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L'Unione informa
 
    16 giugno 2010 - 3 Tamuz 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  locci Adolfo
Locci,

rabbino capo
di Padova
“...questo è uno statuto (Chok) della Torà” (Numeri 19:2). E’ noto il commento di Rash”y, all’inizio della parashà di questa settimana, che spiega questa tipologia di mitzwoth. Il Chok, che normalmente è tradotto col il termine “statuto”, è un precetto che, anche se la Torà non ne espone esplicitamente il significato, abbiamo il dovere di eseguirlo come il “decreto del Re”. Tuttavia alla fine del brano della “vacca rossa”, Rash”y riporta a nome di Rabbì Moshè haDarshan, una spiegazione dettagliata di tutti i particolari significati del Chok. Ciò può apparire come una incongruenza ma, forse proprio attraverso questa incongruenza esegetica, il grande commentatore ci vuole lasciare un messaggio educativo molto importante. Prima di tutto bisogna mettere in pratica le mitzwoth, anche senza domandarne o ricercarne il significato però, dopo il loro adempimento, l’approfondire il significato del nostro atto diventa un ulteriore dovere da eseguire. La non comprensione del motivo di una norma non deve ostacolarne il “rispetto”, anche se la “gioia completa” dell’adempimento di un nostro dovere si raggiunge attraverso la comprensione del suo significato più profondo.
Negli spettacoli off-Broadway questa è la stagione di "Circumcise Me", lo show in cui il comico Yisrael Campbell, nato con il nome di Chris in una famiglia cattolica della Pennsylvania, racconta il suo accidentato percorso attraverso tre successive conversioni: prima all'ebraismo riformato poi all'ebraismo conservative e infine all'ebraismo ortodosso. Ciò che ne esce è una descrizione autoironica dell'ebraismo americano contemporaneo visto dal di dentro. Con il risultato di liberare gli spettatori in sala da totem e tabù al punto da far riflettere sul fatto che anche gli ebrei europei e italiani avrebbero bisogno di qualcosa di simile, per riuscire a ridere di se stessi.   Maurizio Molinari,
giornalista
maurizio molinari  
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  Il grande ritorno dei fratelli Coen: Il sindacato dei poliziotti Yiddish

gaza I fratelli Coen puntano ancora una volta sugli ebrei d’America. Dopo l’uscita del loro film A Serious Man il duo di registi lavorerà a un adattamento per la Columbia Pictures del romanzo Il sindacato dei poliziotti Yiddish del premio Pulitzer Michael Chabon. Il produttore Scott Rudin, che ha collaborato con i due registi nella produzione del film Non è un paese per vecchi, ha acquistato già da tempo i diritti di questo Hard-boiled in salsa Yiddish con l’intenzione di affidare la direzione del progetto a Ethan e Joel Coen.
“Sono al settimo cielo - ha affermato lo scrittore Chabon in una recente intervista - tra tutti i registi viventi i fratelli Coen sono i miei preferiti e alcuni film da loro diretti rientrano nella mia personale top list. Credo che siano geniali e che siano perfettamente in sintonia con il genere, i contenuti e il tono del mio romanzo”.
Chabon ha ridisegnato la storia ebraica degli ultimi 60 anni, creando un universo contemporaneo alternativo, un’ucronìa complessa e articolata. Nell’agosto del 1948, dopo solo tre mesi dalla nascita dello Stato d’Israele, la resistenza di Gerusalemme cade sotto gli attacchi dei paesi arabi confinanti e gli ebrei della neonata repubblica d’Israele, in netta minoranza numerica, vengono sbaragliati e rigettati in mare. Gli Stati Uniti d’America si preparano così a ospitare i rifugiati a Sitka, in Alaska, dove nel giro di pochi anni si riversano circa due milioni di ebrei, un numero tale da obbligare il congresso ad assegnare alla colonia lo status ad interim di distretto federale.
Dopo 60 anni, Sitka è ormai uno Stato ebraico semi-indipendente, con un proprio governatore e un proprio corpo di polizia. In città si parla indifferentemente inglese, russo, tedesco e Yiddish, mentre rabbini ultraortodossi governano veri e propri imperi criminali a colpi di Tohu va-Vohu, il caos primigenio.
In questa babele si snodano la vicende di Meyer Landsman, un detective alcolizzato della squadra omicidi. Landsman è alla ricerca di risposte sul caso di uno scacchista ebreo ritrovato morto in un sudicio albergo di periferia. La vittima, Mendel Shpilman, un eroinomane che usa bucarsi utilizzando i Tefillin come fossero lacci emostatici, si rivela essere il figlio di uno dei più influenti boss della città e guida spirituale della comunità, il Verbover Rebbe. Come se non bastasse, Landsman scoprirà col proseguire delle indagini, che molti considerano il figlio del rabbino, vittima innocente di un complotto per sovvertire l’ordine nel distretto,  lo Zaddik ha-dor, il giusto della generazione.
Tra gli ebrei credenti si ritiene infatti che in ogni generazione Dio mandi sulla terra uno Zaddik, un giusto, che potenzialmente potrebbe diventare, se le condizioni nel mondo fossero favorevoli, il messia degli ebrei. Nessuno è ovviamente d’accordo che il proprio messia possa essere proprio un eroinomane omosessuale, nonostante conosca a memoria i testi sacri e guarisca con una semplice preghiera gli infermi e i malati.
Un film che non mancherà di suscitare polemiche, caratterizzato da una trama audace e al contempo politicamente scorretta. Un’occasione più unica che rara per ritrovare sugli schermi la creatività e la pazzia costruttiva dei fratelli Coen. L’uscita della pellicola è prevista per la fine del 2010.

Michael Calimani



Qui Roma - Rabbinato e crisi politica, vivace dibattito in Consulta

Non sono mancati i toni vivaci nella riunione della Consulta che si è svolta ieri sera al Palazzo della Cultura, nel cuore del quartiere ebraico romano, per discutere la situazione in cui opera il Consiglio della Comunità dopo un lungo periodo di confronti sfociato negli scorsi mesi nelle dimissioni, poi rientrate, di consiglieri della lista di opposizione “Per i giovani insieme”.
Dopo il saluto della presidentessa della Consulta, Elvira Di Cave, ha preso la parola il Consigliere Ugo Di Nola, che ha voluto ripercorrere le varie fasi che hanno condotto alle dimissioni, partendo da una lettera aperta critica nei confronti dell'attuale maggioranza. Nella lettera i consiglieri della lista “Per i giovani insieme” attaccavano “l'atteggiamento verticistico” nella gestione della Comunità del Presidente Riccardo Pacifici e dei sui Consiglieri appartenenti alla lista di maggioranza “Per Israele” lamentando il fatto che le riunioni di giunta fossero trasformate “in riunioni di lista affollate e poco produttive”, mentre il Consiglio - così recitava il documento - “viene svuotato di significato. Le vere decisioni le prende di fatto una sola persona”.
Di Nola è passato quindi ad elencare gli eventi che si sono susseguiti nel corso dei mesi dal disaccordo sulla gestione della visita del papa da cui sono derivate le dimissioni dei consiglieri Roberto Coen prima e Claudia Fellus al disaccordo per la gestione dell'organizzazione della serata con i sopravvissuti dei campi di concentramento al Tempio maggiore.
Immediata la replica del presidente della Comunità Riccardo Pacifici, che  ha ribattuto punto per punto a tali argomentazioni, respingendo l'accusa di voler concentrare il potere nelle mani di pochi elementi della propria lista. Quanto poi alla serata con i deportati organizzata in occasione del Giorno della Memoria Pacifici ne ha fatto rilevare il successo di pubblico (1800 persone quando ne erano state preventivate 200) e il fatto che le uniche cariche istituzionali invitate fossero il sindaco Gianni Alemanno e il Presidente della Provincia Nicola Zingaretti.
La serata è proseguita con toni vivaci e vari interventi di consultori fino al momento in cui è stato evocato un altro argomento d'attualità: la revoca dell'incarico di rabbino capo di Torino al rav Alberto Moshè Somekh. Claudio Fano ha chiesto la parola per criticare l'offerta avanzata al Rav di assumere un incarico nel quadro del rabbinato romano. Secondo Fano questa scelta rischierebbe di dividere la Comunità in modo simile a quanto avvenuto altrove.
Il Presidente Pacifici è tornato a prendere la parola per dimostrare quanto siano destituiti di fondamento eventuali sospetti di voler creare difficoltà al rabbino capo. “Il rabbinato romano - ha chiarito - vive un momento di difficoltà numerica per il fatto che uno dei suoi componenti storici, il rav Alberto Funaro direttore dell'ufficio rabbinico ha raggiunto l'età della pensione recentemente, un altro dei rabbini, il rav Michael Ascoli lascerà il suo mandato a fine luglio per fare l'alyà in Israele, e il rav Ariel Di Porto ha ricevuto offerte per prendere servizio in altre comunità italiane. L'ipotesi di offerta avanzata al rav Somekh, ora non più attuale,  era stata quindi elaborata in sintonia con il capo rabbino Di Segni e con il rav Benedetto Carucci Viterbi, direttore delle scuole ebraiche dove il rav Somekh avrebbe potuto insegnare”. L'ipotesi ha aggiunto Pacifici, prevedeva anche una docenza al Collegio Rabbinico in accordo con gli organi dirigenti dell'Unione.
La consigliera Ruth Dureghello, attuale assessore alle Scuole, nelle fila della lista di maggioranza ha cercato di far rilevare i punti di incontro ed i molti momenti in cui maggioranza ed opposizione hanno lavorato produttivamente fianco a fianco. Il consigliere Tobia Zevi dell'opposto schieramento ha evidenziato i punti di divergenza e ha amaramente valutato la propria esperienza in seno al Consiglio della Comunità Ebraica di Roma, come la più deludente fra tutte le sue esperienze di attivismo in ambito ebraico.
I toni polemici sono proseguiti nell'intervento di Elvira Di Cave, che ha espresso a Ugo Di Nola il proprio sconcerto per non aver compreso l'intento con cui la serata al Tempio Maggiore è stata organizzata: essenzialmente quello di dare voce ai deportati, sentirne le testimonianze e non certo quello di farne un evento mondano. La presidentessa della Consulta ha fatto sentire la sua voce anche in merito ad alcune assunzioni all'Ospedale israelitico che erano state contestate nei loro criteri di trasparenza in una seconda lettera inviata dagli appartenenti alla lista di minoranza.

Lucilla Efrati

 
 
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  Una provocazione stimolante,  
ma irrealizzabile e controproducente


Francesco LucreziLa provocatoria e stimolante proposta di Alain Elkann, di estendere la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei del mondo, ha suscitato molteplici reazioni, richiamando l’attenzione sul particolare, complesso rapporto tra Israele e la diaspora, la cui interrelazione anima e alimenta, in modo intenso e problematico, l’essere e il divenire della moderna identità ebraica. La proposta risponde evidentemente allo scopo di rinsaldare il legame tra l’ebraismo “di dentro” e “di fuori”, superando ogni ambiguità ed esitazione riguardo al senso di appartenenza e di solidarietà, da parte degli ebrei, nei confronti della comune patria ebraica, e va senz’altro lodata per il suo forte messaggio di sostegno nei confronti dello Stato di Israele, tanto più da apprezzare in quanto formulato in un momento delicato e difficile come quello attuale.
Ciò detto, appare doveroso ricordare per quali motivi tale proposta, oltre che giuridicamente irrealizzabile, potrebbe anche rivelarsi controproducente ai fini della stessa sicurezza di Israele, a cui essa vorrebbe invece contribuire.
Com’è noto, la Legge del Ritorno, approvata nel luglio 1950 dalla Knesset (e poi completata dalle successive Leggi della Cittadinanza e dell’Ingresso, del 1952), sancisce che ogni ebreo che lo desideri, al momento del suo trasferimento, attraverso la ‘aliyà’, nella Terra Promessa, acquisti immediatamente, in quanto ‘olè’, ‘salito’, la cittadinanza israeliana. Tale legge - che deriva direttamente dalla Dichiarazione di Indipendenza, che stabilisce che lo stato ebraico “aprirà le porte della patria a ogni ebreo” che vi faccia ritorno (6° c.), e “sarà aperto all’immigrazione ebraica e alla riunione degli esiliati” (12° c.) -, con la sua incondizionata accoglienza verso tutti gli ebrei, pone già le basi di una naturale estensione della cittadinanza nei confronti dell’intero popolo mosaico, i cui componenti sono tutti eletti a ‘potenziali’ cittadino dello stato. Ma la cittadinanza israeliana, evidentemente, non viene estesa automaticamente a tutti, ma solo a coloro che esercitino concretamente tale facoltà, scegliendo di vivere in Israele. Trasformare tale cittadinanza da potenziale a effettiva, con tutti i connessi diritti e doveri (voto, tasse, servizio militare ecc.), indipendentemente dalla aliyà, sarebbe evidentemente impossibile, e non solo perché la grande maggioranza degli ebrei del mondo, verosimilmente, non vorrebbe farlo (né sarebbe giusto che coloro che rifiutassero di ‘promuovere’ l’identità ebraica a cittadinanza israeliana si vedessero perciò accusare di incoerenza, infedeltà o scarso patriottismo), o non potrebbe (ci sono ebrei anche in Paesi, come l’Iran, che mai permetterebbero una cosa simile), ma anche perché ciò sposterebbe impropriamente, e forse pericolosamente, il baricentro della responsabilità delle scelte da assumere per il destino dello stato ebraico (scelte, non dimentichiamo, che assumono spesso un carattere di assoluta urgenza e drammaticità). Chi mai potrebbe avere l’autorità e il coraggio di dire “sì o no”, di fronte, per esempio, a una grave opzione di pace o guerra, se non coloro che sono chiamati a sopportare direttamente (anche con la propria vita o morte) le conseguenze della stessa? Chi mai potrebbe dire “facciamo così o così”, comodamente seduto in poltrona, al sicuro nella propria casa di New York o di Roma? Sono problemi che sono già stati motivatamente sollevati in Israele, di recente, riguardo alla proposta di estendere il diritto di voto ai cittadini israeliani residenti soltanto all’estero (di numero, ovviamente, molto inferiore a quello di tutti gli ebrei del mondo), e la giusta richiesta di permettere a tutti i cittadini l’esercizio di un fondamentale diritto di cittadinanza si è scontrata con la forte obiezione che la responsabilità del voto non può essere disgiunta dalla sopportazione delle ricadute pratiche dello stesso: un principio forse non tanto avvertito da chi viva tranquillamente in pace, ma fondamentale per un Pese in continuo, reale pericolo.
Anche con tutti gli ebrei del mondo come cittadini, d’altronde, Israele resterebbe pur sempre un Paese molto piccolo, circondato da miliardi di non ebrei. Il compito storico della golà, al momento attuale, non è quello di ‘diventare’ Israele, ma di difendere le ragioni di Israele nel modo dei gentili, facendo capire quanto esse coincidano con le ragioni della civiltà, del diritto, della pace, dell’uguaglianza nella diversità. Che è, poi, lo stesso compito anche dei molti, tanti non ebrei che amano Israele. Al punto, a volte, da considerarla propria “patria ideale”, senza con ciò desiderare di diventare israeliani, né ebrei.

Francesco Lucrezi, storico

 
 
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Nei giorni nei quali si svolgono i mondiali di calcio in Sud Africa, Europa approfitta per dare visibilità a tale Alex Hughes, tifoso ideologizzato che porta il dramma del Medio Oriente negli stadi, ripetendo che i territori palestinesi sono come il Sua Africa dell’apartheid; bisognerebbe invitarlo in Israele per permettergli di vedere coi suoi occhi quella che è la realtà oggettiva. In vista di un importante dibattito che avverrà oggi a Roma a cura della fondazione Fanfani (tra gli oratori Ettore Bernabei, al centro di polemiche pochi giorni or sono), l’Avvenire, in un articolo di Riccardi, fa un excursus sulla politica di colui che fu a lungo ministro degli Esteri; peccato che, fin dall’inizio, cada in errore quando cita la risoluzione 242 scrivendo “del ritiro Dai territori occupati”, e dimenticando, di conseguenza, di parlare anche delle necessarie modifiche dei confini previste dalla stessa 242. E’ comunque interessante il suo ritornare alle parole del ministro degli Esteri Sforza che già nel 47 scriveva che Italia e mondo arabo costituiscono uno degli elementi essenziali della nostra politica estera (fu buon profeta). E fu lo stesso Fanfani, in visita nel 67 in Siria, ad invitare invano gli arabi a dichiarare “pubblicamente” di non volere il genocidio degli israeliani. Sul Corriere troviamo due diversi articoli di Battistini; in quello di cronaca parla delle nuove navi che nei prossimi giorni dovrebbero tentare di forzare il blocco navale arrivando dal Libano e dall’Iran. Su quella libanese sarà, con un gruppo di donne, la moglie di un generale filosiriano arrestato per l’omicidio Hariri. Nel finale dell’articolo Battistini entra nei giochi della politica interna israeliana, severo con la scelta della commissione di inchiesta e con le “leggerezze” di Netanyahu tra l’affare di Dubai e le violenze contro la Flotilla; Battistini appare ora decisamente schierato in favore di un ritorno al governo della Livni. Nel secondo articolo intervista uno dei fondatori di Hamas, Al Zahar, che subito, dalle prime parole, porta la discussione anche sul piano religioso affermando che è un obbligo per ogni musulmano aiutare i fratelli. L’intervista viene effettuata nel salone di casa Zahar, che, pur se non descritta, potrebbe essere uno di quei meravigliosi palazzi che tanto diversi sono dalle catapecchie delle quali sempre si parla; apprendiamo solo che nel salone tirato a lucido sta anche una gigantesca Land Cruiser ancora più lucida. Interessanti le parole di Zahar quando ci dice che Erdogan è l’uomo nuovo che ritorna dopo mezzo millennio di impero ottomano; la Turchia è il nuovo centro dell’Islam. Purtroppo avremmo sperato di leggere delle domande più pungenti, come si devono fare ai potenti, per non diventarne il megafono. Invece leggiamo solo, tra le righe, che sì, anche Hamas avrebbe dovuto proclamare le elezioni, essendo il suo diritto di governare scaduto da 3 mesi. Si può, infine, purtroppo concordare con Zahar quando afferma che il processo di pace è fallito e che ora possiamo aspettarci di tutto. Su La Voce Repubblicana Italico Santoro fa un’accurata analisi del mondo musulmano dove nulla è come appare, e dove la realtà è ben diversa da quanto viene dichiarato ufficialmente, oggi come sempre nel passato. Su Libero Socci parla dei funerali del vescovo dell’Anatolia Luigi Padovese: severa è la critica che muove alla Chiesa di Roma i cui vescovi sono come dei moderni don Abbondio. La Turchia, prima terra a diventare cristiana, venne islamizzata con la forza (la presa di Bisanzio avvenne con un bagno di sangue). I cristiani nel paese si riducono velocemente, da due milioni a poco più di centomila, e nonostante il fatto che, prima di Padovese, sia stato ucciso don Santoro, e che da quella terra provenisse pure Ali Agca, oggi Tettamanzi esita ad usare il termine martirio. Preferisce parlare di violenza insensata e tragica, ma purtroppo non si può davvero considerarla senza senso. Il martirio, in Turchia, va avanti da secoli, e monsignor Padovese lo aveva capito benissimo se in un suo scritto premonitore leggiamo: nessun paese ha avuto tanti martiri come la Turchia. Il papa lo ha capito bene, scrive Socci, ma la Segreteria di Stato no; infatti ha preferito restare assente dai funerali, così come è stata notata l’assenza del governo italiano, pur di solito così presenzialista. Non lontano l’argomento che troviamo sul Foglio che, non a caso, si reca a Cordoba (questa città è stata scelta per dare il nome alla enorme moschea che si vorrebbe costruire nei pressi di Ground Zero). Il papa chiese ai suoi vescovi che cosa intendessero fare coi musulmani, e questi risposero di non saperlo. Ma il nuovo vescovo di Cordoba, d’accordo col cardinale di Madrid, ben deciso a non concedere ai musulmani, per le loro preghiere, la cattedrale, si oppone al piano di Zapatero che vuole fare della città il nuovo centro dell’alleanza tra le civiltà; progetto che Zapatero porta avanti coi turchi e coi musulmani senza comprendere il significato che riveste, per loro, la città di Cordoba. Accogliere i musulmani, sì, ma nel modo giusto. Attenta l’analisi da Mosca di Felix Stanevskiy: la Russia, che fu definita da Khomeini il piccolo satana, teme che prima o poi si stabilisca un legame tra l’Iran e l’occidente che vuole controllarne le risorse energetiche; la Russia rischia di restare tagliata fuori. Tra le tante voci raccolte vi è chi pensa che Mosca abbia perso l’occasione unica di costituire un asse con Teheran ed Ankara. Le sanzioni comunque, a detta di molti, non potranno funzionare, e nessuno intuisce quali saranno le sorti dei sistemi antimissile S300 promessi dalla Russia all’Iran; una fornitura questa che rischia di avere pesanti ripercussioni sugli equilibri del MO. Su il Riformista trova spazio la polemica che dilania in questi giorni l’associazione della stampa estera che, ben foraggiata da importanti finanziamenti dello stato italiano, protegge l’attività di un giornalista iraniano arrestato per traffico di armi e spionaggio, ma nel contempo ha espulso prima l’israeliano Menachem Gantz, che non ha voluto lasciarsi imbavagliare, e poi la francese Ariel Dumont che lo aveva difeso. La polemica, già trattata da par suo da Meotti nei giorni scorsi, appare come uno dei tanti giochi sporchi che avvengono nei nostri palazzi. Fa piacere trovare sul Resto del Carlino un articolo, a firma di Gatti, che per una volta non è aprioristicamente schierato contro Israele come lo sono di solito gli articoli di questa testata. Se sarà seguito da altri simili sarà una piacevole sorpresa. Da leggere con attenzione, infine, su l’Avanti, dure parole contro l’editoriale pubblicato da La Stampa a firma di Barbara Spinelli che, ancora domenica scorsa, non ha mancato di scagliarsi contro Israele (e, naturalmente, solo contro questo stato), in un editoriale da tanti severamente criticato.

Emanuel Segre Amar

 
 
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"Impegno delle Forze dell'ordine contro i razzismi"                      
"Accogliamo con favore la notizia diffusa dal Capo della Polizia, Antonio Manganelli, della costituzione di un Ufficio Centrale dedicato alle minoranze coordinato dalla Criminalpol". Lo ha affermato il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. "Si tratta - ha proseguito il Presidente Ucei - di un organismo da noi auspicato, utile a garantire il monitoraggio e la prevenzione delle diverse forme di discriminazione, di pregiudizio, di razzismo e di antisemitismo. E’ la proficua conclusione di un iter di colloqui e di contatti che da tempo intratteniamo con tutti gli organi responsabili della sicurezza sul territorio, il cui lavoro, che ha prodotto apprezzabili risultati, viene così ulteriormente rafforzato. Mi sembra inoltre utile sottolineare, quale iniziativa di particolare interesse tra i compiti del nuovo organismo, quella di essere presente anche nel mondo virtuale, con un “commissariato online” composto da esperti, che seguirà l’evoluzione del pregiudizio su questo nuovo media, usato in particolar modo dalle giovani generazioni".

Blocco terrestre verso Gaza: il Governo israeliano
esamina la proposta, invariato quello marino
Gerusalemme, 16 giu -
Israele insiste nell'impedire l'ingresso a Gaza di armamenti ma non che vi vengano inoltrate maggiori quantità di prodotti umanitari e commerciali. Così nei giorni scorsi il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva voluto chiarire la posizione del suo Governo. Di norma, Israele autorizza l'ingresso a Gaza di circa 100 camion al giorno. I ministri israeliani si riuniranno oggi per discutere un eventuale allentamento del blocco terrestre di Gaza, fermo restando quello marino.

 
 
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