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L'Unione informa |
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1 giugno 2010 - 19 Sivan 5770 |
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alef/tav |
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Roberto
Della Rocca, rabbino |
Ogni lingua è definita nell'ebraico safà. Infatti safà zarà è la lingua straniera come la safà anglìt, la lingua inglese; la safà tzarfatìt, la lingua francese etc. Solo la lingua ebraica è definita lashòn ha qodesh, la lingua del sacro. La parola safà è imparentata con la parola sefataim che significa labbra, a indicare che ogni lingua è il risultato di un movimento labiale. Lashòn
invece è la lingua anatomica, evidenziando che l'uso dell'ebraico
costituisce il risultato di un movimento che è interno a noi stessi. |
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Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune. (Sandro Penna)
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Matilde Passa,
giornalista |
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Il nodo di Gaza - Vittorio Dan Segre: “La battaglia delle immagini”
“Fa
caldo, il termometro segna già 34 gradi”. Vittorio Dan Segre,
diplomatico, giornalista e autore di numerosi libri, tra cui “La
metamorfosi di Israele" (Utet, 2006) cerca di sorridere, rispondendo
alla domanda “Com’è l’atmosfera oggi a Gerusalemme?”. Poi però arriva
il momento di addentrarsi nella valutazione dei fatti di ieri. Il
giorno dopo gli scontri a bordo della nave turca Mavi Marmara,
ammiraglia della Freedom Flotilla, lo scenario non si è placato. La
comunità internazionale e i giornali esprimono condanne durissime nei
confronti di Israele, con poche voci fuori dal coro. Il primo ministro
Netanyahu rimanda l’incontro con Barak Obama e rientra a Gerusalemme.
Le relazioni tra Israele e Turchia sembrano aver raggiunto il punto più
basso. Professor Segre, cosa si dice in Israele di quello che è accaduto? Il
sentimento prevalente è la grande ammirazione per i ragazzi di 18 o 20
anni che sono stati chiamati a compiere questa operazione, mandandoli
allo sbaraglio. Hanno rischiato il linciaggio e sono stati straordinari. Quindi
lei pensa che l’errore non sia stato materialmente dei soldati che
erano a bordo delle navi, ma dei vertici politici e militari? Bisogna
dire che fermare quei traghetti che, con la scusa degli aiuti
umanitari, trasportavano terroristi per supportare altri terroristi,
era necessario. Però penso si potesse evitare che succedesse quello che
è accaduto. Per esempio portare una nave di pompieri, che con gli
idranti disperdesse la folla. Così i soldati israeliani dall’elicottero
si sarebbero calati su un ponte vuoto, non in mezzo a un gruppo di
gente pronta a massacrarli a bastonate, e non solo, come si è visto
dalle immagini. A quel punto i soldati non potevano fare altro che
difendersi. Non voglio esprimermi su responsabilità dei vertici
politici e militari, ma diciamo che se si fosse trattato del mio
reggimento, 60 anni fa, avrei pensato che gli ordini erano stati dati
molto male. Quali pensa che saranno le conseguenze dal punto di vista dei rapporti di Israele con la comunità internazionale? Purtroppo
quando vengono diffuse notizie come quelle di ieri, è difficile pensare
che le opinioni pubbliche non prendano le parti di quelli che appaiono
come civili innocenti, colpiti mentre agivano con le migliori
intenzioni. La realtà è molto diversa, ma non si vede, far passare il
messaggio è complesso. Questa era una spedizione di aiuti aggressivi,
mascherati da soccorsi umanitari, una chiara provocazione. Non si pensa
al fatto che se a Gaza non c’è crisi alimentare, è perché lo stesso
Stato d’Israele manda ogni giorno tonnellate di cibo e medicine, per
non far pagare alla popolazione le follie del regime di Hamas. Non si
comprende in Europa il pericolo di un Islam radicale e aggressivo che
si rafforza sempre di più, né il ruolo di Israele come primo difensore
dei valori occidentali. Temo che vincere la battaglia delle immagini
sia impossibile. Parlando di
Islam radicale, anche in Turchia, fino a qualche anno fa un paese
musulmano secolarizzato e uno dei più importanti alleati di Israele,
sembra essersi avviato un processo di radicalizzazione. Io
non penso che in Turchia stia prendendo piede l’Islam estremista.
Semplicemente l’attuale governo ha compreso i vantaggi politici, ma
anche commerciali, che una politica ostile nei confronti di Israele
crea nei rapporti con i paesi dell’area, Iran in testa. A farne le
spese sono le relazioni con lo Stato ebraico che da tre anni a questa
parte sono in costante deterioramento. Se si arriverà a una rottura
definitiva però non so dirlo. Lo
Stato d’Israele ha dimostrato in molte occasioni che nelle sue
strategie militari, ma anche politiche, il danno d’immagine non viene
preso in particolare considerazione. Secondo lei sarebbe necessario
cambiare tattica da questo punto di vista, oppure è giusto che
prevalgano altre esigenze? Se posso fare un gioco di
parole, direi che la politica dell’attuale governo, si è rivelata, in
troppi casi, poco politica. Considerando anche l’isolamento a cui
Israele rischia di andare incontro, direi che un po’ di saggezza e
prudenza in più, sarebbero auspicabili.
Rossella Tercatin
Il nodo di Gaza - Dalla stampa israeliana dure accuse al governo
Fallimento,
disastro, fiasco sono parole ricorrenti sulle odierne pagine dei
giornali israeliani riguardo allo scontro di lunedì mattina fra le
forze di difesa di Israele e gli attivisti di Freedom Flottilla. I
punti di vista sono molteplici, spesso contrastanti ma su una cosa
esperti e analisti concordano: non doveva finire in questo modo.
Un’affermazione che sembra retorica quando si parla di vittime, morti e
feriti ma che nasconde un problema molto complesso: il futuro di
Israele e la sua legittimazione a usare la forza. Dalle colonne
del moderato popolare Yediot Ahronot arriva la critica di Eitan Haber,
noto giornalista israeliano ed esperto in questioni militari, che
scrive “Israele ha sempre una sola soluzione a ogni problema: la forza,
l'esercito, l'IDF. Ci saranno quelli che diranno ‘lo stato non deve
esitare. Ora avranno ancora più paura di noi’. Chi pensa in questo modo
e chi cede a questa tentazione vive in un epoca passata; conviene che
si svegli da questi sogni devianti. Noi viviamo nel 2010 e la risposta
dell’esercito di ieri mattina appartiene al secolo scorso”. Una
visione diametralmente opposta è, invece, quella del caporedattore del
Jerusalem Post, Caroline Glick, che rimprovera al governo israeliano di
non aver capito a priori la situazione internazionale: una continua
campagna mediatica anti-israeliana sfociata, per esempio, nella
risoluzione Onu contro la proliferazione di armi nucleari. “C’è un
fallimento cognitivo - scrive la Glick - da parte dei nostri leader nel
comprendere la natura della guerra condotta contro di noi. Ed è questo
errore fondamentale di conoscenza che ha portato sei soldati in
ospedale e la riduzione in brandelli della reputazione internazionale
dello stato ebraico”. La giornalista del Jerusalem parla di Israele
come “il bersaglio di una guerra di informazione di massa, senza
precedenti per scala e scopo”. Il clima creato dai media e da alcuni
governi sarebbe, secondo la Glick, il vero problema da analizzare:
starebbe crescendo a dismisura, infatti, un movimento per delegittimare
Israele e la sua possibilità di difendersi. Amos Harel, noto
esperto militare del quotidiano Haaretz, tradizionalmente il più
critico nei confronti dell'attuale esecutivo, condanna non la risposta
armata del commando alle violenze degli attivisti, ma la modalità con
cui è stata portata avanti l’operazione. “L'inferiorità numerica dei
commando israeliani - scrive Harel - ha causato un grave pericolo per
tutti i soldati, portando a quell’inizio di linciaggio da cui poi è
nata la risposta armata dell’esercito. Il risultato, in ogni caso, è
stato orribile: alcuni civili sono stati uccisi e i manifestanti hanno
lanciato un soldato dal piano superiore al piano inferiore. Non sono
solo filmati terrificanti, è un umiliazione nazionale e un colpo alla
deterrenza israeliana. La domanda è: perché i soldati sono stati messi
in questa situazione?”. D’accordo con Harel, il commentatore Avi
Trengo di Yediot Ahronot che punta il dito contro il ministro alla
Difesa Ehud Barak e sarcastico domanda “che cosa si aspettava Barack?
Pensava di poter avere tutta la torta e poterla mangiare
indisturbato?”. Il problema, secondo Trengo, è stato tutto il
comportamento tenuto nell’ultimo periodo da Barak, ovvero troppo
sensibile: “Israele sta perdendo il suo potere deterrente, le truppe
israeliane sono percepite come deboli, e quando incontrano difficoltà
reale la risposta immediata è l'utilizzo della violenza che ci fa
guardare male dal mondo intero. Ma - continua Trengo - quello che
sembra brutalità e stupidità israeliana ha implicazioni strategiche:
crea una situazione in cui Israele non sarebbe in grado di usare la sua
forza in modo efficace. Nel lungo periodo, è una ricetta per il
disastro nazionale”. “Da adesso in poi sarà sempre più dura”
aggiunge sul Jerusalem Post l'analista politico Gil Hoffman “anche se
l’IDF aveva il pieno diritto di salire a bordo della nave nel momento
in cui lo ha fatto e di aprire il fuoco nel momento in cui l’ha fatto,
tutto ciò non ha importanza. Perché la percezione è più importante
della realtà. E la realtà adesso è che Israele affronta un periodo
molto difficile”. Il futuro sembra preoccupare molto il principale
corrispondente politico del Jpost “i negoziati preliminari – sostiene
Hoffmann - con i palestinesi potrebbero fermarsi, i rapporti fra
Israele e Turchia potrebbero essere caduti in una crisi irreparabile, e
il mare calmo in cui molti israeliani pensavano di navigare si sta trasformando in una tempesta che non si quieterà tanto presto”.
Daniel Reichel
Il nodo di Gaza - Un dramma senza fine
Non
passa giorno che non se ne parli, e molto spesso a sproposito. La
Striscia di Gaza, il piccolo territorio (appena 360 chilometri quadrati
di estensione) situato tra Israele ed Egitto, è uno dei principali nodi
da sciogliere per una risoluzione positiva del drammatico conflitto
mediorientale. Nella Striscia, che prende il nome dalla città più
popolosa nonché capitale Gaza City, vivono circa un milione e mezzo di
persone (oltre il 99 per cento di religione musulmana), in larga
maggioranza profughi o discendenti dei profughi palestinesi emigrati da
Israele durante e dopo la guerra arabo - israeliana del 1948.
Nonostante dal 2007 sia di fatto nelle mani di Hamas (che vi tiene come
ostaggio il caporale di Tzahal Gilad Shalit), la Striscia di Gaza non è
riconosciuta come uno Stato sovrano. Prima di Hamas, al suo governo si
sono succeduti Egitto (dal 1948 al 1967) e Israele (dal 1967 al 2005,
con diversi gradi di controllo). A seguito degli Accordi di Oslo
firmati da Israele e dall'Organizzazione per la Liberazione della
Palestina (Olp) nel 1994, Israele mantiene il controllo militare dello
spazio aereo, delle frontiere terrestri e delle acque territoriali. La
Striscia è circondata da una barriera di sicurezza che al confine con
l’Egitto diventa un muro, che spesso viene eluso senza grandi problemi:
centinaia di tunnel sotterranei che corrono lungo i quindici chilometri
del confine tra Gaza e Egitto costituiscono una ricca forte di reddito
per i signori del contrabbando di armi egiziani e per i capi di Hamas. È
il 22 settembre 1948, quando al termine del conflitto arabo-israeliano
la Lega Araba proclama il primo governo palestinese a Gaza City. Dopo
la fine delle ostilità tra Israele ed Egitto (che aveva invaso l’area
di Gaza da sud), l’armistizio del febbraio 1949 stabilisce i confini
della Striscia. In breve tempo la popolazione aumenta in misura
esponenziale a seguito del massiccio afflusso di profughi palestinesi
provenienti da Israele. Gli egiziani resteranno ininterrottamente a
Gaza fino al 1967, fatta eccezione per i quattro mesi di occupazione
israeliana nel 1956 a seguito della Crisi di Suez. Gli israeliani
tornano in pianta stabile a partire dal giugno del 1967, al termine
della Guerra dei Sei Giorni. Nasce il primo insediamento israeliano a
Gaza: Gush Katif. In breve gli insediamenti nella Striscia diventano
21. Nel 1979 Israele ed Egitto firmano un trattato di pace: il governo
del paese arabo rinuncia a qualsiasi rivendicazione territoriale. La
Striscia di Gaza rimane sotto amministrazione militare israeliana fino
al maggio del 1994 quando, a seguito degli Accordi di Oslo, si verifica
un graduale trasferimento di potere ai palestinesi. Gaza City diventa
la prima sede provinciale della Autorità Nazionale Palestinese di
Yasser Arafat. Con la leadership di Arafat la Striscia è messa in
ginocchio da mala gestione e da numerosi casi di corruzione: esplode lo
scandalo delle tangenti esorbitanti richieste per consentire il
passaggio delle merci da Gaza. Nel settembre del 2000 scoppia la
seconda Intifada. Il lancio di razzi e bombe da parte di guerriglieri
palestinesi asserragliati nella Striscia verso le città israeliane
situate nei pressi del confine è causa di fortissime tensioni, che si
protraggono negli anni. Nel febbraio del 2005 il governo israeliano
vota per un piano di disimpegno unilaterale da Gaza. Il piano viene
completato a metà settembre. Gli insediamenti e le basi militari
israeliane nella Striscia vengono smantellate e 9.000 coloni sono
evacuati non senza problemi di ordine pubblico. Arriva il nuovo anno e
per i palestinesi è tempo di andare al voto: alle elezioni
parlamentari del 25 gennaio 2006 il partito fondamentalista Hamas
stravince ottenenso 74 seggi su 132. Il governo israeliano e gli attori
chiave della politica internazionale manifestano apertamente il proprio
disappunto e minacciano sanzioni di vario tipo. Disordine politico e
stagnazione economica portano molti palestinesi a emigrare dalla
Striscia verso altri paesi. La situazione precipita e si arriva alla
resa dei conti tra le due principali forze politiche palestinesi: nel
gennaio 2007 scoppia la guerra civile tra Hamas e Fatah per il
controllo di Gaza. La causa scatenante è l’assassinio del generale
Muhammad Gharib, un alto comandante del Fatah, e della sua famiglia da
parte di miliziani di Hamas. Dopo una serie di scontri viene raggiunta
una tregua. Ma dura poco: i combattimenti proseguono fino al giugno
dello stesso anno, quando Hamas ottiene il controllo della Striscia.
Anche una parte del mondo arabo fa la voce grossa: Egitto, Giordania e
Arabia Saudita sostengono che il leader del Fatah Abu Mazen sia l’unico
politico legittimato a formare un governo. La Striscia è sempre più
isolata, sia dal punto di vista diplomatico che economico. Pochi amici,
tra cui spiccano l’impresentabile Ahmadinejad e altri personaggi assai
discutibili. Anche se delegazioni diplomatiche di Hamas si recano
spesso in Russia e in altri paesi europei per cercare appoggio e
legittimazione. Il 23 gennaio del 2008, dopo mesi di preparazione,
militanti di Hamas distruggono una parte del muro che divide Gaza e
Egitto. Migliaia di palestinesi attraversano il confine in cerca di
cibo e rifornimenti. Il presidente egiziano Hosni Mubarak ordina alle
truppe di permettere il passaggio ai palestinesi in ma chiede di
verificare che rientrando a Gaza non portino con sé armamenti di alcun
tipo. Dopo violenti scontri tra esercito egiziano e guerriglieri di
Hamas, il confine viene chiuso. Nel frattempo tornano ad essere
lanciati razzi verso le città israeliane: nel febbraio del 2008 il
conflitto tra israeliani e palestinesi si intensifica. Il 14 novembre
Gaza viene bloccata. Dopo un periodo di 24 ore in cui non sono lanciati
razzi o esplosi colpi di mortaio, i soldati di Tzahal facilitano il
trasferimento nella Striscia di oltre 30 camion carichi di cibo,
forniture di base e medicinali. Ma anche in questo caso la tregua dura
poco: i qassam tornano a cadere su Sderot, Gaza torna ad essere
isolata. Si arriva così al 27 dicembre 2008: da gennaio 3000 razzi sono
stati lanciati verso il territorio israeliano. Il governo di
Gerusalemme decide di reagire e di lanciare un segnale forte ad Hamas.
Ha inizio l’operazione Piombo Fuso. L’esercito attacca numerosi
obiettivi militari, centrando varie basi terroristiche. Le truppe
entrano nella periferia di Gaza City e l'apparato di Hamas viene
decimato, ma se si registrano ingenti perdite anche tra i civili. Le
stime, dopo 22 giorni di combattimento, parlano di centinaia e
centinaia di morti da ambo le parti. Cessate le ostilità, il blocco
israeliano continua anche dopo la fine della guerra. Anche se è
permesso il trasferimento nella Striscia, previo controllo delle
autorità preposte, di medicinali e aiuti umanitari.
Adam Smulevich
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Il nodo di Gaza - L'alba di un Paese senza domani David Bidussa, Il Secolo XIX, 1 giugno 2010
Il nodo di Gaza - La guerra delle immagini
Questa
mattina le trasmissioni della radio israeliana, Kol Israel, sono
dedicate a un accurato esame degli errori operazionali commessi
dall’esercito. Ovviamente bisogna vedere positivamente ogni rimessa in
questione di noi stessi, ma mi sembra che il focus sia poco centrato.
Se Israele si trova oggi in una situazione politica internazionale
molto difficile, la colpa non è certo di chi ha eseguito nel migliore
dei modi ordini impossibili. La colpa è a monte ed è una questione di
mentalità. Il Gabinetto ristretto israeliano non ha ancora capito che i
tempi sono cambiati e che la grande battaglia odierna è quella
mediatica. Nelle due settimane precedenti all’arrivo della flottiglia,
i diplomatici israeliani hanno moltiplicato i contatti coi loro
dirimpettai. Ottimo, ma insufficiente, poiché il terreno su cui si
gioca la partita è quello dei media. Invece di un ministero
degli Esteri decrepito, senza finanziamenti, incapace di svolgere la
sua funzione, Israele ha bisogno di un ministero attivo, pieno di idee,
sempre pronto non solo a rintuzzare gli attacchi della stampa, ma
soprattutto capace di influire preventivamente. Ci vuole almeno una
stazione televisiva in lingua araba di fronte a più di 500 stazioni
arabe. Bisogna capire che il terreno di battaglia principale non è più
quello dell’esercito, con 55 miliardi di shekel di bilancio, ma quello
della battaglia mediatica, con 1,5 miliardi di shekel assegnati al
ministero degli Esteri. Oggi si vince o si perde con la rapidità delle
trasmissioni, mostrando i filmati ripresi a bordo delle navi dove si
mostra il linciaggio dei militari saliti a bordo delle navi
immediatamente e non a tarda sera quando ormai i giornali televisivi in
Europa sono già chiusi. L’esercito ha mandato una giovane ufficiale a
“spiegare” ai giornalisti stranieri la situazione, ma era ancora
sprovvista di film e fotografie prese a bordo della nave Marmara,
quindi poco efficace. Infine, il vecchio detto ebraico “Un shmum”
(le Nazioni Unite non contano nulla) non è più attuale. Le Nazioni
Unite sono divenute un elemento essenziale della nostra vita, elemento
di cui bisogna tener conto in anticipo. Si deve perciò rafforzare il
personale diplomatico a New York partecipando ad ogni comitato e
battendosi contro ogni tentativo di denigrazione. E poiché ci
siamo abituati a pensare che tutta la stampa europea sia contro di noi
in maniera preconcetta, vorrei segnalare inoltre che il “Corriere della
Sera” ha trattato l'argomento dal suo sito internet i un modo che mi è
sembrato corretto.
Sergio Minerbi
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rassegna stampa |
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La
nostra rassegna stampa è tornata purtroppo ai livelli quantitativi del
gennaio dell'anno scorso, ben oltre i duecento articoli, e agli stessi
toni violentemente antisraeliani. Le parole più frequenti nei titoli che descrivono l'azione israeliana sono "strage" (Roberto F. sul Giorno, pezzo siglato F.Bat. sul Corriere, De Giovanni su Terra, Pentimella su DNews, De Giovannangeli sull'Unità, Marretta su Liberazione, Salerno sul Messaggero, Mauceri sul Secolo XIX, Baquis sulla Stampa) "massacro" (pezzo siglato F.Bat. sul Corriere, Di Marco sul Riformista) e "terrorismo" (Ottaviani sulla Stampa, Bertinetto sull'Unità, Cancrini sull'Unità, Frattini sul Corriere, Ottaviani su Avvenire, Casagrande sul Manifesto, Mirenzi sul Riformista Giampiero sul Fatto, per lo più citando Erdogan), ma si arriva allo "Stato canaglia" di Liberazione, lo "Stato del terrore" del Manifesto, "Israele assassino" ancora sul Manifesto, "atto criminale" attribuito a Grossman su Repubblica.
Per non parlare di "raid", "blitz", "assalto", "attacco". C'è tutto un
repertorio sulla "stupidità" di Israele, più o meno disgiunta dalla sua
"criminalità", in cui si distinguono Moni Ovadia sull'Unità, Yehoshua sulla Stampa, Annunziata ancora sulla Stampa, Gilad Sharon su Repubblica, Amos Oz intervistato dal Corriere, Gad Lerner ancora su Repubblica, Zvi Schulddiner sul Manifesto, Sergio Romano sul Corriere, Bidussa sul Secolo XIX
(con un titolo che rivaleggia con i testi di Lerner e Ovadia per
rancore antisraeliano "L'alba di un paese senza domani). Nessuno
di questi intellettuali, editorialisti, grandi inviati, scrittori hanno
fatto lo sforzo di vedere i files che mostrano il tentativo di
linciaggio attuato dai passeggeri della nave turca sui marinai
israeliani che scendevano dagli elicotteri (se vi interessa lo trovate
anche sul Portale dell'Ebraismo Italiano moked.it) né le precisazioni giuridiche fornite dall'ambasciata israeliana
che mostrano come il blocco sia una procedura bellica ben presente da
secoli nella legge internazionale e come Israele avesse seguito tutte
le procedure previste.
Poco rilievo ha avuto in questi giornali anche il tentativo di invadere
il ghetto di Roma da parte della manifestazione filopalestinese,
scongiurato dallo schermo di Polizia. Ne parlano fra l'altro con una
forte sottovalutazione il Corriere della sera Roma e L'Unità.
Solo in parte Aldo Frignani sembra cogliere il senso simbolico di una
manifestazione contro Israele che investe il ghetto, come fu trent'anni
fa al tempo dell'uccisione di Stefano Taché. Le sole eccezioni a questa violentissima criminalizzazione si trovano sul "Giornale" (importante l'articolo di Fiamma Nirenstein, da leggere anche l'opinione di Segre, importante l'analisi di Gian Micalessin a proposito del carattere dei "pacifisti coinvolti, utile la cronaca dello scontro di Cottone e quella diplomatica di Marcello Foa), su "Libero" (utilissimo l'articolo di Pezzana, interessante come sempre l'opinione di Panella) sul "Foglio" (da non perdere il pezzo di Meotti), sui giornali del Gruppo Monti ("Carlino, Nazione, Giorno": i commenti di Mezzetti e Arpino). Sulle prospettive internazionali interessante anche l'articolo di Parisi sulla Stampa.
Forse non è inutile notare che vi è una divisione molto chiara per
linee politiche su questa vicenda: vi è un furioso assalto
antisraeliano da parte dei giornali della sinistra più o meno estrema
(dal "Manifesto" a "Liberazione" a "Terra" all'"Unità" a "Repubblica")
uniti alla voce dell'estrema destra di "Rinascita" e fiancheggiati dai soliti nomi dei nemici di Israele su giornali più centrali nello schieramento politico da Tramballi sul Sole a Salerno sul Messaggero a Romano sul Corriere e anche dai giornali cattolici, "Avvenire"
in prima linea. Questa maggioranza sui media si estende (anche questa
volta) pure a alcuni organi della grande stampa, come il "Corriere" e
la "Stampa". Isolate in difesa di Israele quasi solo le voci della
destra. Di tutte le altre notizie, vale la pena di registrare solo
il passo indietro di Ettore Bernabei dopo le considerazioni molto
sgradevoli sulla "finanza ebraica" rovina dell'Italia, fatte in
un'intervista di domenica scorsa al Corriere: lo si trova in una
lettera allo stesso Corriere e in un articolo di Avvenire. Ugo Volli |
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