta una sua lettura di Se questo è un uomo. La
visita di Foa nel Beth Haknesset fiorentino è stata organizzata e
fortemente voluta dall’architetto Renzo Funaro, presidente dell’Opera
del Tempio Ebraico e coordinatore dei lavori di restauro e di
illuminazione che si sono appena conclusi e che hanno riportato la
sinagoga e la sua verde cupola agli antichi fasti di un tempo. as
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
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