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L'Unione informa |
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29 giugno 2010 - 17 Tamuz 5770 |
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alef/tav |
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Roberto Della Rocca, rabbino |
Delle
varie disgrazie riferite dalla Tradizione rabbinica a fondamento del
digiuno pubblico che osserviamo oggi, 17 di Tamùz, primeggia quella
della rottura delle Tavole del Patto da parte di Moshè di fronte al
popolo che adora il vitello d’oro. Ma quella rottura non è forse
necessaria? L’idolo, dice Alain Finkelkraut, è il divino messo a
disposizione, a portata di mano, incarnato in un volto pietrificato.
L’idolatria quindi tradisce la concezione monoteistica con dei
surrogati, tenta di afferrare Dio per manipolarlo per i propri scopi,
ed è qui la sua affinità con la magia, che la Torà condanna. “Avodà zarà” , letteralmente “culto straniero”, è infatti la definizione con cui la Tradizione ebraica indica non tanto l’oggetto dell’“idolatria”,
quanto piuttosto, quei comportamenti e quelle modalità di interazione
dettati da una confusione identitaria che si traducono spesso in
tentativi di captazioni totemiche.
Non è quindi l’immagine in sé a essere idolo. Una stessa figura può
essere idolo o meno, a seconda del rapporto che si instaura con essa.
Visto che il vitello
dimostrava una confusione idolatrica, era forse possibile che gli ebrei
trattassero anche le Tavole come un idolo. Forse avrebbero identificato
in quelle Tavole di pietra lo stesso Dio Vivente, e magari avrebbero
adorato le Tavole invece che Colui che le aveva realizzate. Trasformare
il Dio vivente in una tavola di pietra sarebbe stato il culmine
dell’idolatria, peggio che adorare falsi dei. La stessa parola divina
sarebbe stata così pietrificata. E da quel momento, infatti, la Torà
viene trasmessa a viva voce da Moshè, vivente ai viventi: estrema
precauzione contro la cristallizzazione della Torà e della Voce.
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Il maggior pericolo nel lavoro è perdere la vita cercando di guadagnarsela. |
Vittorio Dan Segre, pensionato |
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17 di
Tamuz - Se perdiamo i riferimenti
Tamuz
è un mese ebraico estivo. Il nome non è originariamente ebraico, deriva
dalla lingua babilonese, che con lo stesso nome indicava un suo dio.
Era il dio che con la sua morte e resurrezione in qualche modo
rappresentava la ciclicità della natura. Le donne ne piangevano
ritualmente la morte nel mese a lui dedicato, forse il giorno 18, e
questo uso pagano si era radicato anche tra gli ebrei, alla vigilia
della distruzione del primo Tempio, scatenando la riprovazione del
profeta Ezechiele (8:14). Il pianto rituale idolatra non è rimasto
senza tracce ma purtroppo ha ceduto il posto ad una giornata di
digiuno, il 17 di Tamuz, celebrata per ben altri motivi. Il 17 di Tamuz
apre, con il suo digiuno dall’alba alla sera, il ciclo di tre settimane
di progressiva austerità in ricordo della distruzione dei due Tempi,
che culmina con il digiuno del 9 di Av. Si tratta quindi di una
commemorazione storica legata a precisi avvenimenti. Nella tradizione
ebraica è diffusa l’idea che determinate date del calendario attirino
avvenimenti o positivi o negativi. Il 17 di Tamuz è uno dei giorni
negativi. I fatti che vi si ricordano sono cinque, secondo la fonte
principale della Mishnah di Ta’anit (nella Ghemara 26a - b e 28),
proprio come cinque sono i disastri ricordati nel 9 di Av. I fatti del
17 di Tamuz sono: la rottura della tavole della legge fatta da Mosè al
ritorno dal monte Sinai, davanti allo spettacolo del vitello d’oro;
l’interruzione della presentazione al sacrificio quotidiano nel Tempio;
la breccia nelle mura di Gerusalemme assediata; il rogo del Sefer Torah
fatto dal “malvagio Apostemos”; l’erezione di una statua nella parte
più sacra del Tempio. E’ uno strano elenco, che richiede molte
spiegazioni e pone interrogativi in parte insolubili. La rottura delle
tavole della legge è raccontata nel libro dell’Esodo al capitolo 32;
non ne viene però indicata la data, questa si deduce calcolando che se
la rivelazione sul Sinai (che festeggiamo a Shavuot) avvenne il 6 o 7
di Sivan e che subito dopo Mosè salì sul monte per rimanervi 40 giorni
e 40 notti, alla fine del conto il giorno del ritorno nell’accampamento
è il 17 di Tamuz. Per quanto riguarda il terzo avvenimento, la breccia
delle mura, questa si verificò in entrambi gli assedi fatali per
Gerusalemme, quello dei Babilonesi e quello dei Romani, solo che nel
libro di Geremia (52:6 - 7), che parla dell’assedio baibilonese, la
data è il 9, non il 17 di Tamuz. Il Talmud Bavli spiega che fu
privilegiato il giorno 17, data dell’assedio romano, perchè più vicino
a noi. Ma nel Talmud Yerushalmi si suppone che la data fosse stata il
17 anche la prima volta e che il 9 corrispondeva al calendario solare e
non a quello lunare ebraico. Gli altri due avvenimenti (sospensione dei
sacrifici, statua) sono di epoca incerta, potrebbero riferirsi sia al
primo che al secondo assedio; la statua, secondo una tradizione,
l’avrebbe collocata il re Menashe. Quanto ad Apostemos non sappiamo chi
sia, il nome potrebbe corrispondere a Postumio o Postumo e si suppone
che sia stato un generale o grosso dignitario che avrebbe fatto uno
sfregio pubblico della Torah, forse nell’epoca della dominazione
ellenistica. Se però si fa digiuno in questa data il motivo
essenziale è quello della breccia nelle mura, che portò alla caduta
definitiva della città. L’accostamento di altri fatti ricavati con
deduzioni o trasmessi dalla tradizione non è però casuale e dà un senso
completo alla celebrazione. Soprattutto acquista senso la riflessione
sul vitello d’oro e la rottura delle tavole. Il brano che racconta
l’episodio si legge in tutti i digiuni, iniziando da Esodo 32:11, ma
saltando il pezzo centrale, e passando a quello finale nel quale c’è la
riconciliazione tra il Signore e il suo popolo; ma proprio il 17 di
Tamuz una tradizione richiede che si legga l’intero brano perché
precisamente attinente (così dicono i testi italiani come lo Shibbolè
haLeqet, il Tanya Rabbati e il Machazor di Shadal). Se si mettono
insieme tutti e cinque gli episodi riferiti dalla Mishnah e se ne cerca
un denominatore comune, probabilmente la frase “chiave” che risolve il
problema è quella del verso 32:25: “Mosè vide che il popolo era esposto
e scoperto (parù’a) perché Aharon lo aveva esposto al ludibrio davanti
ai suoi avversari”. La storia del vitello d’oro e la frattura
conseguente, simboleggiata dalla rottura delle tavole, rappresenta un
momento di crisi fatale nella quale il popolo, senza protezione, è
scoperto ed esposto vergognosamente davanti ai nemici che lo attaccano
e lo scherniscono. Il tema dell’esposizione e della vergogna dovuto
alla perdita dei riferimenti e delle protezioni sembra essere il motivo
comune dei fatti del 17 di Tamuz: Israele resta senza tavole della
legge, senza il sacrificio quotidiano, cuore del culto nel Tempio,
senza il Sefer Torah, senza le mura materiali; al loro posto un idolo
che non può essere di aiuto e al contrario è motivo di vergogna e di
colpa. Cadute le barriere materiali e spirituali inevitabilmente a
breve distanza avviene la catastrofe della distruzione del Tempio. La
tradizione vorrebbe limitare i momenti tristi e austeri e la questione
della validità perenne dei digiuni come quello del 17 di Tamuz,
istituiti per ricordare eventi infausti della storia, si è posta da
tempi remoti. I reduci a Gerusalemme dall’esilio babilonese si
chiedevano che bisogno c’era di piangere ancora la distruzione se la
città e il Tempio erano stati ricostruiti? Era la domanda che fu posta
al profeta Zekharia (8:19) che rispose che in futuro tutti questi
digiuni sarebbero diventati giorni di gioia e di festa. In pratica al
momento attuale il 17 di Tamuz e gli altri giorni tristi servono come
esercizi di meditazione sugli errori della nostra storia, nella
speranza che si riesca prima o poi a ripararli.
rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, Pagine Ebraiche, giugno 2010
Giuliana Fiorentino Tedeschi (1914-2010)
Si
è spenta ieri a 96 anni, nella sua casa di Torino, Giuliana Fiorentino
Tedeschi, una delle ultime testimoni fra i sopravvissuti alla Shoah.
Nata a Milano nel 1914, vi fece ritorno per laurearsi in glottologia
dopo aver vissuto la giovinezza a Napoli. Dal matrimonio con
l'architetto torinese Giorgio Tedeschi nacquero due figlie, le quali
sfuggirono alla deportazione grazie all'aiuto di una governante.
Vennero strappate, in tenera età, dal seno della madre, la quale,
arrestata dai soldati nazifascisti, fu deportata ad Auschwitz nella
primavera del '44. Giuliana Tedeschi ha dedicato la sua vita del
dopoguerra alla causa della testimonianza. Insegnante in un liceo
torinese, successivamente preside della scuola ebraica, ha svolto
costantemente un'intensa attività di testimonianza, rivolgendosi in
particolar modo ai giovani. Ha scritto due libri tradotti in molte
lingue: Questo povero corpo (1946) e C'è un punto della terra. Una
donna nel lager di Birkenau (1992). Ha rilasciato numerose interviste e
collaborato a studi e documentari, ma il centro della sua attività è
stato dentro ai muri delle scuole. Diverse generazioni di studenti
torinesi, e non solo, hanno imparato l'orrore dei campi di sterminio
dalla sua bocca, dalle sue lucide descrizioni dell'esperienza di
Auschwitz. Caratteristica peculiare che tutti ricordano della sua
testimonianza era l'accuratezza, il realismo, quasi la crudezza delle
descrizioni della vita di tutti i giorni, delle sevizie subite, delle
impressioni soggettive, della fisicità della vita del campo. “Giuliana
era una donna dalla forza straordinaria” ricorda Tullio Levi,
presidente della Comunità Ebraica di Torino “nonostante la tragedia
della Shoah, era riuscita a tornare a vivere, interiorizzando la
propria esperienza di sopravvissuta. La sua testimonianza è stata
preziosa per intere generazioni”. Poi un pensiero agli anni in cui
Giuliana Tedeschi era direttrice della scuola ebraica “era una preside
energica - spiega Levi - sotto la sua direzione la scuola ha
avuto una spinta innovativa notevole. Era amata e stimata da tutti,
allievi, professori, genitori. Un esempio di serietà e professionalità”. Concludiamo
con le parole di Giuliana, l’ultima testimone torinese della
deportazione nazista: “Siamo tornati, siamo tornati in pochi, anzi in
pochissimi; abbiano lasciato laggiù milioni di essere umani, consumati
dalle malattie, dagli stenti, dalle violenze; milioni di donne,
bambini, vecchi trasformati in fumo. Siamo tornati in un mondo in cui
ci siamo subito sentiti estranei, dove non abbiamo trovato ascolto ma
sola una desolata solitudine. Allora abbiamo scritto: prima gli uomini,
poi a poco a poco le donne che faticosamente uscivano dalla propria
riservatezza e dai propri pudori. Abbiamo scritto con le lacrime per un
bisogno estremo di sfogo personale e con disperata rabbia per vendicare
le offese e le violenze subite. Ma oggi abbiamo la certezza di avere
condannato, con la nostra testimonianza, all’esecrazione universale,
una intera generazione di feroci, disumani assassini, per i quali non
potrà mai esistere perdono. Le parole sono pietre e pietre auspichiamo
che restino i nostri racconti, li lasciamo a voi perché li trasmettiate
agli altri, in una catena che non trovi interruzione, perché i nostri
racconti rappresentano anche le voci di chi non è tornato”.
Manuel Disegni e Daniel Reichel
Sul Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it, fra i numerosissimi segnali che pervengono in redazione, testimonianze e documenti per ricordare Daniela Di Castro.
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Quali rabbini, quale futuro - Un Beth Din autonomo e autorevole
Mi
sembra che la discussione che si è aperta sia interessante pur nelle
sue asprezze e forse grazie alle sue asprezze. La proposta di istituire
un Beth Din unico in Italia credo che vada esaminata con attenzione.
Personalmente credo che possa essere una buona idea, anche se è
ovviamente vero ciò che dice rav Di Segni, cioè non è questa la
situazione generale dei Batè Din in Europa e nel mondo. Credo però che
l'Italia, viste anche le dimensioni molto ridotte delle comunità possa
giovarsi di una situazione di questo tipo. Questo però a patto di
rendere tale Beth Din assolutamente autonomo rispetto alle comunità e
autorevole, a patto che sia mobile e che abbia uno stretto collegamento
con i Rabbinati locali. Quello dell'autonomia è un tema assolutamente
essenziale, dovrebbe essere una preoccupazione non solo dei rabbini,
dovremmo pensare seriamente a quali soluzioni adottare per garantire
questa autonomia. Tra le altre cose è inaccettabile un Beth Din
dedicato esclusivamente alle conversioni, la cui efficienza verrebbe
misurata dal numero di conversioni fatte. Sono d'accordo con rav
Riccardo Di Segni su vari punti. E' in corso un'offensiva sul tema
delle conversioni estremamente pericolosa che mette in discussione
l'autonomia del rabbino e dei Batè Din. Faccio un solo esempio: è
considerato normale anche da chi sostiene l'assoluta autonomia del
Rabbinato fare pressioni sul rabbino in tema di conversioni soprattutto
di conversioni di minori o di ragazzi in età di Bar Mitzvà. Pensate se
lo stesso tipo di pressioni si operassero sui giudici di un tribunale
cosa diremmo sulla violata autonomia del giudizio. Ritengo
inoltre profondamente sbagliato considerare le conversioni come la
soluzione di un problema comunitario, la conversione è un profondo
percorso personale di avvicinamento all'ebraismo e al popolo ebraico,
non può e non deve diventare una sanatoria. Si chiede un
percorso chiaro di conversione. Sembra una richiesta assolutamente
ragionevole. In realtà la questione è molto più complessa di quanto
appaia. Il percorso di conversione presuppone un rapporto molto stretto
fra il candidato e il Beth Din. Il Beth Din deve accertare che questa
persona sia sinceramente convinta di ciò che sta chiedendo e che non si
tratti di un entusiasmo momentaneo e deve accertare che possa avvenire
la cosiddetta kabbalàt mitzvòt, cioè l'accettazione delle mitzvòt.
Questa deve riguardare sia il presente sia il futuro. Al Beth Din viene
chiesto cioè di dare un giudizio sul futuro di questa persona. Un
giudizio che come si può immaginare è molto difficile dare: si può
sicuramente presentare, rendere pubblico un programma di studio per la
preparazione al ghiur ma questo è solo una piccola parte di questa
preparazione. Tutto il resto non è programmabile e può e deve variare
da persona a persona.
rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano
Differenze in campo
Domenica
mattina ho avuto l’occasione di scoprire direttamente le attività della
Jerusalem Foundation (www.jerusalemfoundation.org), scortato da una
guida d’eccezione, l’ex ambasciatrice d’Israele in Italia, Tamar Millo.
Dopo una visita all’asilo multiconfessionale dell’YMCA, di fronte
all’albergo King David, ci siamo spostati a Gerusalemme Est, per
visitare il campo di basket dove si allenano i bambini palestinesi che
partecipano al progetto «Peace Players». Il programma funziona così:
giovani palestinesi e giovani israeliani si allenano separatamente in
due centri sportivi; una volta ogni due settimane si incontrano sul
campo della scuola gestita dalla fondazione e imparano a conoscersi.
Dopo aver rotto il ghiaccio e aver raggiunto un livello di gioco
adeguato i ragazzi e le ragazze costituiscono un’unica squadra, che
quest’anno si è iscritta per la prima volta al campionato di basket
israeliano. Molti dei bambini palestinesi non hanno il passaporto
israeliano, ma quello giordano, poiché le loro famiglie rifiutarono di
cambiare nazionalità in seguito alla guerra dei sei giorni. Dopo aver
fatto due tiri con i ragazzi e con i loro insegnanti, che hanno già
sperimentato questo programma in altre aree conflittuali del mondo
(Irlanda del nord, Cipro, Sudafrica), Tamar ci porta alla Cineteca di
Gerusalemme, alle pendici della cinta muraria, dove ci vengono mostrati
i frutti del progetto “I am you are”: ogni anno 35 ragazze e ragazzi
israeliani e palestinesi tra i 15 e i 17 anni si trovano per un mese a
girare dei cortometraggi che hanno come tema la scoperta dell’identità.
Questi giovani apprendono un’arte come il cinema e insieme conoscono
pieghe ignote della società israeliana. Il filmato che vediamo è sulla
comunità africana palestinese. Alla fine del filmato, che racconta le
discriminazioni che questi musulmani dalla pelle nera subiscono
all’interno della società palestinese, la direttrice del programma ci
racconta che in una scuola israeliana dove il film era stato proiettato
un giovane ebreo etiope si è rivolto così ai suoi compagni: “Avete
capito come mi sento io?”. Sono certamente soltanto delle gocce in un
mare tempestoso, ma se i problemi non possono essere risolti, quanto
meno questi giovani impareranno a parlarne.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas |
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La Turchia ferma i voli israeliani Gerusalemme
- «Generale Stem? Non avete l'autorizzazione al sorvolo della
Turchia: per andare in Polonia, dovete cambiare rotta». Una voce via
radio. Al generale Elazar Stem, responsabile del Dipartimento risorse
umane di Tsahal, figlio d'un sopravvissuto alla Shoah e padrino della
tradizionale trasferta «Testimoni in divisa» che ogni anno porta cento
riservisti ad Auschwitz, al generale non è rimasto che obbedire: piani
di volo alla mano, l'aereo è stato dirottato sui cieli della Grecia. Un
costo più alto di carburante. Un costo altissimo per le relazioni fra
Ankara e Israele. Perché d'ora in poi le nuvole della Turchia saranno
chiuse «a tutti i voli israeliani» (come ha annunciato ieri mattina la
Radio militare di Gerusalemme), o «solo a quelli militari» (come ha
precisato un portavoce turco), una decisione in ogni caso simbolica:
«Sì ha confermato il premier Recep Tayyip Erdogan, durante il G-20 dopo
l'episodio della Flotilla c'è stata una richiesta d'autorizzazione ad
attraversare il nostro spazio aereo. Non è stata accordata». Rottura
sulle rotte. Dopo 14 anni, lo stop è ai jet militari israeliani. L'El
Al, la compagnia di bandiera, non ha ricevuto comunicazioni e i sorvoli
continuano. La certezza è che verranno ridisegnati i tragitti per l'Est
Europa e l'Estremo Oriente, ma soprattutto che l'amico turco sarà,
definitivamente, un ex. […] Francesco Battistini, il Corriere della Sera, 29 giugno 2010
Pure Ahmadinejad dà ragione alla Cia. Guerra inevitabile «Abbiamo
deciso una punizione per insegnare all'Occidente come si dialoga con le
altre nazioni»: i disastri provocati dalla fallimentare strategia del
dialogo con l'Iran di Barack Obama non cessano mai. Dopo aver
verificato che le sanzioni deliberate dall'Onu sono solo di facciata,
dopo aver visto che al GB Obama non è riuscito che a far uscire il
solito comunicato contro l'Iran pieno di aria fritta, Ahmadinejad si
sente ora tanto forte da bacchettare sulle dita Obana “punendolo”,
prospettandogli un nuovo “dialogo”, ma non prima di due mesi.
Ahmadinejad, aggiunge che, per punire gli Usa e l'Occidente per la loro
cattiva educazione , l'Iran ha deciso di imporre nuove condizioni per
la trattativa: «in primo luogo l'Occidente deve dichiarare la posizione
in merito alle armi nucleari del regime sionista, poi deve chiarire se
è disposto a impegnarsi con le norme del trattato Tnp e infine se vuole
arrivare a un risultato di amicizia o inimicizia con questo dialogo che
deve avere per base la “Dichiarazione Teheran” di Iran, Turchia e
Brasile». Scherno che si somma a scherno, perché la Dichiarazione di
Teheran era una palese presa in giro, perché il meccanismo di
trasferimento all'estero del materiale nucleare deciso con Lula e
Erdogan facilitava, anziché impedire, l'arricchimento al 90%
dell'uranio e quindi la costruzione dell'atomica. Prospettiva ormai
concretissima tanto che due giorni fa il capo dei servizi segreti
americani Leon Panetta ha ammesso che l'Iran «potrebbe impiegare un
anno ad arricchire ulteriormente l'uranio e a fabbricare la bomba e un
anno a sviluppare un sistema operativo per utilizzare quest'arma. Tutto
sta a prendere la decisione operativa, su cui Usa e Israele divergono:
gli israeliani sono più convinti di noi che Teheran abbia deciso di
procedere con la bomba, anche se hanno accettato di non attaccare per
darci il tempo di far funzionare la diplomazia». Il dramma è che - con
ogni evidenza - la strategia diplomatica scelta da Obanna, non
accompagnata - come faceva Bush - né da una rigida scansione dei tempi
(Obama accetta continue dilazioni), né da una concreta minaccia
militare Usa, ha sinora permesso a Teheran di sviluppare indisturbata i
suoi programmi, senza pagare alcuno scotto. […] Carlo Panella, Libero, 29 giugno 2010
La diplomazia fatta a faglie “Tectonic
rift”, Israele e l'America sono come due faglie che si stanno
staccando, non si tratta di una crisi, perché in una crisi ci sono
momenti buoni e momenti cattivi , è molto di più, una frattura
insanabile, due continenti alla deriva . Così ha parlato Michael Oren,
ambasciatore israeliano a Washington, secondo indiscrezioni trapelate
sui giornali israeliani. Il diplomatico ha poi smentito, così come
aveva fatto qualche mese fa quando si era lasciato sfuggire che mai, in
trent'anni, Israele e America si erano trovati tanto distanti. Tra i
calcoli freddi con cui il presidente Obama tende a gestire la politica
estera e le pressioni interne al governo di Gerusalemme, la tensione
tra i due paesi è sempre meno governabile. […] Nel frattempo ci
sono nuovi elementi che complicano "l'amicizia indistruttibile",
secondo la definizione di Hillary Clinton: la Turchia, che ha
annunciato la chiusura degli spazi aerei per i mezzi israeliani;
l'Iran: secondo il capo della Cia Leon Panetta, Teheran ha quantità
d'uranio sufficiente per costruire un'atomica entro due anni; il prezzo
del caporale Shalit sempre più alto, come dice Hamas. All'aumentare
della minaccia iraniana aumenta il chiacchiericcio su un'operazione di
Israele contro i siti atomici. […] Il Foglio, 29 giugno 2010 |
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Mondiali 2010 - Argentina in finale, nuovi spunti dalla cabala Ancora
poche ore e la griglia dei quarti di finale del mondiale sudafricano
sarà finalmente completa. Il G8 del calcio prevede sfide golose: su
tutte Argentina contro Germania (anche se il match tra Brasile e Olanda
non scherza in quanto a qualità). Ce la faranno i pirotecnici
sudamericani a superare il roccioso ostacolo teutonico? Non vale
neanche la pena di chiederselo. Almeno così la pensa il cabalista
israeliano Leo Skolni, autore negli scorsi giorni di uno studio
pubblicato dal Jerusalem Post in cui ipotizza un tranquillo approdo
della Seleccion alla finalissima: i numeri e la loro simbologia
parlerebbero chiaro. Grande appassionato di pallone, Skolni è uscito
con una seconda puntata in cui spiega come la Germania sia
inevitabilmente destinata a soccombere agli uomini di Maradona. La
prova? Bisogna risalire ad un episodio biblico narrato nel libro dei
Numeri che vede protagonisti il re dei Moabiti Balak e il profeta
Balaam. Balak chiede a Balaam di operare dei malefici a danno degli
ebrei. Ma quest’ultimo, ispirato da Dio, invece di male parole
pronuncia una benedizione. Quale il legame tra queste vicende e il
profano mondo del calcio secondo Skolni? Lo sconfitto Balak
ricorderebbe nel nome Michael Ballack, capitano della Germania assente
in Sud Africa perché infortunatosi in finale di Fa Cup contro il
Portsmouth allenato (non a caso) da Avi Grant, tecnico israeliano ed
ebreo. Balaam, che in ebraico significa difensore, è invece associato a
Walter Samuel, ebreo e (anche questo non è un caso) leader del reparto
difensivo argentino. Sulla maglia del combattivo Samuel, idolo assoluto
della caliente torcida argentina ma anche di milioni di tifosi
interisti, fa inoltre capolino il 13, numero che la Ghemarà associa a
molteplici significativi positivi. Skolni ha pochi dubbi: saranno
Walter Samuel e il “messaggero di Dio” Lionel Messi (mettere link a
pezzo precedente) a guidare il dream team biancoceleste verso orizzonti
di gloria. as
Alfano
a Gerusalemme: Italia e Israele
assieme nella lotta al terrorismo Gerusalemme, 28 giu - Il
ministro della giustizia, Angelino Alfano, ha incontrato il suo collega
israeliano, Yakov Neeman, a Gerusalemme. Hanno firmato una
dichiarazione di intenti destinata a porre le basi per un trattato fra
i due Paesi sulla cooperazione giudiziaria e l'estradizione.
L'obiettivo, ha spiegato il ministro Alfano è quello di "rafforzare la
collaborazione contro il terrorismo utilizzando gli strumenti della
cooperazione internazionale". "La cooperazione giudiziaria è la via per
assicurare pace e sicurezza nel mondo - ha aggiunto sottolineando che -
senza un reale contrasto al terrorismo non si può avere sicurezza e
senza cooperazione giudiziaria non ci può essere un vero contrasto del
terrorismo". In questa chiave, ha spiegato ancora Alfano, si inserisce
la dichiarazione di intenti in materia di collaborazione giudiziaria
firmata oggi con il ministro israeliano. Dichiarazione attraverso la
quale, ha detto, "abbiamo gettato le basi per un trattato
sull'estradizione e la cooperazione giudiziaria che potrebbe essere
firmato nel prossimo inverno nell'ambito del vertice bilaterale di
Roma". Alfano ha infine specificato che "un percorso di lavoro comune"
nello stesso campo è allo studio anche con l'Autorità nazionale
palestinese e sarà discusso domani durante i suoi incontri a Ramallah
(Cisgiordania) con il premier Salam Fayyad e con il ministro della
giustizia palestinese.
Il Cairo: disegni antisemti sul giornale del partito di Mubarak Il Cairo, 28 giu - “Hanno
paragonato i soldati israeliani ai nazisti”, queste le accuse mosse
dall'ambasciata israeliana al Cairo al giornale del partito al potere
in Egitto. Lo hanno fatto pubblicando disegni umoristici “antisemiti”.
Il giornale al-Watani al-Yawm ha pubblicato il disegno a seguito delle
vicende del 31 maggio legate alla "Freedom Flotilla". L'ambasciata
israeliana ha protestato con il settimanale del Partito nanzionale
democratico (Pnd), affermando in particolare che la caricatura
disegnata da un artista brasiliano è "antisemita". "Hanno equiparato
Israele ai nazisti. Questo non è diritto di critica, è diffamazione",
ha detto la portavoce. La vignetta mostrava una nave carica di aiuti
per Gaza attaccata da una piovra che issava una bandiera israeliana con
in mezzo una svastica invece della Stella di David.
Un altro tentato furto ad Auschwitz, fermati due canadesi, erano turisti alla ricerca di un "ricordo" della visita al Museo Varsavia, 28 giu - Tentavano
di rubare pezzi dei binari del campo di sterminio nazista
Auschwitz-Birkenau, sono stati fermati e interrogati dalla polizia, poi
liberati. A rivelare la notizia è stato il portavoce del Museo del
campo, Jarosaw Mansfelt. A compiere l'infame gesto questa volta erano
due cittadini canadesi. Hanno tentato di rubare le viti con le quali i
binari sono assicurati alla base di legno, evidentemente non sapevano
che quella parte del binario fosse monitorata da una videocamera dei
servizi di sicurezza interni al Museo. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
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