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L'Unione informa
 
    28 maggio 2010 - 15 Sivan 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Rabbì Yoseph Caro apre lo Shulchàn ‘Arùkh con le parole: "Quando uno si sveglia, deve essere forte come un leone ed alzarsi". R’ Moshè Isserles aggiunge: "E quando va a dormire sappia di fronte a chi ci si corica". “Per Isserles non è possibile alzarsi come un leone se si dorme prima come un  cavallo”. (Rabbì Meir di Parmishlan). Ci sono persone che dopo aver dormito per anni a un certo punto si svegliano convinti di essere leoni ed elargire teorie e strategie per il futuro dell’ebraismo. 
Quattro i nodi da affrontare nei problemi di un sistema scolastico: la valutazione, il curricolo, la formazione degli insegnanti e il sostegno della comunità. A detta degli esperti le combinazioni che escludono un solo fattore tra quelli segnalati portano a soluzioni perdenti e  inefficaci. Una semplice domanda rivolta a tutti coloro che hanno a cuore  l'educazione ebraica e il futuro delle nostre scuole: da quale iniziamo?  Sonia
Brunetti Luzzati,

pedagogista
sonia brunetti  
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  Qui Gerusalemme - "Angeli e Demoni" miti e credenze in mostra

mostraLa credenza che il mondo sia abitato da forze invisibili o da esseri sovrannaturali, come spiriti, angeli e demoni, è comune, sebbene in forme diverse, alla maggior parte delle tradizioni e delle religioni conosciute. Che tali entità poi siano capaci di trasmettere le conoscenze e di fornire gli strumenti per influenzare gli eventi e dominare i fenomeni fisici, è un elemento che per secoli ha tormentato e allo stesso tempo attratto l’umanità intera e che non ha risparmiato neppure la tradizione ebraica.
La nuova mostra inaugurata di recente al Bible Lands Museum di Gerusalemme e intitolata “Angeli & Demoni: La magia ebraica attraverso i secoli” sottolinea per l’appunto quanto alcuni elementi di superstizione fossero estremamente radicati nella tradizione del popolo ebraico. L’esposizione esamina le origini e lo sviluppo della magia nell’ebraismo, dal periodo del primo tempio fino ai giorni nostri con un focus sui principali manufatti riconducibili a pratiche occulte: da pendenti contro il malocchio a pergamene di benedizione per la casa, ad amuleti di protezione per i bimbi appena nati.
Questi amuleti in particolare, richiamano alla curiosa leggenda di Lilith riportata ampiamente da fonti midrashiche e talmudiche. Secondo una delle versioni Lilith, prima moglie di Adamo e creata dalla terra insieme al primo uomo, non volendo rinunciare alla propria eguaglianza, decise di fuggire dal giardino dell’Eden. In seguito Lilith si accoppio con Asmodai e altri demoni che incontrò oltre il Mar Rosso, generando un’infinta schiera di demoni. Adamo chiese però all’Onnipotente di riportare indietro Lilith, così tre angeli, Sanwy, Sansanwy, Smnglf, vennero inviati alla ricerca della fuggitiva. Quando i tre angeli trovarono Lilith, le ingiunsero di tornare pena la morte dei figli che lei aveva generato con i demoni. Lilith  li supplicò allora di non farlo, promettendo che non avrebbe toccato i discendenti di Adamo ed Eva, se solo si fossero pronunciati i nomi dei tre angeli.
In una sezione apposita della mostra debitamente nascosta da un telo nero, sono esposti invece  gli oggetti proibiti legati alle pratiche oscure e alla magia manipolativa: ricette di pozioni, maledizioni e feticci vari. Elementi che, sebbene si richiamino nella loro simbologia alla mistica ebraica, rappresentano in realtà un coacervo di tradizioni neoplatoniche, gnostiche, ermetiche, astrologiche, alchimistiche in cui la componente cabalistica è praticamente nulla.
Si prenda ad esempio re Salomone e le relative speculazioni esoteriche circolanti intorno alla sua persona. La tradizione medioevale attribuisce a Salomone, considerato un mago e un esorcista, tutta una serie di testi di magia rituale che nulla hanno a che fare con la dottrina mistica ebraica: dal Testamento di Salomone, in cui si narra come il re abbia esercitato il suo potere magico sui demoni per costringerli a costruire il Tempio di Gerusalemme alla Clavicula Salomonis, un vero e proprio grimorio in cui vengono descritte nei particolari le procedure e i rituali di evocazione e coercizione dei demoni.
In realtà la legge ebraica è molto chiara in merito. Nel Deuteronomio troviamo infatti la proibizione ad esercitare le arti magiche: “Non si dovrà trovare in mezzo a te chi farà passare suo figlio o sua figlia attraverso il fuoco, né chi farà sortilegi o chi farà l’indovino, il mago o lo stregone, l’incantatore o il necromante…”
Ma il confine tra religione e superstizione risulta essere tutt’ora estremamente labile. Alcune credenze sono infatti ancora oggi molto diffuse nella società israeliana moderna, anche tra gli ebrei che si ritengono più secolarizzati. Dai tipici amuleti a forma di mano contro il malocchio, i Hamsa, ai celeberrimi fili rossi di Rachel reclamizzati come braccialetti protettivi, ma che risultano essere solamente un’ottima invenzione commerciale che trova scarsi o dubbi riferimenti nei principali testi Kabbalistici.

Michael Calimani


Qui Roma - Lectio magistralis di Steven Katz
La resistenza ebraica durante l'occupazione nazista


LectioE' esistita una resistenza ebraica nei ghetti durante l'occupazione nazista? Gli ebrei dell'epoca accettarono il proprio destino passivamente o tentarono qualche forma di ribellione? E perché non interpretarono correttamente i segnali di pericolo che già prima del 1941-42 provenivano da ogni parte d'Europa? Interrogativi drammatici ai quali ha cercato di dare una risposta il professor Steven Katz direttore del Wiesel Center della Boston University e autore di numerose pubblicazioni sull'argomento, ospite dell'Ateneo Roma Tre per tre mesi nell'ambito delle attività del Dipartimento di Scienze dell'Educazione e del Master internazionale di II livello in Didattica della Shoah tenendo alcuni incontri sul pensiero religioso ebraico di fronte alla tragedia della Shoah.
A moderare la lectio magistralis che si è svolta ieri nella sala del Consiglio della Terza Università il professor David Meghnagi direttore del Master “Il tema della resistenza ebraica è particolarmente complesso. Gli ebrei nei ghetti dovettero fronteggiare una situazione di isolamento unica e incomparabile. - Ha detto Meghnagi introducendo l'intervento del professor Katz - Erano isolati dal mondo, dimenticati dagli alleati che avevano altre priorità e non volevano che la guerra fosse vista come una "guerra ebraica" guardati con ostilità dalla maggioranza della popolazione in Polonia, Lituania, Romania e Ucraina, privi di copertura e di luoghi dove potersi nascondere, esposti a rappresaglie feroci e indiscriminate contro l'intera popolazione in caso di fuga di qualcuno, senza cibo, in condizione di sovraffollamento. In queste condizioni  l'unica forma di resistenza possibile era una resistenza spirituale e fisica”.
“L'errore da evitare quando si descrive la tragedia della Shoah – ha concluso Meghnagi lasciando la parola al professor Katz - è di proiettare la conoscenza che ne abbiano oggi con la consapevolezza che ne potevano avere coloro che l'hanno subita, gli esiti con le premesse, le fasi finali con quelle iniziali, dimenticando che si trattò di un processo avvenuto per fasi.
Ed è da qui che parte l'analisi del professor Katz. Gli ebrei dell'epoca non ebbero assolutamente la percezione di trovarsi in un pericolo maggiore di quello che avevano dovuto affrontare nel corso dei secoli, avevano vissuto 2000 anni di persecuzioni e considerarono il momento che stavano vivendo come una ripetizione del passato, l'unica cosa da fare quindi era quella di aspettare, guadagnare tempo perché prima o poi sarebbe passata e questo è il primo, ma comprensibile grande errore di valutazione che essi commisero. Il secondo errore consiste nell'essersi considerati schiavi del Regime nazista e questo non era rispondente alla realtà dei fatti perché lo schiavo serve per il lavoro mentre nella mente di Hitler c'era lo sterminio totale, accettarono quindi fra le altre cose di essere rastrellati dalle proprie case e rinchiusi, come nel caso del Ghetto di Varsavia, in cinquecentomila in un area che avrebbe potuto contenere cinquantamila persone, in condizioni igieniche disastrose, dividendo la propria dimora con persone sconosciute. Nel Ghetto di Varsavia gli ebrei privati di tutto, morivano per fame, freddo, malattia, mancanza di assistenza medica. Fuggire, emigrare, significava morte sicura di tutta la famiglia che era rimasta.
Eppure una resistenza ebraica ci fu, oltre alla tragica ed eroica vicenda degli ebrei del ghetto di Varsavia che resistettero dal 19 aprile al 16 maggio 1943, ci furono tentativi di resistenza anche nei campi di sterminio di Treblinka di Sobibor e anche di Auschwitz dove alcune donne prigioniere sottrassero esplosivo da una fabbrica di armi e fecero esplodere parte del forno crematorio IV. I prigionieri tentarono la fuga ma poco dopo furono uccisi tutti e 250. Ma la resistenza ebraica ebraica vera e propria non fu combattuta con le armi e non era una resistenza organizzata, l'unica resistenza possibile era la resistenza spirituale e la resistenza fisica. Laddove i nazisti tentavano di annientarli, togliendo loro ogni dignità, gli ebrei riaffermarono la propria identità: nel Ghetto di Varsavia si continuava a mangiare kasher, a fare scuola ai bambini, a pregare, a suonare, la stampa ebraica forniva la propria versione della guerra e attraverso l'attività di Oneg Shabbat, un'associazione che in quegli anni creò e custodì l'archivio del Ghetto fu documentato tutto quello che avvenne. Purtroppo di questi preziosi documenti solo due blocchi sono stati trovati, tutto il resto è andato perduto.
 
Lucilla Efrati
 

Qui Firenze - Cento giovani per il Maccabi Day

MaccabiL’appuntamento è per domenica mattina alle ore 10.30 alla Virgin Active di Rovezzano, paradiso fitness e centro sportivo che rappresenta la meta quotidiana di migliaia di fiorentini desiderosi di scaricare su un tapis roulant o in piscina le tensioni accumulate al lavoro. Nelle prossime ore circa 130 ragazzi dagli 8 ai 14 anni, provenienti da varie Comunità ebraiche italiane, raggiungeranno il capoluogo toscano per il Maccabi Day, una giornata di giochi e gare organizzata dalla Federazione Italiana Maccabi in collaborazione con l’Ufficio Giovani Nazionale (Ugn) UCEI, il Dipartimento Educativo dell’Assessorato ai Giovani della Comunità ebraica di Roma e la Comunità ebraica di Firenze. Giochi senza frontiere 2010, questo il sottotitolo alla manifestazione che si ispira (non solo nel nome e nel formato ma anche nel logo) al popolare programma andato in onda sul piccolo schermo fino al 1999, è pensato per varie tipologie di partecipanti, di gusti e abilità differenti. Gli sport previsti per il GSF kasher vanno dal calcetto al mini basket, passando per mini volley, corsa sulla distanza dei 50 metri e tiro alla fune. In programma anche due curiose fusioni tra discipline agonistiche molto differenti nelle dinamiche: basket/tennis e calcio/tennis. Le squadre in lizza saranno miste. Come omaggio per tutti i partecipanti una maglietta e un cappellino in ricordo della giornata. Mauro Di Castro, tra gli organizzatori del Maccabi Day e assessore alle attività socio-culturali della Comunità ebraica di Firenze, spiega: “Questa iniziativa vuol essere solo la prima di tante che portino Firenze ad essere il centro delle attività degli enti e dei movimenti ebraici giovanili italiani”. 

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  La trappola della memoria

anna segreTi ricorderai che fosti schiavo in Egitto, e osserverai e metterai in pratica queste leggi (Devarim 16,2).
Il precetto di ricordare, qui come in altri punti della Torà, non è fine a se stesso, ma è legato a un impegno concreto per il presente e per il futuro (osservare e fare). La tradizione ebraica sembra quasi diffidare della storia in sé, per il puro gusto di ricostruire il passato. In effetti ciascuno di noi seleziona e interpreta i fatti a modo suo e fatica ad accettare che la stessa vicenda possa essere raccontata diversamente. A volte nella nostra vita quotidiana, e nelle nostre comunità, si passa troppo tempo a discutere su come, perché e per colpa di chi si siano creati determinati problemi; questo non solo è poco utile, ma non aiuta il confronto, perché difficilmente ciascuno si staccherà dalla propria memoria personale. Mi sembra più facile riconoscere le ragioni altrui quando si discute del presente e del futuro, si confrontano le diverse visioni e opinioni, si analizzano le soluzioni possibili per ogni problema e si cerca una mediazione che soddisfi il maggior numero possibile di persone. La memoria condivisa in alcuni casi non dovrebbe essere il punto di partenza, ma forse potrebbe essere quello di arrivo.
Anna Segre, insegnante
Anche 


Anna Segre, insegnante


Comix - La guerra di Kubert

comixJoe Kubert è tornato. Con l’uscita del nuovo sceneggiato “Pacific” già si parla di storiografica filmata e si attribuisce a Tom Hanks e Spielberg un ruolo di nuovi storiografi che attraverso la pellicola raccontano un periodo eroico, forse uno dei pochi, della storia statunitense. In realtà non possiamo dimenticare tutti quei film, primo fra tutti “Il giorno più lungo” dove il D-Day è raccontato con una discreta precisione aneddotica.
Il fumetto ha sempre giocato una partita strana e doppie facce: se da un parte la guerra ha stimolato diverse serie come Supereroica in Italia, ha anche favorito la produzione di autori come Hugo Pratt o Toppi, che nel realizzare i loro fumetti hanno sempre prestato molta attenzione alla documentazione storica.
Negli Stati Uniti Harvey Kurtzman scrisse storie veramente brevi, ma ben documentate sulla rivista Frontline Combat della EC Comics.
Un altro autore che a macchia di leopardo ha prodotto fumetti storici è Joe Kubert che proprio in queste settimane è tornato nelle librerie statunitense con una nuova graphic novel “Dong Xoai: Vietnam 1965”.

comixÈ il racconto della scontro tra le forze del Viet Cong da una parte e americani e vietnamiti del sud dall’altra, tra il 10 e l’11 giugno del 1965, risoltasi con una vittoria tattica delle forze Viet Cong.
Kubert ha ormai alle spalle diversi lavori dedicati alla storia americana e non, oltre a opere come “Fax da Sarajevo” e “Yossel: April 19, 1943 (2003)”.
Si sa che la guerra del Vietnam è rimasta la grande ferita collettiva della società statunitense, così come l’11 settembre e le due successive guerre, che hanno “frullato” gli americani lasciandoli in uno stato perenne e continuo di guerra. Ma le ferite sono sempre anche personali e collegate alla vita di ogni persona. La generazione di Kubert non può dimenticare o cancellare il Vietnam così come arrivando a età matura non si può che cercare di riepilogare, affrontare, riflettere sulla propria Storia.
Kubert compirà 84 anni il 18 settembre del 2010 e va sottolineato che sembra proprio che non voglia, per fortuna, andare in pensione, ma anzi dritto sulla retta via della creatività, disegna ancora.
A breve riceverà il Milton Caniff Lifetime Achievement assegnato dalla National Cartoonists Society.

Andrea Grilli

 
 
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Proviamo a mettere insieme, come se fossero pedine di una medesima scacchiera (ma non necessariamente dello stesso gioco), l’insieme degli elementi che abbiamo a disposizione, per stabilire se c’è una qualche coerenza tra fatti - o se è possibile inferire qualcosa dal raffronto tra di essi -, apparentemente molto diversi tra loro. Il primo rimando è quello alla cronaca spicciola, quella che passa tra le pieghe della quotidianità, il cui punto di forza è non solo l’essere il soggetto di storie apparentemente secondarie, ma il ripetersi con preoccupante costanza. Ancora una volta il movimento estremista Militia ha lasciato la sua firma, “recapitando” alla collettività due striscioni provocatori, esposti su un cavalcavia della tangenziale est di Roma. Il prevedibile contenuto sono scritte contro il sindaco della città Gianni Alemanno e il Presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici nonché espressioni nostalgiche sull’inimitabile e imperituro «stile di vita» fascista. Ne fanno una cronaca stringata, ma sufficiente, Laura Bogliolo sul Messaggerov e Giulia Bertagnolio su E Polis Roma, mentre sia la Repubblica, nelle pagine romane, che il Giornale rimandano con brevi francobolli al fatto. Che è in sé del tutto secondario se non fosse la punta più delirante di un iceberg dentro il quale molte altre cose, tra di loro anche molto diverse, si tengono e trattengono. L’apologia del fascismo, peraltro mai venuta meno in quelle consistenti nicchie ideologiche e culturali che dal 1945 hanno continuato a riannodarsi a esso, trova oggi un’insperata opportunità di attualizzazione in una serie di circostanze che sdoganano le passioni trascorse, non tanto per rivalutarne un qualche improbabile trascorso politico, di impossibile riedizione, quanto per riproporne la dirompente carica simbolica, parte ineludibile della seduttività che i regimi totalitari hanno da sempre esercitato sulle grandi collettività. Non è un caso se il dispotismo moderno, quello esercitato su una massa di individui in qualche modo consenzienti, abbia trovato nei momenti di più intensa crisi economica il suo momento maggiormente fertile, riuscendo a incanalare le passioni e i risentimenti attraverso un linguaggio semplice, al limite del primitivismo, camuffato da amabile razionalizzazione dell’esistente. A esso si legava la promessa di un orizzonte migliore, fatto di conquiste e di glorie, nel nome di una identità uniforme, che si doveva imporre su tutti e a qualsiasi costo. Vanno allora riletti in chiave critica tutta una serie di eventi, tra di loro peraltro non connessi, ovvero non risultanti come il prodotto di una unica volontà, che tuttavia ci raccontano un po’ dello spirito del tempo corrente, all’insegna di una carica ambigua di fondo. Su Libero viene pubblicata, con un breve distico introduttivo della redazione, la lettera che Emanuele Fiano ha inviato al direttore della testata, polemizzando sul modo in cui viene offerta alla fruizione dei lettori una raccolta di discorsi di Benito Mussolini. Poiché, ed è la tesi dell’estensore dell’epistola, se parlare del fascismo nulla ha a che fare con la sua apologia, il lasciarlo parlare, senza alcuna contestualizzazione, è una impresa altamente pericolosa. Un po’ come maneggiare delle sostanze esplosive, capaci di combinarsi da sé e di produrre effetti ingestibili. La forza dei regimi totalitari sta, tra le altre cose, nel loro offrirsi come “spontanea” manifestazione di un “comune sentire”, quello più strettamente pulsionale. Si tratta del nocciolo della loro identità populista, che è parsa il più delle volte verosimile e condivisibile a molti dei contemporanei. Mussolini lo sapeva bene quando, parlando senza alcuno filtro (che avrebbe altrimenti innescato un qualche processo critico tra gli astanti), si riferiva alla sua capacità di interpretare, con la sua proverbiale verve oratoriale, l’«inconscio degli italiani», solleticandone i desideri inconfessabili e le passioni irrealizzabili. Il fascismo fu anche questo, un perverso sogno di grandezza, che si alimentava del senso di angustia di molti tra quanti, per molto tempo, lo “ascoltarono” con diligente identificazione, per poi rendersi conto, troppo tardi, che ne avrebbero subito dolorosamente le conseguenze dei suoi velenosi e mefitici frutti. In questo quadro, dove peraltro si inserisce anche l’accostamento operato - di sua sponte - dal Presidente del Consiglio, tra i vincoli del suo dicastero e quelli ai quali avrebbe soggiaciuto a suo tempo Benito Mussolini, vanno quindi sottoposte a un riflessione meno frettolosa due altre notizie coeve ma di segno esattamente opposto. Da una parte Fabio Perugia, su il Tempo, ci racconta del varo in sede capitolina del primo teatro dedicato ad Anna Frank. Nel testo dell’articolo è ribadito il sostegno diretto dei Isabella Rauti, moglie del sindaco di Roma Alemanno e consigliera regionale. All’attenzione (e all’identificazione) che una parte del mondo politico offre, con evidente sincerità, alle tragiche vicende e alle infinite sofferenze dell’ebraismo continentale nel corso del secondo conflitto mondiale, fa da contrappunto l’insofferenza che traspare nel trattare temi non solo congruenti ma direttamente connessi a quei fatti, che ne contestualizzano semmai i loro contenuti, rendendoli comprensibili agli osservatori di oggi offrendoci una ratio non solo umana ma anche politica e culturale del loro accadere. Ci riferiamo in particolare a quanto Alessandro Portelli, storico sociale di vaglia, grande conoscitore della Roma dell’occupazione nazista, narra su il Manifesto quando racconta della difficile situazione finanziaria in cui si trova il Museo della Liberazione di via Tasso. C’è come un gioco di contrappesi, da certuni rivendicato anche brutalmente come diritto ad una storia di parte, ovvero ad una ricostruzione del passato funzionale alle divisioni del presente, da altri mitigato nel giudizio sull’inesorabile trascorrere delle sensibilità, e sulla loro intercambiabilità morale ed etica, per il quale una cosa - prima o poi - escluderebbe l’altra. Poiché - ed è quello che molti pensano, anche se sono ben poco disponibili a riconoscerlo - la narrazione del passato è sempre partigiana e certe ricordi se appartengono ad una parte non possono essere i propri. Si tratta di una vera e propria lottizzazione della storia che è funzionale al suo uso strumentale e selettivo, secondo una logica che travolge non tanto il discorso storiografico (fin qui poco male, insomma) quanto la capacità di riflessione sul presente. Cristallizzandola dentro categorie mentali asfittiche che, proprio nel nome dell’avversione alla ideologia, la rivalutano come nuova forma di alienazione culturale. Il fascismo, come perdurante «stile di vita», si alimenta anche di questa polarizzazione, che riduce la complessità dell’esistente a una serie prevedibile di condotte, atteggiamenti e identità. E per avere un riscontro di buon senso sul piano delle riflessioni che andiamo facendo si legga la sempre puntuale «bustina» di Umberto Eco, anche questa settimana pubblicata da l’Espresso, dove l’autore risponde sagacemente alle affermazioni di Gianni Vattimo sul merito del boicottaggio nei confronti di Israele. Di boicottaggi parlano poi questa mattina anche Dimitri Buffa su l’Opinione e Flavia Fiorentino su il Corriere della Sera. Ripetendo quanto già aveva fatto ieri su altre testate, la Coop, nell’occhio del ciclone, pubblica oggi la sua presa di posizione per il tramite delle pagine del Sole 24 Ore. Mentre uno sguardo sulla dimensione internazionale ci è offerta da Gigi Riva sulla pagine de l’Espresso, dove ci si sofferma sull’evoluzione geopolitica della Turchia. Insomma, in quest’ultimo caso ancora di una scacchiera si tratta, ma qui il gioco, che c’è per davvero, rivelando un disegno piuttosto netto, pare destinato ad avere degli effetti molto netti e, forse, anche a breve.
 
Claudio Vercelli

 
 
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Parigi: vertice Ocse, l'adesione d'Israele                                          
e i colloqui fra Berlusconi e Netanyahu
Parigi, 27 mag -
"Ci fa molto piace che Israele si unisca ai paesi dell'Ocse. Già io come altri paesi europei l'abbiamo invitato a entrare in Europa perché è vicina a noi per cultura e tradizione", così il premier Silvio Berlusconi ha accolto l'adesione dello Stato israeliano all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Assieme ad Israele, in occasione dell'annuale vertice interministeriale Ocse, quest'anno presieduto dall'Italia, si è registrata l'adesione di Estonia e Slovenia. Il vertice riunisce i ministri dell'area economica di 40 Paesi, che rappresentano l'80 per cento circa dell'economia mondiale. A margine del vertice Silvio Berlusconi ha incontrato il premier Netanyahu e a quanto si apprende i due "hanno avuto uno scambio di idee sulla situazione internazionale, in particolare sul processo di pace in Medio Oriente e sull'Iran". I due hanno anche "approfondito temi di cooperazione economica bilaterale, che erano già stati avviati durante la visita di Berlusconi a Gerusalemme". "I toni dell'incontro con Netanyahu - hanno concluso le fonti - sono stati molto cordiali".
 
 
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