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    29 giugno 2010 - 17 Tamuz 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  roberto della rocca Roberto
Della Rocca,

rabbino
Delle varie disgrazie riferite dalla Tradizione rabbinica a fondamento del digiuno pubblico che osserviamo oggi, 17 di Tamùz, primeggia quella della rottura delle Tavole del Patto da parte di Moshè di fronte al popolo che adora il vitello d’oro. Ma quella rottura non è forse necessaria? L’idolo, dice Alain Finkelkraut, è il divino messo a disposizione, a portata di mano, incarnato in un volto pietrificato. L’idolatria quindi tradisce la concezione monoteistica con dei surrogati, tenta di afferrare Dio per manipolarlo per i propri scopi, ed è qui la sua affinità con la magia, che la Torà condanna. “Avodà zarà” , letteralmente “culto straniero”, è infatti la definizione con cui la Tradizione ebraica indica non tanto l’oggetto dell’“idolatria”, quanto piuttosto, quei comportamenti e quelle modalità di interazione dettati da una confusione identitaria che si traducono spesso in tentativi di captazioni totemiche. Non è quindi l’immagine in sé a essere idolo. Una stessa figura può essere idolo o meno, a seconda del rapporto che si instaura con essa. Visto che il vitello dimostrava una confusione idolatrica, era forse possibile che gli ebrei trattassero anche le Tavole come un idolo. Forse avrebbero identificato in quelle Tavole di pietra lo stesso Dio Vivente, e magari avrebbero adorato le Tavole invece che Colui che le aveva realizzate. Trasformare il Dio vivente in una tavola di pietra sarebbe stato il culmine dell’idolatria, peggio che adorare falsi dei. La stessa parola divina sarebbe stata così pietrificata. E da quel momento, infatti, la Torà viene trasmessa a viva voce da Moshè, vivente ai viventi: estrema precauzione contro la cristallizzazione della Torà e della Voce.
Il maggior pericolo nel lavoro è perdere la vita cercando di guadagnarsela.   Vittorio Dan Segre,
pensionato
rabello  
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  17 di Tamuz - Se perdiamo i riferimenti

immagineTamuz è un mese ebraico estivo. Il nome non è originariamente ebraico, deriva dalla lingua babilonese, che con lo stesso nome indicava un suo dio. Era il dio che con la sua morte e resurrezione in qualche modo rappresentava la ciclicità della natura. Le donne ne piangevano ritualmente la morte nel mese a lui dedicato, forse il giorno 18, e questo uso pagano si era radicato anche tra gli ebrei, alla vigilia della distruzione del primo Tempio, scatenando la riprovazione del profeta Ezechiele (8:14). Il pianto rituale idolatra non è rimasto senza tracce ma purtroppo ha ceduto il posto ad una giornata di digiuno, il 17 di Tamuz, celebrata per ben altri motivi. Il 17 di Tamuz apre, con il suo digiuno dall’alba alla sera, il ciclo di tre settimane di progressiva austerità in ricordo della distruzione dei due Tempi, che culmina con il digiuno del 9 di Av. Si tratta quindi di una commemorazione storica legata a precisi avvenimenti. Nella tradizione ebraica è diffusa l’idea che determinate date del calendario attirino avvenimenti o positivi o negativi. Il 17 di Tamuz è uno dei giorni negativi. I fatti che vi si ricordano sono cinque, secondo la fonte principale della Mishnah di Ta’anit (nella Ghemara 26a - b e 28), proprio come cinque sono i disastri ricordati nel 9 di Av. I fatti del 17 di Tamuz sono: la rottura della tavole della legge fatta da Mosè al ritorno dal monte Sinai, davanti allo spettacolo del vitello d’oro; l’interruzione della presentazione al sacrificio quotidiano nel Tempio; la breccia nelle mura di Gerusalemme assediata; il rogo del Sefer Torah fatto dal “malvagio Apostemos”; l’erezione di una statua nella parte più sacra del Tempio. E’ uno strano elenco, che richiede molte spiegazioni e pone interrogativi in parte insolubili. La rottura delle tavole della legge è raccontata nel libro dell’Esodo al capitolo 32; non ne viene però indicata la data, questa si deduce calcolando che se la rivelazione sul Sinai (che festeggiamo a Shavuot) avvenne il 6 o 7 di Sivan e che subito dopo Mosè salì sul monte per rimanervi 40 giorni e 40 notti, alla fine del conto il giorno del ritorno nell’accampamento è il 17 di Tamuz. Per quanto riguarda il terzo avvenimento, la breccia delle mura, questa si verificò in entrambi gli assedi fatali per Gerusalemme, quello dei Babilonesi e quello dei Romani, solo che nel libro di Geremia (52:6 - 7), che parla dell’assedio baibilonese, la data è il 9, non il 17 di Tamuz. Il Talmud Bavli spiega che fu privilegiato il giorno 17, data dell’assedio romano, perchè più vicino a noi. Ma nel Talmud Yerushalmi si suppone che la data fosse stata il 17 anche la prima volta e che il 9 corrispondeva al calendario solare e non a quello lunare ebraico. Gli altri due avvenimenti (sospensione dei sacrifici, statua) sono di epoca incerta, potrebbero riferirsi sia al primo che al secondo assedio; la statua, secondo una tradizione, l’avrebbe collocata il re Menashe. Quanto ad Apostemos non sappiamo chi sia, il nome potrebbe corrispondere a Postumio o Postumo e si suppone che sia stato un generale o grosso dignitario che avrebbe fatto uno sfregio pubblico della Torah, forse nell’epoca della dominazione ellenistica.
Se però si fa digiuno in questa data il motivo essenziale è quello della breccia nelle mura, che portò alla caduta definitiva della città. L’accostamento di altri fatti ricavati con deduzioni o trasmessi dalla tradizione non è però casuale e dà un senso completo alla celebrazione. Soprattutto acquista senso la riflessione sul vitello d’oro e la rottura delle tavole. Il brano che racconta l’episodio si legge in tutti i digiuni, iniziando da Esodo 32:11, ma saltando il pezzo centrale, e passando a quello finale nel quale c’è la riconciliazione tra il Signore e il suo popolo; ma proprio il 17 di Tamuz una tradizione richiede che si legga l’intero brano perché precisamente attinente (così dicono i testi italiani come lo Shibbolè haLeqet, il Tanya Rabbati e il Machazor di Shadal). Se si mettono insieme tutti e cinque gli episodi riferiti dalla Mishnah e se ne cerca un denominatore comune, probabilmente la frase “chiave” che risolve il problema è quella del verso 32:25: “Mosè vide che il popolo era esposto e scoperto (parù’a) perché Aharon lo aveva esposto al ludibrio davanti ai suoi avversari”. La storia del vitello d’oro e la frattura conseguente, simboleggiata dalla rottura delle tavole, rappresenta un momento di crisi fatale nella quale il popolo, senza protezione, è scoperto ed esposto vergognosamente davanti ai nemici che lo attaccano e lo scherniscono. Il tema dell’esposizione e della vergogna dovuto alla perdita dei riferimenti e delle protezioni sembra essere il motivo comune dei fatti del 17 di Tamuz: Israele resta senza tavole della legge, senza il sacrificio quotidiano, cuore del culto nel Tempio, senza il Sefer Torah, senza le mura materiali; al loro posto un idolo che non può essere di aiuto e al contrario è motivo di vergogna e di colpa. Cadute le barriere materiali e spirituali inevitabilmente a breve distanza avviene la catastrofe della distruzione del Tempio. La tradizione vorrebbe limitare i momenti tristi e austeri e la questione della validità perenne dei digiuni come quello del 17 di Tamuz, istituiti per ricordare eventi infausti della storia, si è posta da tempi remoti. I reduci a Gerusalemme dall’esilio babilonese si chiedevano che bisogno c’era di piangere ancora la distruzione se la città e il Tempio erano stati ricostruiti? Era la domanda che fu posta al profeta Zekharia (8:19) che rispose che in futuro tutti questi digiuni sarebbero diventati giorni di gioia e di festa. In pratica al momento attuale il 17 di Tamuz e gli altri giorni tristi servono come esercizi di meditazione sugli errori della nostra storia, nella speranza che si riesca prima o poi a ripararli.

rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, Pagine Ebraiche, giugno 2010


Giuliana Fiorentino Tedeschi (1914-2010)

Giuliana Fiorentino TedeschiSi è spenta ieri a 96 anni, nella sua casa di Torino, Giuliana Fiorentino Tedeschi, una delle ultime testimoni fra i sopravvissuti alla Shoah. Nata a Milano nel 1914, vi fece ritorno per laurearsi in glottologia dopo aver vissuto la giovinezza a Napoli. Dal matrimonio con l'architetto torinese Giorgio Tedeschi nacquero due figlie, le quali sfuggirono alla deportazione grazie all'aiuto di una governante. Vennero strappate, in tenera età, dal seno della madre, la quale, arrestata dai soldati nazifascisti, fu deportata ad Auschwitz nella primavera del '44.
Giuliana Tedeschi ha dedicato la sua vita del dopoguerra alla causa della testimonianza. Insegnante in un liceo torinese, successivamente preside della scuola ebraica, ha svolto costantemente un'intensa attività di testimonianza, rivolgendosi in particolar modo ai giovani. Ha scritto due libri tradotti in molte lingue: Questo povero corpo (1946) e C'è un punto della terra. Una donna nel lager di Birkenau (1992). Ha rilasciato numerose interviste e collaborato a studi e documentari, ma il centro della sua attività è stato dentro ai muri delle scuole. Diverse generazioni di studenti torinesi, e non solo, hanno imparato l'orrore dei campi di sterminio dalla sua bocca, dalle sue lucide descrizioni dell'esperienza di Auschwitz. Caratteristica peculiare che tutti ricordano della sua testimonianza era l'accuratezza, il realismo, quasi la crudezza delle descrizioni della vita di tutti i giorni, delle sevizie subite, delle impressioni soggettive, della fisicità della vita del campo.
“Giuliana era una donna dalla forza straordinaria” ricorda Tullio Levi, presidente della Comunità Ebraica di Torino “nonostante la tragedia della Shoah, era riuscita a tornare a vivere, interiorizzando la propria esperienza di sopravvissuta. La sua testimonianza è stata preziosa per intere generazioni”. Poi un pensiero agli anni in cui Giuliana Tedeschi era direttrice della scuola ebraica “era una preside energica - spiega Levi  - sotto la sua direzione la scuola ha avuto una spinta innovativa notevole. Era amata e stimata da tutti, allievi, professori, genitori. Un esempio di serietà e professionalità”.
Concludiamo con le parole di Giuliana, l’ultima testimone torinese della deportazione nazista: “Siamo tornati, siamo tornati in pochi, anzi in pochissimi; abbiano lasciato laggiù milioni di essere umani, consumati dalle malattie, dagli stenti, dalle violenze; milioni di donne, bambini, vecchi trasformati in fumo. Siamo tornati in un mondo in cui ci siamo subito sentiti estranei, dove non abbiamo trovato ascolto ma sola una desolata solitudine. Allora abbiamo scritto: prima gli uomini, poi a poco a poco le donne che faticosamente uscivano dalla propria riservatezza e dai propri pudori. Abbiamo scritto con le lacrime per un bisogno estremo di sfogo personale e con disperata rabbia per vendicare le offese e le violenze subite. Ma oggi abbiamo la certezza di avere condannato, con la nostra testimonianza, all’esecrazione universale, una intera generazione di feroci, disumani assassini, per i quali non potrà mai esistere perdono. Le parole sono pietre e pietre auspichiamo che restino i nostri racconti, li lasciamo a voi perché li trasmettiate agli altri, in una catena che non trovi interruzione, perché i nostri racconti rappresentano anche le voci di chi non è tornato”.

Manuel Disegni e Daniel Reichel


Sul Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it, fra i numerosissimi segnali che pervengono in redazione, testimonianze e documenti per ricordare Daniela Di Castro.
 
 
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  Quali rabbini, quale futuro - Un Beth Din autonomo e autorevole

tobia zeviMi sembra che la discussione che si è aperta sia interessante pur nelle sue asprezze e forse grazie alle sue asprezze. La proposta di istituire un Beth Din unico in Italia credo che vada esaminata con attenzione. Personalmente credo che possa essere una buona idea, anche se è ovviamente vero ciò che dice rav Di Segni, cioè non è questa la situazione generale dei Batè Din in Europa e nel mondo. Credo però che l'Italia, viste anche le dimensioni molto ridotte delle comunità possa giovarsi di una situazione di questo tipo. Questo però a patto di rendere tale Beth Din assolutamente autonomo rispetto alle comunità e autorevole, a patto che sia mobile e che abbia uno stretto collegamento con i Rabbinati locali. Quello dell'autonomia è un tema assolutamente essenziale, dovrebbe essere una preoccupazione non solo dei rabbini, dovremmo pensare seriamente a quali soluzioni adottare per garantire questa autonomia.
Tra le altre cose è inaccettabile un Beth Din dedicato esclusivamente alle conversioni, la cui efficienza verrebbe misurata dal numero di conversioni fatte.
Sono d'accordo con rav Riccardo Di Segni su vari punti. E' in corso un'offensiva sul tema delle conversioni estremamente pericolosa che mette in discussione l'autonomia del rabbino e dei Batè Din. Faccio un solo esempio: è considerato normale anche da chi sostiene l'assoluta autonomia del Rabbinato fare pressioni sul rabbino in tema di conversioni soprattutto di conversioni di minori o di ragazzi in età di Bar Mitzvà. Pensate se lo stesso tipo di pressioni si operassero sui giudici di un tribunale cosa diremmo sulla violata autonomia del giudizio.
Ritengo inoltre profondamente sbagliato considerare le conversioni come la soluzione di un problema comunitario, la conversione è un profondo percorso personale di avvicinamento all'ebraismo e al popolo ebraico, non può e non deve diventare una sanatoria.
Si chiede un percorso chiaro di conversione. Sembra una richiesta assolutamente ragionevole. In realtà la questione è molto più complessa di quanto appaia. Il percorso di conversione presuppone un rapporto molto stretto fra il candidato e il Beth Din. Il Beth Din deve accertare che questa persona sia sinceramente convinta di ciò che sta chiedendo e che non si tratti di un entusiasmo momentaneo e deve accertare che possa avvenire la cosiddetta kabbalàt mitzvòt, cioè l'accettazione delle mitzvòt. Questa deve riguardare sia il presente sia il futuro. Al Beth Din viene chiesto cioè di dare un giudizio sul futuro di questa persona. Un giudizio che come si può immaginare è molto difficile dare: si può sicuramente presentare, rendere pubblico un programma di studio per la preparazione al ghiur ma questo è solo una piccola parte di questa preparazione. Tutto il resto non è programmabile e può e deve variare da persona a persona. 

rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano


Differenze in campo 


tobia zeviDomenica mattina ho avuto l’occasione di scoprire direttamente le attività della Jerusalem Foundation (www.jerusalemfoundation.org), scortato da una guida d’eccezione, l’ex ambasciatrice d’Israele in Italia, Tamar Millo. Dopo una visita all’asilo multiconfessionale dell’YMCA, di fronte all’albergo King David, ci siamo spostati a Gerusalemme Est, per visitare il campo di basket dove si allenano i bambini palestinesi che partecipano al progetto «Peace Players». Il programma funziona così: giovani palestinesi e giovani israeliani si allenano separatamente in due centri sportivi; una volta ogni due settimane si incontrano sul campo della scuola gestita dalla fondazione e imparano a conoscersi. Dopo aver rotto il ghiaccio e aver raggiunto un livello di gioco adeguato i ragazzi e le ragazze costituiscono un’unica squadra, che quest’anno si è iscritta per la prima volta al campionato di basket israeliano. Molti dei bambini palestinesi non hanno il passaporto israeliano, ma quello giordano, poiché le loro famiglie rifiutarono di cambiare nazionalità in seguito alla guerra dei sei giorni. Dopo aver fatto due tiri con i ragazzi e con i loro insegnanti, che hanno già sperimentato questo programma in altre aree conflittuali del mondo (Irlanda del nord, Cipro, Sudafrica), Tamar ci porta alla Cineteca di Gerusalemme, alle pendici della cinta muraria, dove ci vengono mostrati i frutti del progetto “I am you are”: ogni anno 35 ragazze e ragazzi israeliani e palestinesi tra i 15 e i 17 anni si trovano per un mese a girare dei cortometraggi che hanno come tema la scoperta dell’identità. Questi giovani apprendono un’arte come il cinema e insieme conoscono pieghe ignote della società israeliana. Il filmato che vediamo è sulla comunità africana palestinese. Alla fine del filmato, che racconta le discriminazioni che questi musulmani dalla pelle nera subiscono all’interno della società palestinese, la direttrice del programma ci racconta che in una scuola israeliana dove il film era stato proiettato un giovane ebreo etiope si è rivolto così ai suoi compagni: “Avete capito come mi sento io?”. Sono certamente soltanto delle gocce in un mare tempestoso, ma se i problemi non possono essere risolti, quanto meno questi giovani impareranno a parlarne.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
 
 
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La Turchia ferma i voli israeliani
Gerusalemme -  «Generale Stem? Non avete l'autorizzazione al sorvolo della Turchia: per andare in Polonia, dovete cambiare rotta». Una voce via radio. Al generale Elazar Stem, responsabile del Dipartimento risorse umane di Tsahal, figlio d'un sopravvissuto alla Shoah e padrino della tradizionale trasferta «Testimoni in divisa» che ogni anno porta cento riservisti ad Auschwitz, al generale non è rimasto che obbedire: piani di volo alla mano, l'aereo è stato dirottato sui cieli della Grecia. Un costo più alto di carburante. Un costo altissimo per le relazioni fra Ankara e Israele. Perché d'ora in poi le nuvole della Turchia saranno chiuse «a tutti i voli israeliani» (come ha annunciato ieri mattina la Radio militare di Gerusalemme), o «solo a quelli militari» (come ha precisato un portavoce turco), una decisione in ogni caso simbolica: «Sì ha confermato il premier Recep Tayyip Erdogan, durante il G-20 dopo l'episodio della Flotilla c'è stata una richiesta d'autorizzazione ad attraversare il nostro spazio aereo. Non è stata accordata». Rottura sulle rotte. Dopo 14 anni, lo stop è ai jet militari israeliani. L'El Al, la compagnia di bandiera, non ha ricevuto comunicazioni e i sorvoli continuano. La certezza è che verranno ridisegnati i tragitti per l'Est Europa e l'Estremo Oriente, ma soprattutto che l'amico turco sarà, definitivamente, un ex.  […]
Francesco Battistini, il Corriere della Sera, 29 giugno 2010

Pure Ahmadinejad dà ragione alla Cia. Guerra inevitabile
«Abbiamo deciso una punizione per insegnare all'Occidente come si dialoga con le altre nazioni»: i disastri provocati dalla fallimentare strategia del dialogo con l'Iran di Barack Obama non cessano mai. Dopo aver verificato che le sanzioni deliberate dall'Onu sono solo di facciata, dopo aver visto che al GB Obama non è riuscito che a far uscire il solito comunicato contro l'Iran pieno di aria fritta, Ahmadinejad si sente ora tanto forte da bacchettare sulle dita Obana “punendolo”, prospettandogli un nuovo “dialogo”, ma non prima di due mesi. Ahmadinejad, aggiunge che, per punire gli Usa e l'Occidente per la loro cattiva educazione , l'Iran ha deciso di imporre nuove condizioni per la trattativa: «in primo luogo l'Occidente deve dichiarare la posizione in merito alle armi nucleari del regime sionista, poi deve chiarire se è disposto a impegnarsi con le norme del trattato Tnp e infine se vuole arrivare a un risultato di amicizia o inimicizia con questo dialogo che deve avere per base la “Dichiarazione Teheran” di Iran, Turchia e Brasile». Scherno che si somma a scherno, perché la Dichiarazione di Teheran era una palese presa in giro, perché il meccanismo di trasferimento all'estero del materiale nucleare deciso con Lula e Erdogan facilitava, anziché impedire, l'arricchimento al 90% dell'uranio e quindi la costruzione dell'atomica. Prospettiva ormai concretissima tanto che due giorni fa il capo dei servizi segreti americani Leon Panetta ha ammesso che l'Iran «potrebbe impiegare un anno ad arricchire ulteriormente l'uranio e a fabbricare la bomba e un anno a sviluppare un sistema operativo per utilizzare quest'arma. Tutto sta a prendere la decisione operativa, su cui Usa e Israele divergono: gli israeliani sono più convinti di noi che Teheran abbia deciso di procedere con la bomba, anche se hanno accettato di non attaccare per darci il tempo di far funzionare la diplomazia». Il dramma è che - con ogni evidenza - la strategia diplomatica scelta da Obanna, non accompagnata - come faceva Bush - né da una rigida scansione dei tempi (Obama accetta continue dilazioni), né da una concreta minaccia militare Usa, ha sinora permesso a Teheran di sviluppare indisturbata i suoi programmi, senza pagare alcuno scotto. […]
Carlo Panella, Libero, 29 giugno 2010 

La diplomazia fatta a faglie
“Tectonic rift”, Israele e l'America sono come due faglie che si stanno staccando, non si tratta di una crisi, perché in una crisi ci sono momenti buoni e momenti cattivi , è molto di più, una frattura insanabile, due continenti alla deriva . Così ha parlato Michael Oren, ambasciatore israeliano a Washington, secondo indiscrezioni trapelate sui giornali israeliani. Il diplomatico ha poi smentito, così come aveva fatto qualche mese fa quando si era lasciato sfuggire che mai, in trent'anni, Israele e America si erano trovati tanto distanti. Tra i calcoli freddi con cui il presidente Obama tende a gestire la politica estera e le pressioni interne al governo di Gerusalemme, la tensione tra i due paesi è sempre meno governabile.  […] Nel frattempo ci sono nuovi elementi che complicano "l'amicizia indistruttibile", secondo la definizione di Hillary Clinton: la Turchia, che ha annunciato la chiusura degli spazi aerei per i mezzi israeliani; l'Iran: secondo il capo della Cia Leon Panetta, Teheran ha quantità d'uranio sufficiente per costruire un'atomica entro due anni; il prezzo del caporale Shalit sempre più alto, come dice Hamas. All'aumentare della minaccia iraniana aumenta il chiacchiericcio su un'operazione di Israele contro i siti atomici. […]
Il Foglio, 29 giugno 2010

 
 
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Mondiali 2010 - Argentina in finale, nuovi spunti dalla cabala    
Ancora poche ore e la griglia dei quarti di finale del mondiale sudafricano sarà finalmente completa. Il G8 del calcio prevede sfide golose: su tutte Argentina contro Germania (anche se il match tra Brasile e Olanda non scherza in quanto a qualità). Ce la faranno i pirotecnici sudamericani a superare il roccioso ostacolo teutonico? Non vale neanche la pena di chiederselo. Almeno così la pensa il cabalista israeliano Leo Skolni, autore negli scorsi giorni di uno studio pubblicato dal Jerusalem Post in cui ipotizza un tranquillo approdo della Seleccion alla finalissima: i numeri e la loro simbologia parlerebbero chiaro. Grande appassionato di pallone, Skolni è uscito con una seconda puntata in cui spiega come la Germania sia inevitabilmente destinata a soccombere agli uomini di Maradona. La prova? Bisogna risalire ad un episodio biblico narrato nel libro dei Numeri che vede protagonisti il re dei Moabiti Balak e il profeta Balaam. Balak chiede a Balaam di operare dei malefici a danno degli ebrei. Ma quest’ultimo, ispirato da Dio, invece di male parole pronuncia una benedizione. Quale il legame tra queste vicende e il profano mondo del calcio secondo Skolni? Lo sconfitto Balak ricorderebbe nel nome Michael Ballack, capitano della Germania assente in Sud Africa perché infortunatosi in finale di Fa Cup contro il Portsmouth allenato (non a caso) da Avi Grant, tecnico israeliano ed ebreo. Balaam, che in ebraico significa difensore, è invece associato a Walter Samuel, ebreo e (anche questo non è un caso) leader del reparto difensivo argentino. Sulla maglia del combattivo Samuel, idolo assoluto della caliente torcida argentina ma anche di milioni di tifosi interisti, fa inoltre capolino il 13, numero che la Ghemarà associa a molteplici significativi positivi. Skolni ha pochi dubbi: saranno Walter Samuel e il “messaggero di Dio” Lionel Messi (mettere link a pezzo precedente) a guidare il dream team biancoceleste verso orizzonti di gloria. 
as


Alfano a Gerusalemme: Italia e Israele                                     
assieme nella lotta al terrorismo
Gerusalemme, 28 giu -
Il ministro della giustizia, Angelino Alfano, ha incontrato il suo collega israeliano, Yakov Neeman, a Gerusalemme. Hanno firmato una dichiarazione di intenti destinata a porre le basi per un trattato fra i due Paesi sulla cooperazione giudiziaria e l'estradizione. L'obiettivo, ha spiegato il ministro Alfano è quello di "rafforzare la collaborazione contro il terrorismo utilizzando gli strumenti della cooperazione internazionale". "La cooperazione giudiziaria è la via per assicurare pace e sicurezza nel mondo - ha aggiunto sottolineando che - senza un reale contrasto al terrorismo non si può avere sicurezza e senza cooperazione giudiziaria non ci può essere un vero contrasto del terrorismo". In questa chiave, ha spiegato ancora Alfano, si inserisce la dichiarazione di intenti in materia di collaborazione giudiziaria firmata oggi con il ministro israeliano. Dichiarazione attraverso la quale, ha detto, "abbiamo gettato le basi per un trattato sull'estradizione e la cooperazione giudiziaria che potrebbe essere firmato nel prossimo inverno nell'ambito del vertice bilaterale di Roma". Alfano ha infine specificato che "un percorso di lavoro comune" nello stesso campo è allo studio anche con l'Autorità nazionale palestinese e sarà discusso domani durante i suoi incontri a Ramallah (Cisgiordania) con il premier Salam Fayyad e con il ministro della giustizia palestinese.


Il Cairo: disegni antisemti sul giornale del partito di Mubarak
Il Cairo, 28 giu -
“Hanno paragonato i soldati israeliani ai nazisti”, queste le accuse mosse dall'ambasciata israeliana al Cairo al giornale del partito al potere in Egitto. Lo hanno fatto pubblicando disegni umoristici “antisemiti”. Il giornale al-Watani al-Yawm ha pubblicato il disegno a seguito delle vicende del 31 maggio legate alla "Freedom Flotilla". L'ambasciata israeliana ha protestato con il settimanale del Partito nanzionale democratico (Pnd), affermando in particolare che la caricatura disegnata da un artista brasiliano è "antisemita". "Hanno equiparato Israele ai nazisti. Questo non è diritto di critica, è diffamazione", ha detto la portavoce. La vignetta mostrava una nave carica di aiuti per Gaza attaccata da una piovra che issava una bandiera israeliana con in mezzo una svastica invece della Stella di David.


Un altro tentato furto ad Auschwitz, fermati due canadesi,
erano turisti alla ricerca di un "ricordo" della visita al Museo
Varsavia, 28 giu -
Tentavano di rubare pezzi dei binari del campo di sterminio nazista Auschwitz-Birkenau, sono stati fermati e interrogati dalla polizia, poi liberati. A rivelare la notizia è stato il portavoce del Museo del campo, Jarosaw Mansfelt. A compiere l'infame gesto questa volta erano due cittadini canadesi. Hanno tentato di rubare le viti con le quali i binari sono assicurati alla base di legno, evidentemente non sapevano che quella parte del binario fosse monitorata da una videocamera dei servizi di sicurezza interni al Museo.

 
 
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