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L'Unione informa |
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13 giugno 2010 - 1 Tamuz 5770 |
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alef/tav |
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Benedetto Carucci Viterbi, rabbino |
La
volontà di assumere funzioni pubbliche sempre più importanti è,
secondo quanto suggerisce il Maggid di Dubno commentando la parashà di
Korach, una forma di avidità materiale. Se ciascuno ha un compito, già
in sé gravoso e di responsabilità, perché richiederne altri se non per
pura e semplice sete di potere? |
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Può
accadere talora che qualcuno inventi un’espressione e che questa,
proprio perché diviene di uso immediato, sia percepita come la
soluzione del problema, quando invece il problema rimane invariato e,
soprattutto, irrisolto. La settimana scorsa è accaduto con la parola
“pacifinti”. Non so chi l’abbia coniata. Mi complimento per la
creatività. Ma ripeterla non risolve il problema, né consente di
andare oltre la scena del contendere. Non sarà un nome che consentirà
di superare il dramma che ci troviamo di fronte. Farne una questione di
nome è miope. Mi ricorda Don Ferrante, l’erudito seicentesco creato da
Manzoni ne “I promessi sposi”, il quale, di fronte al dilagare della
peste, non sapendo scegliere tra sostanza e accidente, dichiara che la
peste non c’è. Soddisfatto per aver messo d’accordo la teoria e la
realtà, va a letto convinto di aver risolto il problema salvo poi
morire di peste. |
David Bidussa, storico sociale delle idee |
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davar |
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Di profilo - Un “laico” leader degli ebrei milanesi
A
poche ore dalla tragedia sulla «Mavi Marmara», migliaia di chilometri
più a nord, Roberto Jarach, veniva eletto presidente della Comunità
Ebraica di Milano (6 mila iscritti, 22 sinagoghe) dopo aver vinto - 10
seggi su 19 - con la sua lista «laica», ovvero lontana da opposti
integralismi, una infuocata campagna elettorale. Primo segnale della
presidenza Jarach: una giunta monocolore («Non voglio trovarmi a
gestire compromessi o interminabili discussioni») per affrontare con
decisione il pesante indebitamento della Comunità: «11 milioni di
debiti con le banche, altri 3 con fornitori». Silenzio invece sul blitz
israeliano. «Ho preferito tacere - spiega Roberto Jarach - non sono un
esperto di geopolitica e, pur avendo 42 cugini in Israele, non vivo
quella realtà; non mi permetto quindi di dare giudizi sulle politiche
israeliane. Ma c’è di più. Credo che la confusione di ruoli sia causa
di non poche difficoltà nei rapporti tra le nostre Comunità e l’esterno
». Erede di due grandi famiglie - gli Jarach e gli Schapira -
dell’industria italiana e della Comunità ebraica milanese (suo nonno
Federico e suo padre Guido sono stati per anni presidenti), Roberto
Jarach sottolinea: «A rappresentarci sui temi di politica nazionale e
internazionale c’è l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Il suo
presidente, Renzo Gattegna, ha espresso con giusto equilibrio cordoglio
per le vittime fermo restando il diritto alla sicurezza e alla vita
dello Stato d'Israele. Tutt’altro ha fatto invece Riccardo Pacifici
(presidente della Comunità di Roma ndr). Del resto, Pacifici considera
Gattegna un suo inferiore: anche a gennaio davanti al Papa, Gattegna ha
parlato per 4 minuti, Pacifici per 22! A Milano succederebbe l’esatto
contrario: io parlerei pochi minuti e lascerei più tempo a Gattegna.
Ecco perché parlo di confusione di ruoli». Nella bella casa milanese di
Roberto Jarach, nato nel 1944 a Lugano (i suoi genitori scampati
all’eccidio nazista di Meina si erano rifugiati in Svizzera) sono
conservate le carte di un vecchio processo. Suo nonno Federico,
brillante industriale, tra i fondatori di Assolombarda e presidente
della Federazione delle industrie metallurgiche (l’attuale
Federmeccanica) a causa delle leggi razziali fu costretto a cedere la
sua azienda, le «Rubinetterie Riunite», all’Edison dell’ingegner
Valerio. «In teoria - ricorda Jarach - era un contratto simulato. Ma,
alla fine della guerra non riuscì a recuperare niente; anche il
Tribunale gli diede torto. Mio padre Guido ricominciò da una piccola
azienda di macchine per stampa ». Molto meglio andò a suo nonno
materno, Carlo Schapira, patron del Cotonifico Bustese (12
stabilimenti, vero impero del tessile) grazie al suo socio, Antonio
Tognella, che custodì e, poi, gli restituì la proprietà. Forte impegno
nella comunità, nell’associazionismo, nel mondo dell’impresa. In questo
milieu, alto borghese, si è formato il laico e inclusivo Roberto
Jarach: «L’identità si difende con la profondità delle proprie
convinzioni non con le chiusure». E ancora: «E’ arduo pensare che un
gruppo della nostra dimensione possa sperare di sopravvivere con
l’endogamia». Fisico da attore, laureato in ingegneria al Politecnico,
ufficiale degli alpini, sposato con due figli, nel Consiglio della
Comunità per nove mandati Jarach nel 2005, tra mille polemiche, fu
costretto a interrompere il suo primo mandato da presidente sull’onda
delle dimissioni del rabbino capo, Giuseppe Laras. L’accusa? Essere
troppo aziendalista. «Ma una corretta gestione economica - sostiene
Jarach - è il presupposto fondamentale per garantire i principi e
valori della comunità ». Cinque anni dopo, con tanti debiti causati da
una cattiva gestione, l’elezione di Roberto Jarach, «l'aziendalista», è
diventata un plebiscito. Si apre così un nuovo capitolo nella
complessa, affascinante storia della dinastia Jarach.
Chiara Beria D'Argentine, La Stampa, 12 giugno 2010
Mondiali 2010 - La favola di Enyeama, da Tel Aviv alla sfida (vinta) con Leo Messi
C’è
un terzo giocatore, oltre ai già citati Masilela e Komac (Unione
Informa di venerdì 11 giugno), a rappresentare il campionato israeliano
ai Mondiali di calcio sudafricani attualmente in corso di svolgimento.
Si tratta di Vincent Enyeama, estremo difensore di Nigeria e Hapoel Tel
Aviv. Inizialmente sfuggito a chi scrive per un errore nella
pubblicazione delle liste FIFA, non è certo passato inosservato a
quanti si trovavano a Johannesburg o davanti a uno schermo per seguire
Argentina-Nigeria, match dallo spettacolo assicurato che ha messo di
fronte le due squadre più forti del girone C. E spettacolo è stato:
solo che il grande protagonista dello show non è stato Leo Messi con i
suoi dribbling ubriacanti e neanche Diego Armando Maradona con i suoi
urlacci dalla panchina, ma quel portiere dalla pelle color ebano, un
signor sconosciuto o quasi tra così tanti campioni in campo. Almeno
quattro parate straordinarie, Enyeama ha salvato la propria nazionale
da una goleada certa, limitando i danni (al termine dei novanta minuti
il risultato è stato 1 a 0 per gli argentini) e tenendola ampiamente in
corsa per la qualificazione agli ottavi di finale. Messi, più volte
ripreso dalle telecamere con lo sguardo perplesso per quella porta che
sembrava davvero maledetta, ha commentato: “Il portiere nigeriano si è
dimostrato un fenomeno”. Tanto che la Fifa lo ha nominato Man of the
Match. Nato a Kaduna nel 1982, Vincent Enyama si è formato
calcisticamente in anonime squadre nigeriane ed è arrivato alla
nazionale giovanissimo. Nel 2002 il debutto ai Mondiali in sostituzione
di Shorunmu. Da allora è titolare indiscusso della compagine africana.
Nel 2005 il trasferimento in Israele, prima al Bnei Yehuda (ci resta
due stagioni), poi all’Hapoel Tel Aviv. I primi tempi con la nuova
squadra sono difficili, ma gradualmente Vincent conquista compagni e
tifosi dimostrandosi un grande trascinatore oltre che un eccellente
numero uno. Nel 2009 le prime sirene straniere: Arsenal ed Espanyol
provano ad assicurarsi le sue prestazioni, i dirigenti israeliani
rispondono picche. Da qualche mese il cartellino di Eneyama è sul
mercato, per esigenze di cassa piuttosto che per motivazioni tecniche.
Il prezzo, fino a qualche giorno fa, era fissato intorno ai 3 milioni
di euro. Ma dopo la partita di ieri pomeriggio è facile immaginare che
la sua quotazione sia destinata a raggiungere cifre assai più
significative.
Adam Smulevich
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Davar Acher - La flottiglia naufraga in un mare di menzogne
Passate un paio di settimane, la vicenda della "flottiglia" si può
valutare freddamente per quel che è stata principalmente fin
dall'inizio: un episodio della guerra di attrito, immateriale ma molto
concreta, che il mondo islamico e l'estremismo di sinistra combattono
nell'opinione pubblica mondiale contro la legittimità di Israele e il
suo diritto a difendersi. Israele è sulla difensiva strategica da
sempre e in tutti i campi, per la semplice ragione che deve difendere
la sua esistenza e il suo territorio contro forze preponderanti e
disposte a ogni violenza. Lo è maggiormente nel campo delle relazioni
pubbliche, da quando gli arabi sono riusciti a identificarlo agli occhi
del mondo con l'"occupazione" (non solo della Cisgiordania, ma
dell'intera "Palestina storica", incluse Haifa, Tel Aviv Gerusalemme e
Beer Sheva). E lo è ancor di più da quando è finita malissimo la serie
dei "ritiri": abbandonare la zona di protezione del confine libanese ha
moltiplicato la forza di Hezbollah, cedere all'AP parti della
Cisgiordania ha portato il terrorismo nel cuore di Israele, lasciare
Gaza ha portato a un mini-stato terrorista, la ferita più infiammata
oggi. La
guerra mediatica in corso ha l'obiettivo di impedire a Israele di
utilizzare la sua forza militare per difendersi. La flottiglia è un
episodio di questa guerra, nelle dichiarazione degli stessi
organizzatori serviva non tanto a portare soccorsi a Gaza, quanto a
rompere il blocco, che il mezzo per rendere più difficile e costoso il
riarmo di Hamas. Bloccando le navi Israele non è affatto "caduto in una
trappola", ma ha combattuto una battaglia di interdizione necessaria in
condizioni di inferiorità strategica. In casi del genere si
pagano dei prezzi tattici per difendere valori strategici. Israele era
ben consapevole del rischio di sfruttamento mediatico dell'attuazione
del blocco in questo caso, ma non poteva subire che Gaza diventasse il
porto libero della guerriglia islamista nel Mediterraneo. Per questa
ragione ha fatto scendere quasi disarmati e senza fuoco preventivo di
sbarramento i propri commandos. Il senso di questo rischio era di
rendere possibile una soluzione incruenta dell'incidente: il risultato
finale sarebbe stato lo stesso, il blocco delle navi contro una
condanna generalizzata di Israele. Gli islamisti turchi a bordo,
reclutati da un partito, il BPP, erede dei "Lupi grigi" e responsabile
di molti omicidi di armeni, cristiani ecc., hanno deciso invece
di creare l'incidente per enfatizzare l'incidente: se fossero riuscito
a uccidere o a rapire qualche soldato il risultato sarebbe stato un
successo enorme nell'immaginario arabo, se il prezzo di sangue fosse
stato dalla loro parte si sarebbe potuto sfruttare vittimisticamente
com'è accaduto. A parte fantascientifici ipotesi di bloccare la nave
senza toccarla (chi ne parla non ha mai considerato l'energia cinetica
di un'imbarcazione del genere o anche sella sua elica), non si poteva
fare di più o meglio. Né si poteva far passare la flottiglia senza
creare un santuario terrorista sempre meglio armato, una Tortuga
mediterranea. La battaglia successiva è avvenuta sui media e fra
le forze politiche. Israele si è difesa meglio del solito su questo
piano, diffondendo molto presto un buon numero di video che mostravano
come fosse realmente andato lo scontro sulla "Mavi Marmara". Un
osservatore equilibrato aveva a disposizione, dalla sera del giorno
successivo all'incidente, i materiali per capire che i morti non erano
stati causati dall'"assalto" israeliano, ma da un agguato del gruppo
paramilitare turco sulla nave. Peccato che questi osservatori
equilibrati siano mancati, che i media e i politici abbiano ripetuto
all'infinito il mantra dell'"arrembaggio" e della "strage", con una
caratteristica graduazione di toni fra destra e sinistra, su cui ho
scritto la settimana scorsa. Quel che è successo nei media, però, va
ben al di là dei giudizi e delle opinioni, che naturalmente sono tutte
discutibili e tutte legittime. E chiaro che l'opinione dei media e dei
politici, a parte alcune eccezioni tutte o quasi di destra, è oggi
massicciamente antisraeliana. E però vi è stato una deformazione dei
media che riguarda i fatti, non le opinioni. Propongo di chiamare quel
che è successo "effetto Reuters", dall'agenzia di stampa che fornisce
buona parte delle immagini sui nostri giornali. Com'è noto la
Reuters ha ripreso delle foto già pubblicate da un quotidiano popolare
turco, in cui si vedevano i paramilitari infierire sul corpo dei
soldati israeliani catturati e abbattuti, immettendole sul circuito
internazionale, con solo una "piccola" operazione di editing per
eliminare i coltelli impugnati dai teppisti e le abbondante macchie di
sangue da esse provocate (per chi vuol vedere le immagini e saperne di
più, consiglio questa pagina:
http://www.malainformazione.it/schede/77/index.htm?c1276075212). La
Reuters è recidiva, perché fece uno scherzetto del genere al contrario
già durante la guerra del Libano nel 2006, ma si è proclamata
innocente, responsabile solo di un "ritaglio tecnico". O sono cattivi
giornalisti, che non capiscono come quei coltelli sono l'elemento più
importante delle foto, o il ritaglio non era affatto tecnico, serviva a
nascondere la violenza dei "poveri pacifisti". E' significativo che
nessuno nella stampa mondiale abbia insistito a chiedere spiegazioni.
Quel che ci interessa qui è che tutti i giornali italiani (in
particolare quelli di sinistra) hanno compiuto analoghi "ritagli",
eliminando dal quadro dei loro lettori fatti bene accertati e
documentati come le modalità dell'agguato turco sulla Mavi Marmara. Per
esempio i video, anche quelli tratti dalle telecamere dei "giornalisti"
presenti sulla nave non si sono visti praticamente su nessun sito web
dei giornali italiani e non sono stati affatto raccontati. Si è parlato
solo genericamente di una "versione israeliana", per definizione
squalificata. L'informazione sui fatti che viene da Israele si trova
insomma non solo a dover superare i pregiudizi dell'opinione pubblica,
ma un filtro attivo da parte dei media e dei politici di
sinistra. Come si spiega questo "effetto Reuters"?
Vi sono due ragioni. La prima è che la stampa italiana, impegnata com'è
in un'infinita campagna elettorale, è in questo momento la peggiore del
mondo (almeno dei paesi democratici), ha smarrito completamente l'idea
di avere la funzione di informare i suoi lettori, ha smarrito
completamente la distinzione fra propaganda e informazione. La seconda
è che contro Israele si applica dappertutto e anche in questo caso un
doppio standard, che lo fa giudicare in maniera diversa da qualunque
altro Stato o movimento. Un Doppio standard, che insieme alla
Demonizzazione e alla Delegittimazione rientra nei criteri proposti da
Natan Sharanski (le 3 "D") per il passaggio dalla legittima critica di
un governo all'antisemitismo.
Ugo Volli |
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Riad apre il cielo ai jet di Israele contro l'Iran Nel
compleanno delle sanguinose elezioni iraniane, il Times di Londra ha
impacchettato un bel regalo per Mahmoud Ahmadinejad: è la notizia che
l'Arabia Saudita avrebbe compiuto test significativi nel campo
aeronautico e della difesa missillstica. Avrebbe sperimentato la
disattivazione dei sistemi discrambling, ovvero di messa in avaria di
meccanismi utili a chi viola il suo spazio, e quella dei sistemi
missilistici destinati a colpire qualsiasi veivolo si azzardi a
sorvolare il regno sunnita. Lo scopo è evidente: consentire a lsraele
di utilizzare lo spazio aereo dell'Arabia Saudita, paese che non
riconosce Israele, aprendo una scorciatoia verso il bombardamento delle
strutture atomiche iraniane. Sarebbe stato anche previsto il
rifornimento in volo dei jet. In caso di attacco israellano alle
installazioni nucleari iraniane, infatti, gli obiettivi distano circa
2.250 chilometri, un'immensità se non si accorcia la strada passando
per il Nord dell'Arabia saudita. Secondo fonti del Golfo, i sauditi
potrebbero aprire uno, stretto corridoio e spegnere i sistemi di
difesa.[...]
Fiamma Nirenstein, Il Giornale, 13 giugno 2010
Le armate pacifiste Passata
la stagione della guerra in Iraq, Israele e il blocco di Gaza sono
diventati la causa principale dei sedicenti pacifisti in tutto il
mondo. Era dalla presa di Baghdad che non si assisteva a una simile
passione militante. Il blocco navale imposto da Israele al regime
islamista di Hamas ha smosso attivisti di mezzo mondo. Si preparano
altre navi. E con loro una strana armata di scrittori più o meno noti
come il giallista svedese Henning Mankell, vescovi di ogni sorta, molti
premi Nobel per la Pace, ex vicesegretari delle Nazioni Unite,
parlamentari inglesi che furono sul libro paga di Saddam Hussein,
modelle, studenti fuori corso, ex leader della guerriglia irlandese,
sessantottini attempati alla ricerca di nuove cause, intellettuali
israeliani passati dall'altra parte, medici che lavorano nelle
organizzazioni umanitarie internazionali. Si dicono tutti ispirati da
chi soffre. Come la ragazza americana che ha dato il nome all'ultima
imbarcazione irlandese diretta a Gaza, Rachel Corrie, una giovane
attivista politica piena di ideali venuta in Israele a lavorare per i
palestinesi e che rimase uccisa da un bulldozer israeliano in manovra
nella Striscia di Gaza. La musa della flottiglia pacifista si chiama
Greta Berlin, è una donna d'affari americana di Los Angeles,
settantenne pasionaria della causa filopalestinese. Ma è spesso famosa
nelle cronache per i commenti della figlia Ava, nota per aver
apostrofato contro i fottuti ebrei . Il padrino di quest'armata di
cuori teneri è un altro americano, l'ex presidente Jimmy Carter, premio
Nobel per la Pace e autore del libro di culto della nuova critica
pacifista, Palestine Peace, not Apartheid, dove Carter ha lanciato
nell'opinione pubblica l'analogia fra il modello razzista sudafricano e
quello israeliano. Il Washington Post lo ha accusato di flirtare con
qualsiasi dittatore, quantunque odioso. Come il tiranno Mengistu, come
il maresciallo Tito (" uomo che crede nei diritti umani" , disse
Carter), come il satrapo nordcoreano Kim Il Sung (vigoroso e
intelligente). Attivista politica figlia di pacifisti inglesi, modella,
attrice, columnist, presentatrice televisiva, ma soprattutto cognata
dell'ex premier inglese Tony Blair. Lauren Booth è fra le principali
anime del Free Gaza Movement. [...]
Giulio Meotti, Il Foglio 12 giugno 2010
Abu Mazen: i due Stati sono un sogno «Le
speranze per una soluzione della crisi in Medio Oriente basata sui due
Stati stanno svanendo». E' il presidente dell'Autorità nazionale
palestinese Abu Mazen ad alzare il velo su quanto sta maturando sul
terreno in Medio Oriente, a dispetto degli sforzi diplomatici.
L'occasione è una tavola rotonda alla Brookings Institution di
Washington, il centro studi più vicino alla politica estera
dell'amministrazione, all'indomani dell'incontro con Barack Obama nello
Studio Ovale. Se nelle dichiarazioni fatte alla Casa Bianca Abu Mazen
era rimastro nel quadro negoziale basato sugli accordi di Oslo del
1998, l'ambiente informale gli consente di parlare con maggiore libertà
e dunque porta il ragionamento in ben altre direzione: «Il concetto
della nascita di uno Stato palestinese a fianco di Israele in pace e
sicurezza temo si stia iniziando ad erodere» e «il mondo incomincia a
dubitare della possibilità di raggiungere questa soluzione». Nei mesi
passati era stato il governo israeliano a far trapelare dubbi sulla
fattibilità del progetto dei due Stati attorno al quale Bill Clinton
siglò nel giardino delle rose della Casa Bianca l'intesa fra Yizhak
Rabin e Yasser Arafat il 18 settembre 1998 ma ora è Abu Mazen che dice:
«Da un po' di tempo ascoltiamo slogan nella Cisgiordania che invocano
la soluzione di 'Un solo Stato' anche se né noi, né gli israeliani non
la vogliamo». [...]
Maurizio Molinari, La Stampa 12 giugno 2010
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notizieflash |
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Per gli Ebrei francesi la stampa nazionale è troppo ostile a Israele Parigi, 12 giu - Un'inchiesta
del settimanale Journal du Dimanche (Jdd), pubblicata alla vigilia del
voto per l'elezione del presidente del Crif, il Consiglio
rappresentativo delle istituzioni ebraiche francesi rivela che gli
ebrei di Francia giudicano la stampa nazionale transalpina troppo
ostile a Israele, e preferiscono informarsi con i giornali comunitari
o, sempre più spesso, via Internet. "I palestinesi hanno tutti i
media a proprio favore" lamenta Raphael, ebreo parigino di origini
tunisine, che confessa di aver ormai smesso di comperare i giornali,
deluso dal loro comportamento nei confronti di Israele. Le critiche non
risparmiano nemmeno quotidiani popolari come Le Parisien, foglio locale
della capitale francese ricco di cronaca e povero di riflessioni
politiche. Il suo racconto dei recenti eventi a Gaza, dichiara delusa
la pensionata Simone Bismuth, da anni affezionata lettrice, "é stato
troppo emotivo e passionale", privo di "informazioni precise, per
esempio sul diritto internazionale in materia marittima". "Hanno
l'impressione di essere tralasciati dai media francesi - spiega sempre
al Jdd il sociologo Erik Cohen - Non si sentono rappresentati. Allora,
da un momento all'altro, li abbandonano". Scegliendo piuttosto i
giornali editi dalla stessa comunità ebraica, oppure, in misura
crescente, i siti Internet filo-israeliani francofoni. Come JssNews,
webzine creata alla fine del 2008 il cui fondatore, Jonathan-Simon
Sellem, nella presentazione si dice "irritato dalle banalità" che si
dicono su Israele e il mondo ebraico. O Aschkel.info, con una
homepage ornata dalla bandiera israeliana, che si dà come obiettivo di
"lottare contro l'informazione che disinforma e la disinformazione che
informa". "C'é una forte irritazione nella comunità ebraica - dichiara
David Saada, presidente del Fondo sociale ebraico - a causa
dell'attaccamento emotivo molto forte a Israele, che non é il mostro
militarista che presentano i media. I soldati di Tsahal sono spesso
parenti, persone di famiglia. Quando gli ebrei sentono nella
manifestazioni 'Morte a Israele' o 'Israele assassino' accettano
ovviamente meno le critiche". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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