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L'Unione informa |
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18 giugno 2010 - 6 Tamuz 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
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quartiere ebraico di Praga si trova la più antica sinagoga europea: la
Sinagoga vecchia-nuova. Secondo gli storici, in origine il suo nome era
solo “nuova”, ma quando ne fu costruita un altra nei pressi, per
sottolineare la sua antichità, alla sinagoga fu aggiunto anche il
nome “vecchia”. Assai più affascinante è la tradizione che compare
negli antichi libri praghesi. Vecchia-nuova si traduce in Yidish:
alte-noy, parole che hanno anche il significato di: “a condizione che”
(‘al tenòy). Sembra che il Presidente della Comunità abbia
permesso la costruzione della sinagoga a condizione che un giorno
una delle sue pietre sia posta tra quelle del futuro Tempio di
Gerusalemme. La sinagoga alte-noy è ancora in uso dopo quasi ottocento
anni. Tanti Batè Hakenèset in Europa sono diventati invece solo musei
di Comunità ormai scomparse, grazie anche a leaders convinti che il
futuro possa prescindere dal sogno di costruire una vita ebraica
attorno alla famiglia ebraica, allo studio e alla Tefillà che
porteranno un giorno Israele a Ierushalàim nel Tempio ricostruito.
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Appena ti fabbrichi un pensiero, ridici sopra. (Lao Tse)
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Matilde Passa, giornalista
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Gattegna, Jarach e Pacifici: Un segnale di concordia per dare vita a un dibattito vivace, ma sereno
La pubblicazione sul quotidiano La Stampa
del 12 giugno 2010 del colloquio tra la giornalista Chiara Beria
D'Argentine e il presidente della Comunità Ebraica di Milano Roberto
Jarach, ha suscitato un vasto ed animato dibattito, rispetto al quale
il presidente Jarach tiene a precisare che quanto è stato scritto
costituisce una breve sintesi di un discorso protrattosi in realtà
molto a lungo e che la ristrettezza dello spazio dedicato a diversi
temi, importanti e complessi, ha prodotto distorsioni del suo pensiero. Tra
il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo
Gattegna e i presidenti delle Comunità di Milano e di Roma, Roberto
Jarach e Riccardo Pacifici, esiste un rapporto di stima, di amicizia e
di condivisione di valori che dura da molti anni. Oggi che essi si
trovano a ricoprire importanti cariche nell'ambito dell'ebraismo
italiano, pur consapevoli delle diversità delle rispettive posizioni,
intendono coordinare le loro attività e collaborare nel superiore
interesse di garantire a tutte le Comunità e a tutto l'ebraismo
italiano un positivo sviluppo. Consapevoli che le strutture
dell'ebraismo italiano si basano su un delicato equilibrio di autonomie
e specifiche competenze, la cui osservanza è necessaria per
rappresentare in maniera corretta il patrimonio di varietà e di
diversità delle tradizioni culturali, ribadiscono il reciproco rispetto
delle persone e del loro impegno per le Istituzioni che essi stessi
rappresentano. Il presidente Jarach afferma che qualsiasi
espressione tra quelle pubblicate, che possa essere apparsa non in
linea con questi principi o offensiva non rappresenta correttamente il
proprio pensiero ed esprime il proprio rammarico se alcuni frasi si
sono prestate a essere diversamente interpretate. La difesa delle
ragioni e del diritto all'esistenza in sicurezza dello Stato d'Israele,
rimangono un valore fondamentale nella storia del loro comune impegno
comunitario. Nel confermare la condivisione di questi ideali, i
sottoscritti intendono trasmettere un segnale di concordia e un
contributo allo svolgimento di un dibattito, vivace ma sereno,
condizione questa indispensabile per il costruttivo svolgimento del
loro impegnativo lavoro.
Renzo Gattegna, Roberto Jarach, Riccardo Pacifici
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Tra un Mondiale e l’altro
1990:
accompagno una cugina israeliana a vedere il centro di Torino. E’
sabato sera e l’Italia, che ospita i Mondiali di calcio, ha appena
vinto la sua prima partita, contro l’Irlanda. Tutta via Roma è piena di
gente festante, un tripudio di bianco, rosso e verde, ragazze vestite
solo con la bandiera; ci saranno decine di migliaia di persone. La
cugina è sconcertata: tutto questo solo per una partita di calcio? “Da
noi queste cose si vedono a Yom Ha-Atzmaut” mi dice; e io un po’ fatico
a immaginare che in Israele si possa fare una festa come quella senza
che sia necessario aver vinto una partita. Nel
1994 sono in Olanda a un incontro degli insegnanti delle scuole
ebraiche europee. La semifinale vede l’Italia contro la Bulgaria e
tutta la sala compattamente tifa per la Bulgaria. “E’ Davide contro
Golia” mi spiega qualcuno. Invece vince l’Italia e il preside della
scuola ebraica di Sofia, tutto compunto, si alza e mi stringe la mano. Ma
già da quell’anno per me il ricordo dei mondiali di calcio ha
cominciato a confondersi con quello dei congressi dell’UCEI. Mozioni,
liste, politica, cultura, Israele, giovani, riunioni più o meno
segrete, accordi, disaccordi. Tutto spesso con la necessità di fare in
fretta perché c’è una partita da guardare. Nel 1998 l’Italia gioca
contro l’Austria proprio durante le votazioni per il Consiglio, nel
2006 giocherà alla sera contro la Germania e quindi i delegati devono
tornare a casa in fretta. Entrambe le volte il congresso UCEI porta
fortuna alla nostra nazionale, ma l’ansia per la partita ha fatto
scappare qualcuno prima del tempo. 2010:
che stana impressione un Mondiale senza congresso. Intanto le vicende
delle Comunità ebraiche italiane sembrano sempre più interdipendenti,
tra le interviste incrociate dei presidenti di Roma e Milano e le
vicende torinesi che vengono variamente commentate in tutta Italia.
Molti richiedono un Bet Din nazionale, una kasherut nazionale. Non c’è
in ballo solo la riforma dello statuto: le questioni su cui è
necessario un confronto tra tutti gli ebrei italiani sono molteplici.
Speriamo che a dicembre un congresso finalmente libero dai Mondiali di
calcio riesca ad affrontarle.
Anna Segre, insegnante
Comix - Will Eisner e la forza della vita
Terzo
e ultimo episodio della trilogia dedicata a New York. "La forza della
vita" (Fandango Libri) è sempre ambientata nel Bronx, sempre in quella
Dropsie Avenue e il numero 55 della strada è sempre lì ad ospitare i
personaggi veri, più veri di un uomo vivo, che questa volta si
confrontano con il periodo della depressione, la crisi economica degli
anni Trenta. Jacob
Shtarkah è alla ricerca del significato della sua vita; nelle prime
pagine, con un montaggio teatrale, quasi un monologo, Jacob affronta il
primo elemento di paragone quando si parla di questo argomento: siamo
stati creati da D-o oppure D-o è il frutto della nostra mente. Le due
ipotesi cambiano completamente il significato della vita. Eisner
ha anche giocato con la nostra immaginazione, così ha introdotto uno
scarafaggio come termine di paragone tra quello che può essere
l'esigenza primaria della vita, che chiamiamo sopravvivenza, e la
ricerca di qualcosa di più del mangiare che occupa la giornata di uno
scarafaggio. Jacob
Shtarkah non solo insegue qualcosa di più nella vita, ma quando
riuscirà a superare la depressione, ad avere un lavoro onesto e
reddittizio, ha anche l'occasione della sua vita. La possibilità di
recuperare un amore perso. Qui scatta una delle caratteristiche
peculiari di molti lavori di Eisner, spesso i personaggi non riescono a
completare il loro riscatto. Come se non tutto ciò che riguarda la
nostra vita fosse possibile, praticabile dalle nostre mani di uomini.
Non riusciamo spesso a essere i muratori della nostra casa. Ma
attenzione, anche in questo graphic novel non abbiamo un finale
moralistico, una soluzione, abbiamo una domanda aperta. Eisner nella
introduzione al libro parla della universalità del mezzo "fumetto", dei
temi che ha trattato, ma... il modo di trattarlo non è universale, è
suo proprio. Anzi la risposta al monologo iniziale di Jacob Shtarkah è
un'altra domanda o comunque una riflessione personale di ogni lettore.
Andrea Grilli |
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L’attenuazione
del blocco mercantile imposto intorno a Gaza da parte degli israeliani
parrebbe essere una delle più dirette conseguenze della vicenda
luttuosa della Mavi Marmara, la nave turca dove nove attivisti
filopalestinesi hanno perso la vita dopo essersi scontrati fisicamente
con i militari dell’esercito di Gerusalemme, inviati per fermare
l’azione di violazione dell’embargo marittimo. Ne parlano diversi
giornali e tra di essi richiamiamo gli articoli di Riccardo Redaelli
per l’Avvenire (la medesima testata fa la sintesi della situazione affermando che «Israele allenta la morsa»), di Francesco Battistini su il Corriere della Sera, di Roberto Fabbri per il Giornale, di Luisa Arezzo su Liberal, di Carlo Panella su Libero, di Giampaolo Pioli su la Nazione, di Eric Salerno su il Messaggero, di Alberto Flores d’Arcais per la Repubblica, di Virginia Di Marco su il Riformista, della Stampa e degli ipercritici Ugo Tramballi su il Sole 24 Ore e Umberto De Giovannangeli per l’Unità.
Ampia possibilità di scelta nella lettura della notizia, quindi, con un
fondamentale richiamo che è quello fornitoci da Pierluigi Magnaschi
quando, su Italia Oggi,
ci ricorda la dimensione mediatica della “guerra” in corso. In realtà
gli effetti di una realtà in movimento, quella del conflitto
israelo-palestinese (e delle sue concentriche amplificazioni), che solo
a una superficiale lettura può invece apparire come statica, sono
ancora tutti da misurarsi. Quanto stiamo vedendo in questi mesi
risponde al criterio di un riallineamento dei protagonisti, che stanno
riposizionando le loro pedine sulla scacchiera mediorientale. Tra i
tanti segni, rivolti in tal senso, due si impongono sugli altri: la
ridefinizione del proprio profilo geostrategico da parte della Turchia
e le difficoltà crescenti che Abu Mazen trova nel sostenere la formula
dei «due Stati per due popoli». Nel primo caso ci troviamo dinanzi a
una partita complessa, che sancisce lo sganciamento di Ankara da
Gerusalemme, dopo un lunghissimo periodo di reciprocità militare,
economica ed energetica. Si veda al riguardo quanto riporta Marta
Ottaviani per l’Avvenire.
Un rapporto strategico per Israele, che va consumandosi, ma la cui
erosione non può essere attribuita alle sole scelte dello Stato
ebraico. La Turchia di Erdogan già da tempo va accarezzando un progetto
di rilancio della propria presenza regionale, temendo di essere
scavalcata da possibili assi preferenziali tra l’Iran, la Russia, la
Cina e il Brasile. In realtà il posizionamento degli attori è ancora
piuttosto confuso ma configura scenari in divenire, dove due sono gli
elementi che entrerebbero prepotentemente in gioco: il relativo declino
del ruolo regionale degli Stati Uniti (che, così come a tutt’oggi si
dà, è il risultato sia degli equilibri postcoloniali, nel momento in
cui Francia e Gran Bretagna abbandonarono definitivamente la scena
mediorientale tra il 1956 e il 1962, sia di un mutamento di funzione
che trova le sue origini in un bipolarismo che da vent’anni è venuto a
mancare) e il trasferimento di potenza economica e politica verso
l’Oriente. Si tratta di processi di lungo periodo, i cui effetti si
misurano in decenni. E tuttavia, dalla caduta del muro di Berlino sono
già passati più di vent’anni, quasi una generazione statistica. La
riconfigurazione turca sul versante mediterraneo si accompagna a una
ridefinizione interna, legata al ridimensionamento della presenza dei
militari, garanti della laicità dello Stato. Da questo punto di vista
il fenomeno si ricollega allo slittamento subito dal processo di
integrazione nell’Unione Europea, rinviato di fatto sine die. Per
Ankara l’islamizzazione politica (e la politica dell’islamizzazione)
risponde al progetto di costruire un polo di attrazione per il mondo
sunnita, bilanciando l’atteggiamento fortemente militante di Teheran.
Si tratta di un passaggio pieno di incognite, peraltro, ma che potrebbe
segnare lo sganciamento della Turchia - a quasi cent’anni dalle scelte
strategiche che fece in concomitanza con la Prima guerra mondiale –
dall’indirizzo di “turchizzazione” del proprio territorio a favore del
rilancio di un nuovo “ottomanismo” (che guarderebbe alla
pluricentenaria esperienza del sultanato imperiale con rinnovato
interesse). Non un ritorno su passi perduti, cosa in sé impossibile, ma
la ridefinizione della propria fisionomia in chiave geopolitica. Non di
meno un altro problema che si pone per Gerusalemme è il rapporto con
l’Egitto, prossimo oramai ad un delicato trapasso di potere. Paese,
quest’ultimo, che ha costituito il vero anello forte nella tenuta
dell’architettura degli accordi di pace firmati nel 1978. In queste
settimane il Cairo ha più volte manifestato un severo disappunto per la
condotta del vicino verso le ipotesi di intesa per il trattato di non
proliferazione nucleare. La chiusura dell’ultima conferenza all’Onu,
dove gli Stati Uniti - che caldeggiano la costruzione di un diffuso
consenso verso una nuova edizione del medesimo - hanno dovuto accettare
il testo del documento finale, dove si cita espressamente Israele, di
fatto identificandone le “inadempienze”, è una carta che il regime di
Mubarak (o chi per lui) userà di qui in futuro. L’Egitto mal sopporta
l’essere costretto a un ruolo secondario rispetto a un interlocutore
che si ritiene possieda armamenti atomici ed un altro che vorrebbe
dotarsene. Peraltro per Israele il problema non è tanto il formalizzare
il possesso di testate e vettori nucleari quanto il rischiare di
perdere quella risorsa dissuasiva e quel “vantaggio competitivo” che
deriva dal potere lasciare intendere che ha a disposizione un’arma così
potente senza per questo doverne rivelare l’effettiva esistenza. La
carta atomica in Medio Oriente, infatti, si gioca non solo sul suo
concreto possesso ma anche sul potere di blandire i propri avversari
con il richiamo alle presunte capacità del proprio arsenale. In altre
parole ancora, ha maggiore potenza ciò che non si conosce ma di cui si
presagisce il profilo. Si diceva anche del leader palestinese Abu
Mazen, che ha segnalato a Washington le crescenti difficoltà nelle
quali si trova ad operare. L’Amministrazione americana è al momento il
partner più affidabile per i palestinesi della Cisgiordania. I problemi
per il rais di Ramallah nascono tuttavia non solo dallo stallo nel
processo di pace bensì da una diarchia che si è andata ingenerando nei
Territori sotto la sua giurisdizione politica. L’economia palestinese
conosce una nuova primavera, in accordo con gli sforzi fatti
dall’attuale premier Salam Fayyad, di cui si può avere un rimando
nell’intervista di Andrea Tempestini su Libero
a Jihad al-Wazir, governatore dell’Autorità monetaria palestinese. La
qual cosa, se dà maggiore impulso alla comunità locale rischia di
ingenerare, in prospettiva, una competizione tra il Presidente
palestinese, molto legato al vecchio notabilato olpista, e il Primo
ministro la cui logica è molto più attenta a creare le strutture di una
società autonoma, a partire dalle quali avanzare poi rivendicazioni di
merito. Un capovolgimento del processo, in buona sostanza, che sovverte
le priorità, rivelando il tramonto del progetto statocentrico che aveva
animato l’intero Olp dalla seconda metà degli anni Settanta in poi.
Fayyad ne è un po’ l’esecutore testamentario, rivelando (sulla scorta
della stessa esperienza sionista) che prima viene una società e poi le
sue istituzioni politiche, che ne sono il riflesso immediato ma non
autonomo. Benché i palestinesi siano affezionati alla loro storia, è
plausibile che Fatah sia destinato a tramontare. La scissione di Gaza,
consumatasi tra il 2006 e il 2009, ne è il segno più evidente. Oggi è
non è ipotizzabile la ricomposizione di una “Palestina” che viaggia a
due diverse velocità, non almeno a breve, laddove però i tempi
mediorientali sono estremamente dilatati. Di altro tenore e argomento
sono le considerazioni che Angelo Pezzana fa su Libero
riguardo alla proposta, avanzata da Alain Elkann, di fare degli ebrei
della diaspora cittadini israeliani. La dialettica tra utopia e realtà
– che è un nesso indissolubile nella costruzione politica del sionismo
– viene riletta nella sua dimensione critica, pur ribadendo il vincolo,
non solo ideale, che lega l’ebraismo allo Stato degli ebrei. Su quali
siano peraltro le tensioni che attraversano il campo laico e quello
religioso in Israele (due categorie non omogenee né compatte al loro
interno) ne parla Aldo Baquis per la Stampa. La stampa straniera se ne occupa con articoli sull’Herald Tribune e sul Financial Times.
La circostanza è dettata dall’opposizione frontale tra alcune
componenti dell’universo ultraortodosso, rigidamente separazioniste, e
le decisioni della Corte Suprema in materia di educazione. Non ci
possiamo soffermare su questo rilevante frizione, che divide al suo
interno il microcosmo religioso israeliano e crea, a sua volta,
tensioni nel paese ma si tratta di una di quelle questioni profonde
sulle quali dovremo senz’altro tornare, essendo un fattore ordinativo,
ossia una variabile al mutare della quale tante altre cose cambiano, a
Gerusalemme come a Tel Aviv e in tutto il paese.
Claudio Vercelli |
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notizieflash |
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Una lettera aperta degli agenti dello Shin Bet a Ehud Olmert Tel Aviv, 18 giu - Una
lettera aperta all'ex premier israeliano Ehud Olmert. E' il gesto senza
precedenti con il quale 12 agenti dello Shin Bet, il servizio di
sicurezza israeliano, hanno voluto dare il loro sostegno all'ex premier
mentre questi è oggetto di indagini della polizia e viene rappresentato
in maniera poco lusinghiera sulla stampa. "Che tu sia presentato adesso
come il 'Nemico pubblico numero 1' non può passare sotto silenzio"
scrivono indignati gli agenti nella lettera, che è pubblicata oggi dal
quotidiano Yediot Ahronot. Uno dei firmatari ha detto al giornale che
"Olmert è una persona straordinaria" che durante la sua lunga carriera
ha sempre mantenuto un rapporto caloroso e personale con gli uomini di
scorta. "E' una persona che ama aiutare il prossimo" ha aggiunto. La
lettera si conclude con le firme degli agenti i quali, per motivi di
segretezza, si limitano a segnare le proprie iniziali. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. |
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