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L'Unione informa |
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4 luglio 2010 - 22 Tamuz 5770 |
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alef/tav |
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Benedetto Carucci Viterbi, rabbino |
Lo
zelo, premiato da Dio nella parashà letta ieri, non è da tutti. E
invece assistiamo spesso a una sorta di gara; vince chi è più zelante.
Il piccolo problema è che l'eccesso di zelo, perché spesso di questo si
tratta, è nemico della cautela e della capacità di distinguere tra
situazioni diverse. Di queste ultime qualità e di un po' di fantasia
abbiamo oggi bisogno. |
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L’industria
della nostalgia, dedita alla produzione sistematica di ricordi, non
produce la semplice riemersione di ciò che è accaduto nel passato, ma
lo crea. Per fuoriuscirne non si tratta di considerare il terreno della
storia come il luogo dove la tentazione della menzogna è più forte, e
quindi di commissionare a qualcuno il compito di scrivere la storia
vera, ma di sapere che su quel terreno si misurano ipotesi,
ricostruzioni parziali, interpretazioni, soprattutto fonti e documenti
che insieme devono dare un quadro, mosso, inquieto del passato e di ciò
che quel passato lascia in deposito. Questo è ancora più dirimente se
si ha in testa e in animo di produrre un manuale del passato come un
“museo di storia”, dove dovremmo ritrovare percorsi di vita, storie
individuali e di gruppo, strutture, organizzazione della vita
quotidiana, oggetti, raffigurazioni. Ovvero un insieme dove si
mescolano, coabitano e si sovrappongono lo scorrere del tempo e le sue
diverse e spesso confliggenti rappresentazioni e dove spesso è
importante non solo cosa c’è, o ciò che qualcuno sceglie di mettere al
centro mentre altri collocano al margine, e di trovare un modo di
rendere coerenti queste due diverse visioni, ma anche, e forse
soprattutto, ciò che tutti decidono di “non mostrare”, di espellere o
di non discutere.
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David Bidussa, storico sociale delle idee |
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davar |
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Quali rabbini, quale futuro
Il
dibattito aperto con molti autorevoli contributi, su queste pagine
negli scorsi mesi, riguardo alle relazioni fra la minoranza ebraica in
Italia e i propri rabbini ha fatto da preludio a una stagione di
confronti e riflessioni molto intense. I rabbini non sono sacerdoti, ma
giudici e maestri, guide spirituali. Forse proprio per questo il
rapporto che in quanto comunità e in quanto singoli intratteniamo con
loro deve restare, nell’ambito del dovuto rispetto, aperto e
dialettico. Questa dialettica può spingersi fino a incomprensioni e
fratture, come quella che ha recentemente portato a Torino alla revoca
dell’incarico gerarchico di rabbino capo attraverso una procedura
complessa prevista dagli statuti dell’ebraismo italiano e mai prima
sperimentata. Ma le risoluzioni delle componenti che governano le
nostre Comunità, le reazioni del rabbinato, le opinioni diverse, a
volte duramente contrapposte, non possono essere raccontate con una
sola cronaca, con un comunicato, con il dispositivo di un singolo
provvedimento. E men che meno con proclami ideologici di una parte o
dell’altra. Per questo molte pagine del numero che il lettore si
accinge a sfogliare, sono dedicate al dibattito sul rapporto con il
rabbinato. Un dibattito che dimostra come le differenze esistano e come
siano trasversali, tocchino il mondo degli ebrei italiani, dei comuni
cittadini, di chi governa le Comunità. Degli stessi rabbini, che non
hanno mai preteso di parlare con una voce unanime e di pensare con una
sola testa. Un dibattito che dimostra, comunque il lettore la pensi,
che la minoranza ebraica in Italia è viva e tenta di affrontare le
crisi e i mutamenti con gli unici strumenti possibili e con l’unico
reale patrimonio che abbiamo a disposizione: la voglia di ragionare, la
tolleranza verso anime e identità diverse, il coraggio di affermare le
nostre opinioni anche al costo di segnare una profonda differenza con
quelle altrui. Questo patrimonio di differenze e di idee da raccontare
non può essere esaurito in poche pagine. Ma possiamo almeno cominciare
a darne un saggio. Per orientarci e per guardare avanti con maggiore
consapevolezza.
Quali rabbini quale futuro - Un rabbino per amico
In
epoca di facili caricature e di grandi polemiche sul paventato rischio
dell’ebraismo italiano di perdere la propria natura per approdare a
modelli “poco” ortodossi o, per contro, troppo rigidi se non
integralisti, ho letto con piacere l’intervento di rav Riccardo di
Segni sullo scorso numero di Pagine Ebraiche intitolato Pochi ma buoni.
O tenerissimi. La ricetta giusta per il rabbino. L’articolo, che sento
di condividere quasi completamente anche per la sua non celata ironia,
nelle sue conclusioni ci pone davanti ad una domanda seria alla quale
proverei a dare una risposta: la mia. Dopo una breve disamina dei vari
modi di vivere il proprio ebraismo, in Italia e altrove, divisi fra
categorie (che rappresentano oramai idee caricaturali) il rav Di Segni
pone una questione: come vorreste il vostro rabbino? Scrive Di Segni:
“Si pretende dal rabbino quello che non si chiederebbe al proprio
ingegnere, medico, avvocato. A chi ti costruisce la casa non si chiede
di fare calcoli arruffati, al medico che ti cura non si chiede una
diagnosi e una terapia approssimativa, all’avvocato che ti difende non
si chiede di essere ignorante della legge e debole nella controversia.
A chi si chiede di essere meno rigido? Al vigile che ti fa la multa,
all’ispettore del fisco, al professore che ti esamina… A quali di
queste figure professionali è paragonabile il rabbino, in particolare
il rabbino capo?”. Ecco: non ho mai pensato ai rabbini come a degli
avvocati, né tantomeno come a degli ingegneri… figuriamoci poi che
tragedia culturale e umana sarebbe considerare il proprio rabbino un
esattore o un vigile urbano! E non perché io abbia più o meno simpatia
per queste categorie professionali, ma perché l’ebraismo non è
paragonabile ad una di queste professioni e anche perché i rabbini non
ci devono dare “consulenze” (tecniche, fiscali, amministrative,
giuridiche…). Le nostre regole non formano un sistema giurisprudenziale
pragmatico volto a una sana organizzazione della nostra società
(comunità): ci sarebbe bastato il diritto romano. Né le nostre regole
sono la rappresentazione o l’interpretazione di una visione astratta
del mondo, e del ruolo dell’essere umano in questo universo: ci sarebbe
bastata la filosofia greca. L’ebraismo è qualcosa più di una religione,
qualcosa di più di una filosofia: direi che è una disciplina o se
volete un “percorso formativo”, fondato su valori, principi e…
comportamenti (piuttosto difficili da rispettare). Senza andare troppo
per le lunghe: se proprio volessimo cercare un parallelo, proviamo a
trovarlo in altre discipline (anche quelle sportive se volete), dove i
Maestri non stanno dietro una scrivania a insegnare o a giudicare, ma
“praticano” con gli allievi: condividono esperienza, fatica, emozioni,
problematiche, gioie e … amarezze. Ecco, mi piacerebbe che i nostri
rabbini si paragonassero a degli allenatori, a degli istruttori, che
dividono le prove e la disciplina con gli allievi, aiutandoli a
progredire, giorno per giorno. E un buon istruttore sa che il percorso
formativo (atletico o intellettuale, psicologico o esistenziale) è
diverso per ognuno di noi e con difficoltà diverse per ciascuno di noi.
Certo, l’ebraismo non è facile come il tennis da tavolo o come gli
scacchi: forse è più simile agli sport di mare o di montagna e, per
affrontare certe sommità o per immergersi verso la profondità, occorre
una forte disciplina, una grande preparazione, molto studio e non poche
rinunce. Non ci si può immergere senza una buona preparazione teorica e
senzaun’adeguata preparazione fisica. Per raggiungere certe vette
bisogna compiere scelte e fare rinunce, darsi uno stile di vita,
scegliersi un maestro e trovarsi un compagno: perché per mare o in
montagna, così come nella nostra antica disciplina, andare da soli è un
errore, così come anche il trasgredire a regole e insegnamenti potrebbe
farci perdere la vita, la nostra anima, sia in mare che nella vita di
tutti i giorni. Non è quindi in questione il “rigore” (o la
“rigidità”!) dei nostri rabbanim, quanto la loro capacità di svolgere
il proprio compito: dovrebbero lasciare le poltrone dietro le scrivanie
e le loro lenti (micro o telescopiche), per condividere con gli altri
una pratica quotidiana, dove l’apprendimento (non uguale per tutti) sia
un’esperienza fatta in comune. In conclusione, non ci servono rabbini
professori o professionisti, ci servono maestri compagni di esperienza:
a dirla tutta, vorrei un rabbino per amico.
Victor Magiar, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Pagine Ebraiche, Luglio 2010
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Davar Acher - Le nostre sinagoghe, le nostre ambasciate
Qualche
giorno fa, questo sito ha pubblicato un intervento di Rav Di Segni, che
come di consueto ha il merito di essere un invito a pensare contro le
idee correnti. Rav Di Segni, in sostanza, diceva che i manifestanti
contro Israele non hanno tutti i torti a venire a esprimere le loro
posizioni davanti alla Sinagoga. Anch'io credo che i manifestanti
antisraeliani sbaglino più o meno tutto, ma non indirizzo. Anche
se qualche volta le chiamiamo familiarmente "tempio", le nostre
sinagoghe non sono sedi del divino, "case del Signore", com'era il
Tempio di Gerusalemme, distrutto in questi giorni quasi due millenni
fa, e come intendono essere le chiese cristiane. La sinagoga (dal greco
syn-ago, il luogo dove insieme si conduce - il servizio - o si agisce)
è innanzitutto beth hamidrash, casa di studio, luoghi in cui si
dovrebbe studiare Torah (e infatti le nostre funzioni più che preghiere
vere e proprie, come sostanzialmente è solo l'Amidà, contengono brani
di Torah; perfino lo Shemà a rigore è uno studio). E poi è un beth
haknesset, una casa di riunione, un luogo in cui gli ebrei ritrovano
una dimensione comunitaria e di popolo. Anche il minjan richiesto per
le azioni religiose in cui il Nome Divino è invocato, si spiega come
una rappresentanza minima del popolo ebraico, un atomo di Israele. A
imitazione delle chiese noi oggi rischiamo di vederle solo come luoghi
sacri, ma nei secoli vi si è studiato, discusso, vi ci si è riuniti, vi
si è giudicato, vi si è festeggiato e vi si è pianto assieme. Dunque
l'essenza della sinagoga è di non essere un luogo privato, come ha
scritto in polemica col rav Di Segni Davide Romano, ma al contrario il
luogo pubblico per eccellenza, la radunanza del nostro popolo. Ora
l'espressione storica principale del popolo ebraico nel nostro tempo è
lo Stato di Israele. Il rapporto che l'ebraismo ha con Israele non è
quello che i cristiani di tutto il mondo possono avere con l'Italia o
la Francia e neppure con lo Stato Vaticano. Israele non è uno Stato
degli ebrei e neppure quello più importante, perché vi hanno sede i
luoghi della nostra storia. Piaccia o meno a certi estremisti
ultraortodossi e ad altri estremisti di sinistra, lo stato di Israele è
il centro vitale, l'impresa in cui da cent'anni il nostro popolo ha
investito se stesso. Senza togliere legittimità all'ebraismo della
Diaspora, cioè al nostro ebraismo, Israele è oggi più del "germoglio
della nostra redenzione", come diciamo nelle funzioni: è il cuore
vivente del popolo ebraico. Per questo ogni sinagoga, ogni minjan,
oltre a rappresentare il popolo ebraico nella sua missione e nella sua
storia, rappresenta oggi anche Israele, quanto e più dell'ambasciata e
delle normali strutture diplomatiche. Per questo è giusto che sulla
cancellata della sinagoga di Roma sia esposta una fotografia di Gilad
Shalit: perché il suo rapimento ci riguarda tutti come ebrei. Questo
rapporto fra ebraismo e stato di Israele è evidente proprio in coloro
che ci prendono come nemici. Gli antisemiti oggi sono per forza
antisionisti, non c'è bisogno di molto per dimostrarlo. Ma anche
l'antisionismo è tutto tendenzialmente antisemita, nel senso di porsi
contro non solo allo Stato di Israele ma al nostro popolo. Lo si vede
bene quando gli "antisionisti" prima dicono, com'è accaduto di recente
a quella decana dei corrispondenti alla Casa Bianca, che dovremmo andar
via dalla "Palestina" che avremmo "rubato" e poi, alla domanda di dove
dovremmo "tornare", la risposta è "al diavolo, in Germania o in
Polonia", cioè, come ha detto ancora più esplicitamente alla radio di
bordo una delle navi della "flottiglia" pro-Hamas in risposta
all'intimazione di fermarsi "tornatevene ad Auschwitz". Ecco, in
maniera lucida e consapevole o meno, con comprensione storica o senza
intendere quel che fanno, estremisti o "perbene" come i sindacati e dei
partiti di sinistra, i manifestanti antistraeliani si mettono su un
cammino dove gli ebrei non hanno diritto a uno Stato e devono essere
dispersi fra i popoli "come il sale che dà sapore agli altri cibi ma
non deve essere mai troppo concentrato" ha scritto un "filosofo" in un
intervento recente sul "Pais": magari rinchiusi in ghetti o deportati
in luoghi dove chi ha lo stomaco di farlo si prenda cura di loro. Per
questa ragione essenzialmente negativa le manifestazioni contro Israele
riguardano le sinagoghe. E per questo sono sbagliate in tutto, salvo
che nell'indirizzo cui si rivolgono. Perché l'antisionismo è
antisemitismo, senza se e senza ma.
Ugo Volli
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Golda Meir [...] Palestinesi «Quando
c'è una guerra e la gente scappa, di solito scappa verso Paesi di
lingua diversa e religione diversa. I palestinesi, invece, fuggirono
verso Paesi dove si parlava la loro stessa lingua e si osservava la
loro stessa religione. Fuggirono in Siria, in Libano, in Giordania:
dove nessuno fece mai nulla per aiutarli. Quanto all'Egitto, gli
egiziani che presero Gaza non permisero ai palestinesi di lavorare e li
tennero in miseria per usarli come un'arma contro di noi. E sempre
stata la politica dei Paesi arabi: usare i profughi come un'arma contro
di noi. Dag Hammarskjoeld aveva proposto un piano di sviluppo per il
Medio Oriente, e questo piano prevedeva anzitutto il riassestamento dei
profughi palestinesi. Ma i Paesi arabi risposero no».
Lucrezia e Giorgio Dell'Arti, Corriere della Sera - Io Donna, 3 luglio 2010
Ebrea, storica e deputato del Pci, nipote di Togliatti I cento anni di Giorgina Arian Levi, testimone del 900 Compie
cento anni Giorgina Arian Levi, saggista, storica, a lungo deputata del
Partito comunista e una delle più vecchie e autorevoli testimoni
dell'avvento del nazifascismo. Sposata con il medico tedesco Heinz
Arian, anche lui ebreo, per sfuggire alle persecuzioni razziali emigrò
nel 1939 in Bolivia, dove rimase fino al 1946. Quando rientrò in
Italia, Giorgina Arian Levi iniziò una vita di impegno svolgendo
un'intensa attività politica nelle file del Pci, prima come consigliere
comunale a Torino (1956-1964), poi come deputato in Parlamento fino al
1972. Insegnante nei licei torinesi, in modo particolare nel classico
«Gioberti», si è dedicata anche alla ricerca storica sul movimento
operaio, sull'America Latina e sulle comunità ebraiche in Piemonte. E'
stata fondatrice e per molti anni direttore del periodico ebraico «Ha
Keillah» e membro del Consiglio della Comunità israelitica di Torino.
Tra i molti saggi pubblicati uno ricostruisce le vicende della famiglia
Montagnana di cui Giorgina Arian Levi fa parte essendo figlia di Gemma
Montagnana, sorella di Rita, moglie di Palmiro Togliatti, da cui ebbe
il figlio Aldo, ancora in vita. Pezzi di storia italiana che saranno
rievocati il prossimo 8 luglio quando nella Sala Rossa del consiglio
comunale il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, consegnerà a
Giorgina Arian Levi il Sigillo Civico. Nonostante sia ricoverata nella
casa di riposo della comunità ebraica, tenace e ironica, determinata e
combattiva, Giorgina Arian Levi continua a partecipare a dibattiti,
convegni, eventi nelle scuole per portare la sua voce sulla Shoah,
l'antisemitismo e, in generale, la discriminazione razziale.
Gazzetta del Mezzogiorno, 4 luglio 2010
Auschwitz a Parigi Finalmente
esce in Italia per Salomone Belforte, antica casa editrice ebraica, il
libro che racconta uno dei più atroci casi del presente antisemita: "24
giorni, la verità sulla morte di Ilan Halimi". Quasi un diario postumo
del rapimento, narrato dalla madre di Ilan, Ruth, ebraica mater
dolorosa, la cui voce è rielaborata con discrezione da Emilie Freche.
Ne esce un racconto in prima persona del rapimento del figlio, della
sua disumana prigionia, della ferocia delle trattative. 20 gennaio, 13
febbraio 2006: ventiquattro giorni in cui Ilan vive
nell'appartamento-mattatoio di un gruppo di orchi metropolitani che
battono bandiera nazi-islamica, che leggono documenti di Hamas, sono in
cerca di soldi facili e facile sangue juive. Intorno, una Francia
inerte e complicemente sorda. E allora, c'è Ilan, sefardita parigino di
ventitré anni, la famiglia di origine marocchina e di modesta
condizione. Vivono in tre stanze di un quartiere popolare misto
dell'est parigino. Lui fa il commesso in un negozio di telefonia della
banlieue, sul boulevard Magenta. La banda di rapitori lo individua come
ebreo, dunque un ricco da sequestrare. Lo sceglie dopo un tentativo
analogo e a vuoto con un altro ebreo, dunque ricco e da sequestrare
anche lui, che fa il commesso nello stesso negozio. Scatta il
sequestro. Una bella ragazza bruna travestita da cliente entra nel
negozio e prende al laccio Ilan. Ne scaturisce un appuntamento. Si
incontrano di sera, a un bar. La ragazza dice di andare da lei per un
ultimo bicchiere. Lasciano la macchina vicino alla facoltà Jean Monnet,
a Sceaux. Camminano nel parco dell'edificio universitario. Si saprà che
a un certo punto lei pronuncia la parola chiave e dai cespugli sbucano
tipi col passamontagna, e saltano addosso a Halimi. Il sequestro ha
inizio. Sono ventiquattro giorni di inutili trattative. La famiglia è
povera, la polizia contraria a trattare e convinta di intrappolare i
rapitori. Il ragazzo intanto è in manette, la bocca incerottata. [...]
Alessandro Schwed, Il Foglio, 3 luglio 2010 |
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notizieflash |
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Il Nabucco a Masada e la manifestazione per Gilad Shalit nella puntata di Sorgente di Vita in onda questa sera
Al
Nabucco di Verdi sotto la rocca di Masada, a pochi passi dal mar Morto,
è dedicato il primo servizio della puntata di Sorgente di Vita di
questa sera, domenica 4 luglio. Con la direzione di Daniel Oren
il canto del popolo ebraico esiliato in Babilonia risuona nel
luogo simbolo della resistenza ebraica contro i romani. Segue la
manifestazione di solidarietà per Gilad Shalit, il soldato
israeliano da quattro anni prigioniero di Hamas a Gaza. A Roma si
spegne il Colosseo, a Milano il castello Sforzesco, e in Israele
migliaia di persone marciano con il padre Noam per chiedere la sua
libertà. In un terzo servizio un’intervista a Simone Veil,
primo Presidente del Parlamento europeo, sopravvissuta ad Auschwitz,
che a Genova ha ricevuto il premio Primo Levi per il suo impegno
nella difesa dei diritti umani e civili. Infine si parla
dell’antica sinagoga di Bova Marina sulla costa jonica della
Calabria, scoperta casualmente nel 1986 durante la costruzione di
un viadotto. Nasce un parco archeologico con un nuovo centro
didattico e un Antiquarium per custodire il mosaico con la menorah e
tutti gli oggetti trovati negli scavi. “Sorgente di vita” va in onda domenica 4 luglio alle ore 1,40 circa su Raidue. La
puntata sarà replicata lunedì 5 luglio alle ore 1,10 circa e
lunedì 12 luglio alle 7 del mattino. I servizi di Sorgente
di vita sono anche online .
p.d.s. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. |
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