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    28 giugno 2010 - 16 Tamuz 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Ho un appello da fare. Calmi, non è in polemica con nessuno. Vorrei fare presente che probabilmente non ci siamo accorti, o ci siamo dimenticati, che il colore interno delle nostre Sinagoghe è recentemente cambiato. Praticamente tutti gli uomini oggi indossano il talled ashkenazita, di lana bianca a strisce nere, bello e austero, di remote origini, da sempre presente anche nelle nostre comunità italiane. Ma è quasi scomparso il talled di seta, tutto bianco o con strisce azzurre, in uso presso i sefardim e molti italiani. Un tempo si produceva in Italia, dalle parti di Como. Poi per molti anni, fino a poco fa, in Israele se ne trovava una variante industriale, non altrettanto elegante. Ora in Israele è difficile trovare anche quella, talora sostituita da imitazioni in tessuto sintetico e con strani colori. Non dovremmo rinunciare alle nostre tradizioni. Dovremmo riprendere la produzione secondo l'antico stile. Che si faccia in Italia, o in Cina o in qualsiasi altro posto, è indifferente. Non dovrebbe essere un'impresa impossibile per un imprenditore che si occupa di tessuti ordinarne una partita, in due-tre misure standard (compresa quella per bambini). Non dovrebbe essere neppure un'impresa in perdita, se il mercato si risveglia e non solo in Italia. Insomma, pensiamoci.
La crisi economica obbliga a fare sacrifici e fra le spese che molte famiglie ebraiche newyorkesi tagliano ci sono quelle per le "matchmakers", le sensali che combinano matrimoni. Si tratta di un lavoro soprattutto femminile, e con il business in calo. Ma in controtendenza c'è il boom di clientela registrato da "The Wingman" ovvero uno dei pochi sensali maschi rimasti in circolazione a Manhattan. Si chiama Aaron Ellner, è modern-orthodox e a sentire chi gli ha versato compensi da 60 dollari l'ora la sua marcia in più viene dalla giovane età - ha appena 24 anni - perché gli consente di comprendere con facilità sentimenti e sensibilità dei coetanei.  Maurizio
Molinari,

giornalista
Anna Foa, storica  
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  Missione in Israele - Gattegna: "In primo piano il ruolo italiano,
dal processo di pace all'impegno per la libertà di Gilad Shalit"


Fini Gattegna“L’Italia è sempre più vissuta da Israele come un interlocutore privilegiato e rispettato, tenuto in notevole considerazione anche dall’Autorità nazionale palestinese”. Il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna conclude con questa sensazione, densa di speranza per il futuro, il viaggio in Israele che in questi giorni visto il presidente della Camera Gianfranco Fini impegnato in una missione a cui hanno preso parte anche i deputati Emanuele Fiano, Fiamma Nirenstein e Alessandro Ruben oltre ad altri parlamentari della maggioranza e dell’opposizione (nell'immagine il presidente Ucei a Gerusalemme assieme a Fini e all'onorevole Fiamma Nirenstein). Una visita che ha spaziato su un ventaglio ampissimo di temi: dalle sorti del soldato Shalit alle prospettive di pace in Medio Oriente al rispetto della Memoria.
Renzo Gattegna, che già aveva accompagnato nelle loro visite istituzionali in Israele il presidente Giorgio Napolitano e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ha visitato insieme a Fini Yad Vashem e con lui ha deposto una corona in memoria di quanti perirono nei campi di sterminio. Al fianco del presidente della Camera ha incontrato gli ebrei italiani di Gerusalemme e ha vissuto l’emozionante accoglienza tributata alla delegazione italiana dalla Knesset e dal suo presidente Reuven Rivlin.
Presidente, qual è il bilancio di questo viaggio istituzionale?
Largamente positivo. Ogni incontro aiuta a rinsaldare le relazioni tra l’Italia e Israele e a rendere sempre più stretto il rapporto reciproco. L’Italia è senz’altro il Paese europeo più disposto ad ascoltare le esigenze e le richieste d’Israele, soprattutto in questo difficile periodo in cui le minacce iraniane e l’allontanamento della Turchia, finora considerata un alleato, ne stanno mettendo a rischio la sicurezza.
Spesso in questo viaggio si è parlato della sorte di Gilad Shalit.
Sia da parte italiana sia israeliana si è espresso dolore e preoccupazione per la mancata soluzione di questa situazione e perché le modalità della prigionia violano le convenzioni internazionali. Non solo Shalit non viene infatti rilasciato ma non sono consentite, come sarebbe d’obbligo, visite da parte della Croce rossa o di analoghe istituzioni umanitarie per verificare le sue condizioni di salute. E’ un gioco spregiudicato: come se quest’uomo fosse una merce il cui valore aumenta con le sofferenze. Ritengo però siano inutili tutte le richieste e le implorazioni. Non possono, a mio giudizio, agevolare una soluzione positiva. Quello che sarebbe necessario è invece trovare il modo di rendere questo sequestro dannoso sul piano morale e politico.
Un momento importante è stato l’incontro con gli italkim a Gerusalemme, nel complesso del Tempio italiano.
In quel contesto la presenza dell’UCEI insieme alla delegazione dei deputati ha avuto la duplice valenza positiva di sottolineare il legame tra Italia e Israele e quello che oggi intercorre fra le Comunità ebraiche italiane e le Istituzioni italiane. Per questo ho voluto ricordare l’apposizione alla Camera, nella sala della Regina, della targa in ricordo dell’emanazione delle leggi razziali del 14 dicembre 1938. Quella targa, apposta nel 2008 insieme al presidente Fini, e il Convegno organizzato in parallelo, rappresentano una sorta di riscatto per marcare la differenza tra l'attuale parlamento democratico e la Camera dei fasci e delle Corporazioni dove fu approvata la legislazione antisemita.
Che cosa significa per l’UCEI questo viaggio al fianco del presidente della Camera?
E’ la dimostrazione del fatto che questi 65 anni di libertà, il periodo più lungo nella storia ebraica europea, hanno portato allo sviluppo di relazioni a tutti i livelli: sociale, politico, religioso. È un cammino positivo che ci pone oggi in una situazione incomparabilmente migliore di quella dei nostri antenati e ci consente di comunicare, spiegarci, farci conoscere e così lottare contro i residui di pregiudizi. Credo sia il modo più giusto per sperare di avere futuro migliore.

Daniela Gross


Missione in Israele - Peres: "Chi è amico nel momento di necessità è un amico vero su cui possiamo contare in ogni stagione"

Fini Gattegna“Un amico vicino e caloroso per il nostro stato” titolava Yedioth Ahronot, il più diffuso quotidiano israeliano, alla vigilia della seconda visita in Israele del presidente della Camera Gianfranco Fini (nell'immagine il presidente della Camera assieme all'onorevole Alessandro Ruben durante la visita alla sinagoga italiana di Gerusalemme cui ha partecipato una delegazione degli italiani in Israele con Beniamino Lazar e Vito Anav). Un’accoglienza da amico, dunque, quella riservata a Fini per la tre giorni che la scorsa settimana l’ha visto fra Gerusalemme, Tel Aviv e i territori palestinesi, ribadita dalle parole del presidente israeliano Shimon Peres, il quale, riferendosi al prestigioso ospite, ha sottolineato che “chi ti è amico nella momento della necessità è un vero amico”.
Fini - accompagnato da una delegazione di parlamentari e, nella visita a Yad Vashem e negli incontri con la Knesset e la comunità ebraica italiana, dal presidente UCEI Renzo Gattegna - ha aperto la sua visita con un breve incontro con il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu. Un confronto sereno che ha toccato i punti più critici della politica mediorientale: dalle comuni preoccupazioni legate ai programmi nucleari di Teheran ai rapporti sempre più tesi con la Turchia. Netanyahu ha inoltre illustrato al presidente della Camera i compiti della commissione d’inchiesta indipendente, istituita dal governo israeliano per fare luce sull’incidente della Freedom Flotilla. In quest’occasione Fini ha voluto sottolineare la necessità di riallacciare i rapporti fra Ankara e Gerusalemme, non condividendo l’opinione diffusa in Israele per cui “la Turchia non dia più garanzie rispetto alla sicurezza dello stato ebraico”. Un appello riproposto giovedì, in occasione di un incontro informale con il ministro degli Esteri Lieberman. Gianfranco Fini ha poi puntato il dito verso l’Unione Europea che “deve uscire dall’incertezza nei suoi rapporti con lo stato turco” e non abbandonarlo in una sorta di limbo.
Seconda tappa del viaggio del presidente della Camera è stata la visita alla Knesset, il parlamento israeliano, dove Fini ha incontrato per un colloquio il suo omologo Reuven Rivlin, presidente del Parlamento israeliano, e il leader dell’opposizione Tzipi Livni. Dopo aver ricevuto il saluto dell'Assemblea riunita in seduta straordinaria, il presidente della Camera ha firmato il libro d’onore della Knesset: “con sincera commozione nel nome dei comuni valori di democrazia e libertà”.
A sette anni di distanza dalla storica visita allo Yad Vashem in cui l’allora deputato Fini definì il fascismo come “il male assoluto”, il presidente della Camera è tornato, affiancato dal presidente UCEI Renzo Gattegna, al museo memoriale della Shoah di Gerusalemme. Esprimendosi contro la barbarie nazista e auspicando che una tragedia simile non si ripeta mai più, il presidente Fini ha scritto sul tradizionale libro degli ospiti “ogni uomo degno di tale nome faccia quel che può, sia esso autorevole o più umile, affinché non si perda il ricordo della Shoah. Ma ancor più perché non possa ripetersi, nemmeno nella più ridotta delle dimensioni, una simile barbarie”.
L’importanza della memoria storica è stata ribadita in occasione dell’incontro di Fini con la Comunità ebraica italiana di Gerusalemme. Durante la visita al Tempio italiano, Fini ha voluto rivolgere un pensiero a Gilad Shalit, il soldato israeliano rapito oramai quattro anni fa da un gruppo di guerriglieri palestinesi, sottolineando come sia “positivo e bello che Roma sia in prima fila nel ricordare il dramma di Shalit” mentre la Capitale mentre Roma, Milano e Torino si preparavano a spengere le luci dei luoghi simbolo di ciascuna città (Colosseo, Castello Sforzesco e Mole Antonelliana) in segno di solidarietà verso il soldato e la famiglia Shalit.
Gianfranco Fini, dopo aver incassato i complimenti di Shimon Peres (che ha definito l’ospite italiano come “uno dei migliori amici di Israele”), si è recato nei territori palestinesi, ultima tappa del suo viaggio, per incontrare il presidente dell'Anp, Abu Mazen. La possibile apertura di colloqui indiretti è stato il principale argomento dell’incontro, al termine del quale Fini, incalzato dalle domande dei giornalisti, ha spiegato che “il presidente Abu Mazen ha ribadito la volontà di giungere a una pace duratura che garantisca anche la sicurezza d'Israele”. Ma l’apertura di negoziati diretti sembra ancora una possibilità remota. I problemi sul tavolo sono tanti, non ultima la questione degli insediamenti. In merito Fini non ha voluto sbilanciarsi, sostenendo che per arrivare a una soluzione “ci deve essere buona volontà da entrambe le parti”.

Daniel Reichel


Cordoglio e commozione per la scomparsa di Daniela Di Castro

Ucei: Opera impareggiabile per la tutela del patrimonio culturale


Il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna e il Consiglio si stringono con affetto al marito Giacomo Moscati, ai figli Guido e Federico e alla famiglia Di Castro, nel dolore per la prematura scomparsa di Daniela Di Castro, ricordandone la grande competenza, l'impegno personale e l'impareggiabile opera svolta per la tutela del patrimonio artistico o culturale dell'ebraismo italiano.


Pacifici: Ha fatto del Museo il nostro biglietto da visita

Riccardo PacificiIl suo più grande merito è stato quello di rifondare il Museo ebraico, che compie in questi giorni 50 anni, facendolo diventare un'eccellenza sia nel gradimento della gente sia nella sua capacità espositiva. Un carattere forte che con la sua autorità culturale era capace anche nei momenti di dissenso di convincere della giustezza delle sue scelte. Debbo dire che alla fine ha sempre avuto ragione e ne abbiamo raccolto tutti i meriti. Ha trasformato il Museo ebraico non in un luogo polveroso ma di grande accoglienza, a tal punto che nelle grandi occasioni abbiamo usato il Museo stesso anche per eventi 'mondani' per cene e piccoli convegni. Una donna che ha fatto del Museo il biglietto da visita della Comunità. Non c'era personaggio istituzionale, politico o religioso che non passasse per il museo. Come a dire, questa è la nostra storia, ecco da dove veniamo. E' sempre stato il primo punto di approccio alla nostra Comunità. I suoi ultimi impegni: il raduno di tutti i direttori dei musei ebraici di Europa, i 50 anni del Museo di Roma e una mostra a New York saranno i nostri impegni.

Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica di Roma


Sarfatti: Faceva parlare gli oggetti

donatella di cesareLei diceva “gli oggetti devono essere più di uno per tipo, così si parlano” e io subito la immaginavo nel suo Museo ebraico di Roma, senza pubblico, celata, ascoltare argenti e tessuti che commentavano assieme la propria fattura, i propri tempi e gli ultimi visitatori. Daniela Di Castro parlava, e tutto il mondo della sua conoscenza, della sua esperienza e del suo amore si muoveva. Ha dato tantissimo nel gruppo di lavoro Cdec-Ucei sul progetto museale di Ferrara e poi nel Comitato scientifico del Meis. Ogni tanto amareggiata mi diceva “ma, non possono”, riferendosi alla noncuranza per gli oggetti o alla decisione di fare a meno del direttore scientifico, e aggiungeva che basta, non poteva più occuparsene, ché di musei ne aveva già uno e ben caro. Ma poi tornava a dedicare a Ferrara fiumi delle sue poche energie. Amava l’arte e la storia, l’ebraismo e l’intera società. Era come se dentro lei (o, definizione quasi uguale, dentro il Museo romano) rivivessero contemporaneamente tutte le meste e lieti cerimonie sinagogali del passato. Difendeva fino in fondo le sue concezioni e il suo sapere e appena il suo amato sostegno poteva darle nuova carica, lei tornava a battagliare e a illuminarci. Questo ci lascia: dolore, tristezza e sapienza museografica.

Michele Sarfatti, Comitato scientifico del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della shoah


Foa: La forza di un sorriso

Anna FoaNon sono nemmeno passati due mesi da quando Daniela Di Castro inaugurava sorridente al Museo ebraico di Roma la mostra, curata da lei insieme a Caterina Napoleone, dedicata ai 95 anni di rav Elio Toaff. L’intervista da lei rilasciata in quell’occasione su Pagine Ebraiche a Daniela Gross ci rimanda un’immagine molto fresca e vivace: l'amore per il suo lavoro e per il Museo che dirigeva con inventiva e cura, l’intelligenza e l’entusiasmo con cui parlava dei suoi progetti. L’avevo sentita spesso in quei giorni dedicati ai festeggiamenti per Toaff, e il ricordo di quegli incontri, di quelle telefonate è vivissimo. E’ il ricordo di un sorriso che la illuminava tutta, dallo sguardo alla voce. Solo ora, che non c’è più e già ci manca, mi rendo conto di quanta forza e di quanto coraggio ci fosse nel suo sorriso.

Anna Foa, storica


Arbib: Una donna sempre sorridente e ottimista

ArbibE' con grande tristezza che ho appreso della perdita per noi tutti di Daniela Di Castro. Il mio ricordo durante le varie discussioni è di una donna sempre sorridente e ottimista. La sua forza e convinzione che il Museo ebraico di Roma dovesse avere anche un padiglione per la storia degli ebrei di Libia mi aveva contagiato e anche onorato per la sua forza di volontà di voler dedicare giustamente una sezione alla nostra storia. Mi dispiace non essere a Roma per poterle porgere l'ultimo saluto, ma per me ogni volta in cui visiterò il Museo avrò lei davanti ai miei occhi.

Walter Arbib, imprenditore


Sul Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it, fra i numerosissimi segnali che pervengono in redazione, testimonianze e documenti per ricordare Daniela Di Castro.


Qui Livorno - Un convegno per ricordare la figura del rabbino Hidà
 
Qui LivornoIl cielo soleggiato e il mare a due passi potevano essere una forte tentazione. Ma la risposta del pubblico, nonostante il giorno di festa e il primo vero caldo estivo, è stata più che positiva. C’era molta gente al convegno di studi in ricordo del grande rabbino Haim Iosef David Azulai (conosciuto come Hidà), organizzato dalla Comunità ebraica livornese con il contributo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Livorno e il patrocinio di Provincia (la cui sala consiliare ha ospitato il convegno) e Comune. Alla giornata di studi erano presenti alcune tra le più importanti autorità civili e religiose cittadine: il sindaco Alessandro Cosimi, il presidente della Provincia Giorgio Kutufà e il vescovo emerito monsignor Ablondi. In prima fila anche Mario Canessa, il Giusto tra le Nazioni a cui è dedicato il nuovo Sefer Torà della sinagoga labronica. Moderati dall’editore e consigliere della Comunità Guido Guastalla, numerosi relatori hanno dato un quadro ampio sulla vita e sulle opere di Hidà (1739-1806), figura centrale dell’ebraismo mondiale e tra i più grandi rabbini cabalisti sefarditi della tradizione mediterranea che visse a Livorno per circa tre decenni. Nella mattinata sono intervenuti il presidente della Comunità Samuel Zarrough, il rabbino capo Yair Didi. il professor Arthur Kiron (Penn University Philalphia) e il dottor Harvey Goldberg (Università di Gerusalemme). Nel pomeriggio gli interventi del rabbino di Torino Alberto Moshè Somekh, che sta completando la traduzione in italiano dei diari di Hidà, e del professore David Meghnagi (Università Roma 3).

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  La «sindrome paolina» e l’esclusione di Israele

donatella di cesareÈ difficile capire l’attuale esclusione di Israele dalla comunità mondiale, se non si guarda molto indietro nei secoli. Perché ciò che opera sotterraneamente in tutto lo spettro politico, nei media e in molte organizzazioni «umanitarie», è quella che si potrebbe chiamare la sindrome paolina della manipolazione.
Quando ha voluto fondare la propria identità il cristianesimo delle origini ha tentato di dissociare Israele in carne e in spirito; ha relegato quindi gli ebrei allo statuto inferiore della carne e ha conferito ai cristiani la parte migliore di Israele, il suo spirito. Che di ciò si possa ritenere responsabile solo Paolo è questione aperta. Ma il cristianesimo, nella sua ambizione a soppiantare Israele con la universalità, con la «cattolicità», ha costituito il primo sistema compiuto di esclusione degli ebrei come popolo. Paolo legge la elezione di Israele in modo gerarchico e particolaristico, non come una benedizione per le nazioni. Pone quindi le basi dell’elezione cristiana contro il popolo ebraico, condannato a perdere ogni legittimità. Passa il «messaggio» che il cristianesimo abbia fornito all’ebraismo una apertura universale di cui era privo. Peccato che l’espansione dell’universale cristiano, cioè l’evangelizzazione, abbia assunto nella storia forme imperialistiche e che l’universale cristiano sia stato universale … meno uno, che abbia potuto proclamarsi tale solo con l’esclusione del popolo ebraico, riprovevole perché refrattario e ribelle alla universalizzazione.
La sindrome paolina funziona ancora. Ed è la stessa antica riprovazione che colpisce oggi Israele ed elegge (ma non aiuta) i palestinesi. Si spiega così quanto questa manipolazione sia diffusa, anche solo per inconsapevolezza e ignoranza, tra i cattolici e gli ex-cattolici di sinistra (ma la diffusione è trasversale). E si spiega anche la fortuna recente, nel pensiero contemporaneo, della «teologia politica di Paolo» che passa attraverso una appropriazione grave e arbitraria delle splendide pagine di Jacob Taubes.
La manipolazione consiste nel proiettare il ruolo di vittima che il popolo ebraico, suo malgrado, ha dovuto subire, e soprattutto la dimensione profonda della «speranza» di cui Israele si è fatto portatore, la grandiosa eredità della sua storia, a profitto dei palestinesi, il nuovo popolo eletto della morale internazionale, chiamato a nascere sulle rovine di Israele.

Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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Il soldato Shalit, ostaggio non prigioniero di guerra
Perché tanta emozione a proposito del soldato Shalit? Non è forse destino delle guerre produrre prigionieri di guerra? E il giovane caporale carrista, rapito nel giugno del 2006, non è un prigioniero come un altro? Ebbene no. Intanto, esistono convenzioni internazionali che regolano lo status dei prigionieri di guerra, e il solo fatto che questo soldato sia tenuto nascosto da quattro armi, che la Croce Rossa, abituata a visitare regolarmente i palestinesi nelle prigioni israeliane, non abbia mai potuto farlo con Sbalit, è una violazione flagrante del diritto della guerra. Soprattutto, non bisogna stancarsi di ripetere che Shalit non fu catturato nel corso di una battaglia, ma di un raid, effettuato in Israele e mentre Israele, che aveva evacuato Gaza, era in pace con il proprio vicino. Parlare di prigioniero di guerra, in altri termini, significa ritenere che, se Israele occupa un territorio o se pone fine a tale occupazione, il fatto non cambia in alcun modo l'odio che si crede di dovergli destinare; significa accettare l'idea secondo cui Israele è in guerra anche quando è in pace o che si debba fare la guerra a Israele perché è Israele. Se invece questo non si accetta, se si rifiuta la logica stessa di Hamas che, ammesso che le parole abbiano un senso, è una logica di guerra totale, allora bisogna cominciare con il mutare completamente retorica e lessico. Shalit non è un prigioniero di guerra ma un ostaggio. La sua sorte è simmetrica a quella di chi è sequestrato in cambio di un riscatto, non a quella di un prigioniero palestinese. Bisogna quindi difenderlo come vengono difesi gli ostaggi delle Farc, dei libici, degli iraniani: con la stessa energia impiegata, per esempio, per difendere Clotilde Reiss o Ingrid Betancourt. [...]
Bernard-Henri Lévy, il Corriere della Sera, 28 giugno 2010

«L'iran ha abbastanza uranio per costruire due atomiche»
Riecco l'atomica. Iraniana, naturalmente, che preoccupa il mondo. E riecco, naturalmente, Israele, pronto a colpire, con il consenso degli otto Grandi. Tutto tra sabato e domenica. Il nodo del nucleare di Teheran, che sembrava destinato a trascinarsi a lungo, tra negoziati esasperanti quanto inconcludenti, e sanzioni talmente mirate da sembrare simboliche, ha ripreso improvvisamente forza e, con esso, gli scenari di una nuova crisi militare nel Golfo Persico. A imprimere l'accelerazione, per ora soltanto mediatica, è stato il capo della Cia, Leon Panetta. Intervistato dall'Abc, ha dichiarato che l'Iran «possiede uranio debolmente arricchito sufficiente per fabbricare due bombe», e che i tempi rischiano di essere molto più rapidi del previsto. Fino a poche settimane fa, gli esperti americani ritenevano che il regime degli ayatollah non sarebbe stato in grado di costruire l'ordigno prima di cinque, se non addirittura dieci anni. Soltanto Israele sosteneva che i tempi fossero più stretti; ma la comunità internazionale temeva che Gerusalemme cercasse pretesti per chiudere militarmente la crisi. Ma ora i servizi segreti americani sembrano ricredersi. Secondo Panetta «Teheran avrà bisogno senza dubbio di un anno per fabbricare l'ordigno e di un altro per sviluppare un sistema operativo per l'utilizzo dell'arma». L'Iran, insomma, non sarà in grado di colpire Israele prima dell'estate del 2012. Due anni sono pochi, pochissimi. La finestra temporale tende a chiudersi, anche considerando l'orientamento del G8. È stato Silvio Berlusconi a rivelare che, a Toronto, i leader degli otto Paesi più industrializzati «ritengono probabile una reazione anticipata di Israele», nell'ambito di uno scenario «accolto con preoccupazione», ma cui evidentemente i Grandi non si oppongono. La palla, insomma, è nel campo dell'Iran. O Teheran interrompe sul serio i suoi programmi o persino la paziente America del titubante Barack Obama non potrà opporsi a un'azione militare dello Stato ebraico. Lo stesso Panetta ha evocato un patto con Gerusalemme. «Gli israeliani sanno che le sanzioni avranno un impatto, sanno che continuiamo a spingere l'Iran sul fronte diplomatico. Ci vogliono lasciare il tempo di cambiare l'Iran diplomaticamente, culturalmente e politicamente anziché cambiarlo militarmente». E allora: Israele rimarrà paziente ancora per un po', nella speranza, peraltro tenue, che le nuove sanzioni producano qualche effetto. [...]
Marcello Foa, il Giornale, 28 giugno 2010

 
 
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“Interessi comuni fra Israele e Stati Uniti”                                        
Tel Aviv , 27 giu -
“Gli interessi di Israele sono i nostri interessi”, con queste parole il comandante degli Stati maggiori unificati degli Stati Uniti, l'ammiraglio Michael Mullen, in visita nello Stato israeliano ha voluto riaffermare la vicinanza fra i due Stati. L'ammiraglio ha avuto un colloquio privato con il suo omologo, il generale Gaby Ashkenazi. Fra i due si è creato un rapporto molto stretto di amicizia e, secondo la stampa, conversano telefonicamente quasi tutte le settimane. La visita odierna di Mullen a Tel Aviv - in cui è stato discusso anche il blitz israeliano sulla nave turca Marmara, mentre era diretta a Gaza - è stata definita di carattere "professionale" dal portavoce militare israeliano. Il quotidiano Haaretz aggiunge che la viaggio in Israele è stato deciso con breve preavviso dopo che Mullen aveva appreso di doversi recare con urgenza in Afghanistan, per i contraccolpi del licenziamento del generale Stanley Mc Crystal.
 
 
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