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L'Unione informa |
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7 giugno 2010 - 25 Sivan 5770 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
La
promessa benefica ad Abramo di diventare un grande popolo diventa,
quando viene ripetuta a Moshè dopo due gravi incidenti (quello del
vitello d'oro e quello degli esploratori, che abbiamo letto questo
Shabbat) non più una benedizione ma una messa alla prova. La nuova
discendenza di Mosè dovrebbe sostituire un popolo che si è macchiato di
colpe gravi. Ma Mosè in entrambi i casi non cede alla provocazione e
rifiuta per vari motivi, primo dei quali il suo senso di
responsabilità per il popolo di cui fa parte e per il quale si è
prodigato. Ma forse Mosè ragiona anche sul fatto che nessuno potrà
garantire che la sua discendenza sarà migliore del popolo esistente;
ogni grande famiglia comprende buoni e cattivi, integrati e dissidenti.
Oggi, nella divisione esistente tra tante denominazioni ebraiche, viene
messo in risalto il fatto che la grande maggioranza dei nipoti dei
Conservative, ma soprattutto dei Reform, saranno pochi e
soprattutto molti di loro non saranno ebrei, a differenza dei nipoti
degli Ortodossi. Questo è probabile dal punto di vista biologico, ma
non ci si illuda che scompariranno anche i movimenti di dissenso
rispetto all'Ortodossia. Solo che le loro file non saranno composte dai
discendenti esauriti dei Reform di oggi, ma dai discendenti degli
Ortodossi di oggi. E quindi si ritorna al ragionamento di Mosè. Inutile
pensare che una nuova discendenza possa essere migliore di quello che
c'è ora. Bisogna invece misurarci con quello che c'è ora, senza
rinunciare ai propri principi.
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Sono
passati settant'anni da quel 10 giugno 1940 in cui l'Italia entrò in
guerra. Ricordandolo, vorrei ricordare che quel giorno fu
particolarmente infausto non solo perché gettò l'Italia e gli italiani
in una guerra terribile, e per di più dalla parte sbagliata, ma anche
per il modo in cui l'Italia di Mussolini entrò nella guerra, pugnalando
alle spalle una Francia già sconfitta: i nazisti entreranno a Parigi
solo quattro giorni dopo, il 14 giugno. Di questa vergogna di entrare
in guerra attaccando un paese già vinto nella convinzione di poterne
raccattare all'ultimo minuto qualche vantaggio, almeno alcuni degli
italiani e non solo gli antifascisti in esilio o in carcere, provarono
allora un'onta cocente, un dolore destinato a durare e a cambiare
nell'animo chi lo provava.
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Anna Foa,
storica |
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Il nodo di Gaza - Hamas batte Israele 3 a 0
Superata
la fase della reazione emotiva, già segue quella della propaganda e
molti cori intoneranno gli argomenti di sempre, per dire che è tutta (e
sempre) colpa di Israele o per sostenere che è tutta (e sempre) colpa
dei terroristi (leggi: Hamas/palestinesi). Ma se si vuole
veramente capire, di buona norma, bisogna partire dal risultato della
vicenda Freedom Flotilla, e, con disincanto e lucidità, prendere atto
della vittoria totale e globale del nuovo fronte islamista. Tre le gravi conseguenze politiche (e militari) per Israele che converrà elencare in buon ordine. 1
- Il blocco della Striscia di Gaza non c’è più: questo è il primo ed
evidente successo di Hamas che apparirà davanti al proprio popolo come
una forza vincente e credibile. La strategia della chiusura della
Striscia voluta da Israele (con l’aiuto egiziano e con il tacito
assenso occidentale) serviva a delegittimare Hamas e imporre una linea
internazionale di isolamento del fronte estremista islamico: invece
Hamas e Turchia escono vincenti su tutta la linea. 2 - Il ruolo di Israele nella NATO ridimensionato: questo secondo aspetto, poco
considerato dai mass media, è di una gravità incalcolabile per Israele.
Mentre all’ONU si sono trovate mediazioni, in una riunione d’urgenza
della NATO reclamata dalla Turchia, si è arrivati a una risoluzione che
equivale tanto ad una condanna che a un ammonimento. I colleghi in
divisa di Tzahal hanno chiesto (e imposto) il rilascio immediato di
tutti gli attivisti e la restituzione delle imbarcazioni. È stata
questa la più evidente dimostrazione della potenza della Turchia
riconosciuta come elemento fondamentale dell’Alleanza e della nuova
condizione di Israele quale “alleato problematico”. È assai probabile
che la mediazione all’ONU sia stata possibile grazie alla dura presa di
posizione della NATO, che ergendosi da arbitro fra due alleati, ha
emesso di fatto un verdetto politico. 3 - L’isolamento di Israele dalle cancellerie e dall’opinione pubblica europee:
solo gli Stati Uniti hanno realmente lottato per aiutare Israele a
contenere i danni, mentre le cancellerie europee, anche quelle
tradizionalmente più filo-israeliane, hanno non solo condannato il
blitz navale, ma hanno avanzato richieste di cambiamento di linea
politica e di comportamenti “solo” a Israele. Nessuno ha avanzato
critiche o fatto richieste a Hamas o alla Turchia, anzi, il ministro
Frattini ha preso come esempio da imitare il comportamento di Abu
Mazen. Queste le tre principali e più gravi conseguenze,
ma ne vanno considerate altre che ci permettono di intravedere le nuove
difficoltà che Israele dovrà affrontare. 1 - Trattative in salita per Israele: Abu Mazen, invece di scegliere lo scontro ha
optato per insistere sulla via diplomatica. Non si tratta di bontà
d’animo, ma di un calcolo vincente, perché oltre a guadagnare il plauso
occidentale sa che ora, al tavolo delle trattative, Israele è più
debole. 2 - Cambio di linea politica dei palestinesi: vincere
senza sparare un colpo. Dentro Hamas si sta affermando la linea di chi,
imitando Fatah degli anni ’90, sostiene una strategia di lotta
alternativa a quella dello scontro militare diretto. Le sei navi di
Freedom Flotilla sono riuscite ad ottenere ciò che Hamas non era
riuscito a fare con il lancio di migliaia di missili, cioè rompere
l’embargo israeliano. Cioè la politica per “provocare” ed isolare
Israele. 3 - Minor controllo su Gaza: le porte aperte sono
quelle egiziane. Finché la Turchia terrà duro, sarà l’Egitto a
controllare le merci dirette a Gaza mentre, in termini di sicurezza e
di rapporti di forza, sarebbe stato meglio per Israele far usare i
propri valichi. Ciò che più preoccupa (soprattutto Washington e,
spero, Gerusalemme) è che la vittoria del nuovo fronte islamista non
sia un fatto regionale, ma abbia una portata globale tale da cambiare
le carte sul tavolo. Solitamente chi ha voluto assumere il ruolo
di leader nella regione ha fatto propria la cosiddetta “causa
palestinese”: solitamente si è trattato di dittatori arabi ma poi è
venuto il tempo dei leader mussulmani non-arabi, prima Ahmadinejad ed
ora Erdogan. Ma la differenza fra questi ultimi due è che il
secondo non è un dittatore, ma il leader di un paese semi-europeo, di
importanza vitale per la difesa degli interessi occidentali. È ormai
chiaro che la Turchia è determinata ad assumere un ruolo di leadership
su scala globale del variegato mondo musulmano, in virtù sia del suo
retaggio storico che della sua condizione geopolitica, a cavallo di
quattro aree di influenza (Europa, Mediterraneo, Asia continentale e
Medio e Vicino Oriente). Ed è altrettanto evidente quindi che da
oggi in poi Israele troverà dall’altra parte del tavolo, accanto ai
palestinesi, la Turchia: cambierà tutto, dai rapporti di forza a tutto
l’armamentario politico e di comunicazione. Abituati ad avere per anni
nemici fanatici e antidemocratici, gli israeliani faticheranno non poco
a misurarsi con una controparte così politicamente solida e
strutturata. Forse l’unico ad avere capito in anticipo la
costruzione del nuovo equilibrio è stato il presidente statunitense:
sin dalla sua investitura, Obama ha iniziato ha costruire un nuovo
rapporto con il mondo musulmano fondato sulla fiducia e il rispetto,
condizione necessaria per recuperare una forza di mediazione reale fra
Israele e il mondo arabo. È questo un fatto cristallino
assolutamente frainteso dai politici israeliani e da buona parte della
leadership della diaspora ebraica europea, annebbiata da preconcetti e
sospetti. Rimane il fatto che l’unico sostegno di Israele
rimangono gli USA, che hanno speso con discrezione notevoli energie
negoziando una soluzione dell’attuale crisi con la Turchia, sia in sede
NATO che in sede ONU. Obama rimane un sicuro alleato di Israele
non solo perché sa che lo stato ebraico, per sua natura culturale e
politica, è l’unico paese simile agli USA, ma anche per la sua
personale formazione politica molto legata ai valori ebraici tanto da
trarre dall’esperienza sionista il suo modello di politica sociale. Sarà
bene che la leadership israeliana abbandoni i paradigmi politici e
psicologici degli ultimi vent’anni: nell’era della globalizzazione
l’idea dell’autosufficienza non calza più per nessun paese moderno e
democratico. Il conflitto mediorientale, non solo simbolicamente, è da
tempo un conflitto di scala globale e Israele, per garantire la sua
sicurezza e per salvare la propria identità democratica ed ebraica, non
può pensare di fare a meno dl resto del mondo e tanto meno di Obama.
Victor Magiar, Europa, 5 giugno 2010
Il Nabuco a Masada
Avete
mai visto un direttore d’orchestra che, dopo aver fatto suonare il bis
di una celebre aria, interrompe la rappresentazione, prende in mano il
microfono, spiega al pubblico perché quella musica lo emoziona e
significa tanto per lui, e poi invita i 6.500 spettatori ad ascoltarla
per la terza volta, unendo le proprie voci a quelle del coro? E’
successo a Masada, durante la prima del Nabucco, diretto da un
ispiratissimo Daniel Oren, presente il presidente Shimon Peres, una
buona parte del governo e del corpo diplomatico internazionale. Meraviglioso
lo spettacolo, costumi sontuosi, giochi di luce, effetti speciali,
bravissimi i cantanti, dalla soprano greca Dmitra Theodossiou agli
italiani Tiziana Carraro, Alberto Gazale, Nazzareno Antinori,
nonostante l’handicap del palcoscenico all’aperto e di un vento che, se
alleviava il caldo torrido della notte sul mar Morto, non favoriva
certo l’acustica. Ma non è stata solo la sapiente regia di Joseph
Rochlitz, la bravura della Israeli Opera di Tel Aviv, dei cantanti, del
coro, a rendere il Nabucco a Masada un evento eccezionale. Il
Nabucco, fin dalla sua nascita, è stata un’opera a forte valenza
simbolica, tanto da diventare il vessillo del Risorgimento italiano.
Abbiamo tutti imparato a scuola che il nome dell’allora giovane e non
ancora celebre compositore (anzi, la sua opera precedente, “Un giorno
di regno” era stata un fiasco clamoroso), serviva agli irredentisti
come acronimo per acclamare Vittorio Emanuele Re D’Italia. E’
anche un’opera fortemente ebraica. Non tanto per l’ambientazione in
tempi biblici e per la fantasiosa ricostruzione della caduta del primo
Tempio per mano di Nabuccodonosor nel 587 a.e.v e la conseguente
deportazione del popolo di Israele. E’ un’opera ebraica per il
contenuto sociale e religioso, dalla difesa del credo monoteistico, al
caparbio rifiuto dell’idolatria, all’amore per quel fazzoletto di terra
nel deserto e per Gerusalemme dalle aure dolci. E Va’ pensiero potrebbe
essere definito l’emblema della diaspora ebraica, e di tutte le
diaspore, la sintesi, al massimo livello artistico ed emotivo, di
duemila anni di nostalgia. Quale luogo migliore per rappresentarla
di Masada, roccaforte della più strenua resistenza ebraica all’invasore
straniero, 660 anni dopo la distruzione del Tempio per mano di
Nabuccodonosor, e un anno dopo la seconda distruzione del Tempio,
questa volta per mano romana? Masada, con i suoi mille combattenti, tra
cui donne, anziani e bambini, che riuscirono a tener testa a 10 mila
legionari romani per parecchi mesi, e che alla fine preferirono il
suicidio collettivo alla resa, è diventata il simbolo dell’ebraismo
combattente e arbitro del proprio destino, l’emblema dell’anti Shoah,
lo spirito di Israele che rifiuta il vittimismo della diaspora e, se
deve morire, sceglie di morire combattendo. Tutti questi
riferimenti, in giornate controverse come quelle dei primi di giugno,
in cui tutto il mondo attaccava Israele per il raid sulle navi dei
sedicenti pacifisti (qui li hanno ribattezzati i “pacifinti”), hanno
contribuito a rendere il Nabucco di Masada uno spettacolo a forte
valenza emotiva. Una emozione a cui nessuno si è sottratto. Lunghi
applausi, anche a scena aperta, commenti entusiastici e soprattutto
l’impressione di aver assistito a un evento irrepetibile.
Luigi Mattiolo, ambasciatore italiano in Israele, era presente con la moglie Stefania allo spettacolo. Che effetto le ha fatto il Nabucco, così simbolico per il nostro Risorgimento, ambientato a Masada? Proprio
la sera precedente la Prima di Nabucco a Masada, nel rivolgere il mio
saluto alle centinaia di ospiti affluiti in Residenza per celebrare la
Festa nazionale italiana del 2 giugno, avevo ricordato quanto siano
profondi e solidi i legami storici tra Risorgimento e Sionismo, i due
movimenti fondanti dello Stato italiano e di quello di Israele,
entrambi ispirati dal bisogno condiviso di vivere liberamente la
propria storia e di affermare la propria identità. L’aver scelto
Masada, luogo simbolo della resistenza del popolo ebraico, per
rappresentare l’opera lirica che meglio esprime l’epopea degli ebrei
liberati dall’esilio di Babilonia ha permesso di raggiungere il massimo
livello di suggestione. Le é piaciuto lo spettacolo? Certamente.
Lo scenario irripetibile del deserto alle pendici di Masada, la regia
accorta e grandiosa, la valenza dei cantanti e del coro, il rigore
interpretativo dell’orchestra e la straordinaria capacità del Maestro
Daniel Oren, autentico catalizzatore di emozioni, hanno reso
indimenticabile questa edizione del capolavoro verdiano. L’operazione artistica assume anche una valenza politica? Credo
che - dopo la straordinaria tournée del Teatro alla Scala di Milano
dello scorso anno - il Teatro dell’Opera di Tel Aviv abbia consacrato
con il “Nabucco” a Masada la propria collocazione tra i maggiori teatri
lirici del mondo per qualità e popolarità delle sue produzioni. Penso
di poter ritenere che dal 2010 Masada puo’ essere annoverata tra i
grandi appuntamenti lirici estivi, accanto ad esempio alle stagioni
all’Arena di Verona ed alle Teme di Caracalla. La valenza politica é
indiretta, ma non per questo meno significativa: Israele si conferma un
Paese aperto e partecipe della cultura europea, un luogo di attrazioni
e di emozioni. E l’anno
prossimo, il festival di Masada che ha in cartellone l’Aida prodotta
dall’Arena di Verona, consoliderà ancora di più il rapporto artistico
tra Italia e Israele.
Viviana Kasam
Qui Cherasco - La lezione di Yehoshua
Domenica
mattina la città di Cherasco ha vissuto un intenso e importante momento
culturale: la visita privata del più importante scrittore israeliano,
Abraham Yehoshua. Da Novello, dove nel tardo pomeriggio avrebbe
tenuto una lezione magistrale nell’ambito del Festival letterario
Collisioni, accompagnato dalla moglie si è recato in visita alla
sinagoga di Cherasco. Ad accoglierlo tutta la Fondazione De
Benedetti-Cherasco 1547 con il presidente Benedetto De Benedetti,
Claudia De Benedetti vice presidente UCEI, Sergio Barbero assessore
alla cultura della Città e Mara Degiorgis presidente dell’associazione
People, che ha collaborato a questa seconda edizione di Collisioni
creando le condizioni perché questo incontro potesse realizzarsi. Una
brevissima quanto intensa visita alla sinagoga che Yehoshua ha voluto
regalare a quanti lo hanno trepidamente atteso nel caldo mezzogiorno
(in alto un'immagine di questo momento, fornita alla redazione dal
fotografo Bruno). Alle 18 invece chi si è inerpicato sulle colline
di Novello ha potuto partecipare alla emozionantissima lezione di
Abraham Yehoshua dal titolo “Perché Anna Karenina si è suicidata?”. Prendendo
le mosse dal grande romanzo russo di fine ottocento l’autore de
L’Amante, Il Signor Mani e Il Divorzio Tardivo ha analizzato la più
fragile e instabile delle relazioni umane: quella che non si fonda su
legami di sangue, e perciò deve essere continuamente rimessa in gioco,
ogni giorno, nelle situazioni più diverse: l’amore coniugale che sta
alla base del matrimonio. Centinaia di persone attente hanno assistito a questa singolare, ma straordinariamente appassionata lezione di letteratura.
Piergiorgio Rossetti, Ufficio stampa People
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I motivi del rancore
Il
rancore anti-israeliano esploso negli ultimi giorni non è solo astio,
livore, risentimento. È molto di più. Il blitz fatale alla nave dei
cosiddetti pacifisti ha fatto riemergere in Europa la questione
dell’esistenza dello Stato di Israele. Una esistenza sopportata o
addirittura mal tollerata, una spina nel fianco del Vecchio continente,
sgradevole ripercussione dei suoi crimini recenti. Perché a che cosa
potrebbero altrimenti appellarsi gli ebrei per un “ritorno” su quella
terra?. Così, mentre Annette Groth, rappresentante della sinistra
in Germania, dopo aver preso parte alla flottiglia, dichiara in
un’intervista a “Haaretz” del 4 giugno di considerare un “proprio
dovere chiedere a Israele di non violare più i diritti umani delle
altre nazioni”, nello stesso giorno il quotidiano tedesco “Süddeutsche
Zeitung”, di tendenze moderate e filogovernative, pubblica l’articolo
“Gli avi dalla Giudea” dedicato alla nuove analisi genetiche sulla
discendenza degli ebrei. Il sottotitolo recita: “Il mito della
fondazione di Israele viene confermato in laboratorio”. Il riferimento
è al risultato delle ricerche compiute dall’equipe di Harry Ostrer
della New York University School of Medicine, secondo cui ebrei
provenienti da ambiti geograficamente molto diversi mostrerebbero
tratti genetici comuni. Dal “genoma” - insinua malignamente il
giornalista tedesco Christian Weber - si potrebbe insomma leggere la
storia. Sui rischi gravissimi di ridurre a un DNA biochimico l’identità
del popolo ebraico, identità che si dispiega nella storia, occorrerebbe
riflettere. Lo dovrebbe fare soprattutto chi esalta acriticamente la
biologia e le neuroscienze - e dimentica la cultura e la storia. Ma
l’articolo ha una mira precisa: dalla supposta “discendenza comune” gli
ebrei deriverebbero “il diritto a fondare lo Stato di Israele
nell’ambito di quel che fu la Terra Santa”. Nella sua ripugnanza il
messaggio è chiaro: gli ebrei tentano un po’ ovunque, perfino nella
genetica, territorio - è bene ricordarlo - dominato dagli scienziati
tedeschi (con una continuità che va dal Max Planck Institut ad
Auschwitz e oltre), di legittimare un diritto che non hanno, di
difendere una appropriazione indebita, di giustificare
l’ingiustificabile: l’esistenza di Israele. Dato che la questione
che investe lo Stato di Israele (e si ripercuote sul popolo ebraico
nella Diaspora) non è solo e non è tanto politica, ma è ontologica,
perché ogni pretesto solleva la domanda sulla legittimità della sua
esistenza, a Israele è richiesta una vigilanza più elevata. E più
elevata non vuol dire solo più intensa. Vuol dire una vigilanza capace
di sollevare lo sguardo oltre l’oggi immediato, a cui si ferma la
politica degli stati-nazione, al fine di perseguire con consapevolezza
il progetto per il domani.
Donatella Di Cesare, filosofa
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rassegna stampa |
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Sugli spari di Israele la verità viene a galla Pensieri
spettinati per cominciare la settimana. Un'altra nave partita stavolta
dall'Irlanda è andata in soccorso dei palestinesi. La novità consiste
nel fatto che non ci sono state sparatorie né vittime. Ovvio. I
pacifisti non erano armati e non hanno opposto resistenza (ai
controllori israeliani) probabilmente memori di quanto era accaduto ai
loro colleghi il 31 maggio. Comunque, per chi avesse ancora dei dubbi
sulla loro estrazione culturale e politica, quando i paladini irlandesi
della pace hanno ricevuto l'ordine di tornare indietro (impartito dalla
marina dello Stato ebraico) hanno risposto: «Tornate voi ad Auschwitz».
Gente carina. La polemica sulla strage navale si sta placando. Molti
giornali, anche italiani, che al primo momento non avevano risparmiato
critiche ai governo di Netanyahu, hanno addolcito i toni e in alcuni
casi (per esempio il Corriere delta Sera), riconosciuto ai militari di
aver agito per (eccesso) di legittima difesa. [...] Intanto è giunto in
Italia un supplemento di documentazione (e il Giornale lo pubblica)
sull'incidente in mare: fotografie che ritraggono un soldato israeliano
disarmato, pestato e sequestrato dai pacifisti. È la dimostrazione che
gli aggressori erano quelli della presunta spedizione umanitaria, non i
militari che si sono limitati a reagire. Consola verificare che la
nostra tesi del primo giorno, fortemente contestata pressoché da tutti,
adesso abbia il conforto sia pure tardivo di molti altri commentatori.
L'antisemitismo ha bisogno di essere contrastato su scala mondiale per
evitare che esploda nella«soluzione finale». Gli eredi di Hitler hanno
cambiato bandiera ma sono ancora attivi, non sottovalutiamoli. [...] Vittorio Feltri, il Giornale, 7 giugno 2010
Così i “pacifisti” hanno sequestrato gli israeliani Se
credete ancora alla strage premeditata, se pensate che le forze
speciali israeliane abbiano deliberatamente ucciso nove autentici
«pacifisti» guardatevi queste foto. Sono una prova devastante, capace
di fare a pezzi l'immagine degli incursori Flotilla 13, ma anche
determinante per assolverli da ogni sospetto di ferocia gratuita. Fosse
stato per la censura israeliana le foto, pubblicate ieri dai quotidiano
turco Hurriyet non sarebbero mai saltate fuori. I censori israeliani le
avevano cancellate da macchine fotografiche, computer e chiavette
elettroniche dei militanti turchi prima di espellerli. Non appena
rientrati in Turchia i duri e puri dell'organizzazione fondamentalista
lhh le hanno recuperate e messe a disposizione del più diffuso
quotidiano. Per loro scagionare i militari israeliani è ininfluente.
Nella logica jihadista dimostrarsi capaci di contrapporsi ai più temuti
reparti speciali israeliani significa garantire all'Ihh il rispetto
dell'internazionale integralista, promuoverla ad un livello analogo a
quello di Hamas e Hezbollah. In quell'ottica distruggere il mito
dell'invincibilità d'Israele è persino più importante che continuare a
nascondersi dietro le ragioni dell' asserita causa pacifista. Israele
fin qui si era ritrovata paradossalmente costretta a stare al gioco.
Per lo Stato ebraico coprire l'inefficienza di un'intelligence incapace
di prevedere la minaccia dei finti pacifisti in attesa sulla nave
Marmara e preservare l'immagine delle proprie forze speciali è più
vitale - sul piano della deterrenza strategica - che dimostrare la
buona fede dei propri militari. Anche perché i filmati della battaglia
svoltasi sulla tolda erano più che sufficienti, dal punto di vista
israeliano, a giustificare le reazioni degli incursori. [...] Gian Micalessin, il Giornale 7 giugno 2010
Netanyahu dice no all'inchiesta Onu L'Onu
non ha voce in capitolo per investigare il blitz israeliano sulla nave
Marmara, conclusosi lunedì scorso con la morte di nove passeggeri
turchi: lo hanno ribadito i dirigenti di Israele, respingendo nella
sostanza il progetto del segretario generale delle Nazioni Unite Ban
Ki-moon di affidare all'ex prernier neozelandese Geoffrey Palmer
l'incarico di far luce sul drammatico episodio, assieme con esponenti
di - Israele, Turchia e-Usa. Al Consiglio di difesa dei suo governo il
premier Benjamin Netanyahu ha proposto un'altra formula, forse
accettabile per gli Stati Uniti. Si tratta della formazione di una
commissione di verifica israeliana con la partecipazione di osservatori
stranieri di alto rango. [...] «Noi non abbiamo niente da nascondere»
ha assicurato il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman,
secondo il quale al contrario proprio la Turchia - dovrebbe spiegare la
presenza a bordo della nave Marmara di alcuni elementi che
l'intelligence di Israele «collega a terroristi» di Hamas, della Jihad
islamica, di Al Qaeda e dei separatisti ceceni. […] Aldo Baquis, La Stampa, 7 giugno 2010
La Governatrice in Israele: «La forza del dialogo» E'
cominciato ieri con la visita al «Peres Peace ouse» nel cuore di Jaffa,
la città storica di Tel Aviv, il viaggio in Israele del presidente
della Regione, Renata Polverini, il primo da governatore. Un viaggio
insieme a 40 ragazzi di due scuole superiori della provincia di Latina,
vincitrici del concorso Il percorso dei giusti, al rabbino capo e al
presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Di Segni e Riccardo
Pacifici. [...] Il presidente Polverini ha preso un impegno: «Sostenere
le attività del centro per favorire la pace e il dialogo tra Israele e
Palestina. Riuscire a lavorare sulle giovani generazioni è la chiave di
tutto. I nostri figli su questo sono molto più avanti di noi nel
rapporto con i bambini immigrati». [...] Il Messaggero, 7 giugno 2010 |
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notizieflash |
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Identikit dei passeggeri della Marmara legati al terrorismo Tel Aviv, 6 giu - Sulla
nave turca Marmara intercettata da Israele per impedirle di raggiungere
Gaza "viaggiavano alcuni passeggeri riguardo i quali esistono
informazioni che li collegano ad attività terroristica". Ad affermarlo
è stato il portavoce militare israeliano. Questo il dettaglio dei
passeggeri in questione: Fatima Mahmadi, nata nel 1970, di origine
iraniana. Risiede negli Stati Uniti, attivista della organizzazione
'Viva Palestina', ha cercato di trafugare a Gaza elementi elettronici
vietati; Ken Okayef, nato nel 1969, cittadino degli Stati Uniti e della
Gran Bretagna, attivista estremista anti-israeliano, membro di Hamas.
Intendeva raggiungere Gaza - secondo il portavoce militare - per
addestrare e organizzare una unità di commando di Hamas; Hassan Aynsi,
turco, nato nel 1982, membro di una associazione umanitaria turca,
incaricato di trasferire fondi alla Jihad islamica in Palestina;
Hussein Orosh, turco, affiliato alla Ong Ihh, progettava di raggiungere
Gaza per progettare l'ingresso nella Striscia di miliziani di al-Qaida,
via Turchia; Ahmed Omimun, nato nel 1959, di origine marocchina, con
cittadinanza francese, è membro di Hamas. I cinque sono stati comunque
rilasciati a seguito della richiesta ultimativa del governo turco.
La Polverini a Gerusalemme, rav Di Segni: “Un segno di continuità al di là della politica” Gerusalemme, 6 giu - Il
rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, in visita a Gerusalemme con la
governatrice del Lazio, Renata Polverini, ha affermato che “la
presenza della Polverini, in Israele è molto importante”. “E' un
segno di continuità - ha spiegato il rav - che dimostra come, al di là
della politica, ci sia condivisione sui valori essenziali e
l'intenzione di lavorare, di questo non possiamo che rallegrarci". Per
il rav Di Segni si tratta di "un progetto educativo che porta gli
studenti a contatto con la storia. L'auspicio è che si possano
continuare viaggi come questi".
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
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indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
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utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
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Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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