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L'Unione informa
 
    9 luglio 2010 - 27 Tamuz 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Rav Shmuelevic’, Rosh Yeshivàt Mir, si fermò a guardare due bambini che confrontavano le rispettive altezze. A un certo punto uno dei due spinse l’altro giù dal marciapiede poi disse: “Ecco ora sono io più alto”. Rav Shmuelevic’ si rammaricò e disse: “Temo per il futuro di quel bambino. Non vi è nulla di male nel voler essere alti ma se per elevarsi è necessario abbassare l’altro vuol dire che dentro si è vili ed arroganti”.
Ditemi che cosa deve fare secondo voi un buon insegnante: “Deve controllare la situazione, essere duro, essere interessante, essere giovane, essere giusto, tenere in pugno la classe, essere in gamba, tenere la disciplina, far capire chi è che comanda, non dare compiti a casa, niente compiti in classe a sorpresa, essere uno che si affeziona agli alunni”.  Dopo qualche minuto fu chiaro che la classe chiedeva disciplina e che si aspettava che la imponessi. “Ora ditemi che cosa deve fare un buon alunno” dissi…Erano eccitatissimi: “Arrivare puntuale, non saltare la scuola, fare i compiti a casa, studiare prima delle verifiche, non parlare durante le lezioni, non scrivere bigliettini, non copiare, …” E’ chiaro che sapete perfettamente come fare per andare bene a scuola quindi è inutile che io perda tempo a dirvi come comportarvi o che cosa fare. Me lo avete detto voi stessi. Adesso sta a voi essere bravi studenti . Mi avete detto anche che cosa devo fare io: ce la metterò tutta e mi aspetto che anche voi facciate lo stesso. Li avevo incastrati. E loro avevano incastrato me. ( L.A. Johnson, Dangerous Mind). A proposito di disciplina a scuola, oltre l’ipocrisia della realtà del  “fai ciò che dico e non ciò che faccio”.
Sonia
Brunetti Luzzati,

pedagogista
sonia brunetti  
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  Una pausa di silenzio

I notiziari di stamane escono in forma ridotta a causa della protesta per la tutela della libertà di informazione indetta dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana e presentano al lettore esclusivamente il contributo dei collaboratori non giornalisti. L'iniziativa determina, in questa giornata, una pausa di silenzio nell'elaborazione delle informazioni d'attualità. I giornalisti della redazione, regolarmente al lavoro per garantire i servizi d'emergenza e la lavorazione delle testate non quotidiane, si scusano con il lettore per ogni eventuale disagio.



 
 
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  anna segre
Se c’è un giorno in tutto l’anno in cui sono straordinariamente felice di appartenere a una esigua minoranza, e non vorrei per tutto l’oro del mondo fare quello che fanno gli altri, quello è il 25 dicembre: cosa c’è di più bello che ritrovarsi con amici ebrei a sciare su piste quasi deserte mentre tutti sono impegnati nel pranzo natalizio? In una città a pochi chilometri dalle montagne sono sicuramente in molti gli ebrei che approfittano di questa circostanza così favorevole da sembrare quasi un privilegio; dunque ritengo che Torino sia uno degli ultimi posti sulla faccia della terra in cui a qualcuno potrebbe venire in mente di organizzare un pranzo natalizio in Comunità, se non altro perché non ci verrebbe nessuno. L’Unione informa di venerdì scorso ha spiegato efficacemente come si è arrivati a questa notizia infondata (tra l’altro impossibile nel 2010, visto che il 25 dicembre sarà Shabbat): il neo designato Rabbino Capo di Torino ha presenziato a un congresso in cui si discuteva di un fatto accaduto in Francia; questo è stato riferito come opinione favorevole espressa da lui, poi come una sua idea; da lì si è passati ad attribuirgli l’intenzione di fare lo stesso a Torino e infine si è arrivati al titolo “La cena di natale in Comunità”. Forse non c’è stata malafede, ma solo qualche approssimazione dovuta alla necessità di sintesi e alla presupposizione che i lettori sapessero già di cosa si parlava, però alla fine un Rabbino e una Comunità ebraica italiana sono stati gravemente diffamati. Sembra di assistere al vecchio gioco del telefono senza fili, in cui ciascuno bisbiglia al vicino quello che ha sentito, che a sua volta bisbiglia quello che ha capito: ognuno ritiene di aver riportato il messaggio il più fedelmente possibile, ma alla fine ne viene fuori uno completamente diverso da quello di partenza.
Una cosa simile era accaduta già un paio di anni fa con una riunione in Comunità organizzata alle 17,30 di un venerdì in cui lo Shabbat entrava alle 21,01. In una lettera di protesta si lamentava che la riunione fosse stata fissata due ore prima della tefillà, ma poi poche righe più avanti si usava l'espressione "a due ore dall’arrivo di Shabbat" e poi ancora “ a ridosso di Shabbat”. Pochi giorni dopo qualcun altro riprendeva il discorso con un esempio israeliano di una cerimonia svoltasi un'ora e mezza prima dell'inizio dello Shabbat (con un’altra mezz’ora di sconto sulla verità) e, riassumendo inizialmente i fatti torinesi, parlava genericamente di "un venerdì pomeriggio", con il rischio che i futuri lettori che non avessero fatto caso alla data potessero addirittura pensare a una riunione convocata di Shabbat. Certo, "tre ore e 31 minuti prima dello Shabbat e due ore prima della tefillà" è troppo lungo e suona male; “a ridosso di Shabbat” o “un venerdì pomeriggio” sono espressioni senza dubbio più efficaci, anche se magari un po’ imprecise.
Quando si discute dell’operato delle istituzioni ebraiche italiane conviene comunque, per farsi un’opinione, provare a risalire il telefono senza fili all’indietro per capire di cosa effettivamente stiamo parlando.

Anna Segre, insegnante


rabelloStiamo arrivando alla fine del libro Bemidbar: è giunto il momento della separazione dalle guide del popolo che tanto avevano fatto: Moshé, Aharon e Miriam: E lì morì Miriam e lì venne sepolta. E non vi era acqua per la congrega… (Bemidbar, 20:1-2).
Un posto speciale ha Miriam, la sorella di Moshé Rabbenu. Siamo alla fine dei quarant'anni di peregrinazione nel deserto, nel primo mese (Rashbam in loco); ci troviamo a Kadesh, nel deserto di Zin (Abarbanel); Miriam se ne va solo dopo aver compiuto la sua missione di preparazione della nuova generazione, quella che dovrà conquistare Erez Israel.
Il periodo del deserto è stato un periodo particolarmente complicato, pieno di inciampi; ma il Midrash rabbà ci racconta che le donne non parteciparono a nessuna rivolta o lamentela della generazione del deserto; esse serbarono nel loro cuore il vivo ricordo della schiavitù egiziana e dell'uscita dall'Egitto e raccontavano i loro racconti ai nipoti e pronipoti (cfr. Hirsh); quella di Miriam, delle mamme e delle nonne era una fonte continua, fonte di acqua viva ma anche fonte spirituale: non a caso secondo i Maestri il pozzo di Miriam prende origine dal Chorev (Ramban). Non verrà mai sottolineata abbastanza l'importanza del lavoro capillare svolto dalle nostre mamme, dalle nostre nonne: senza mettersi in mostra, con modestia: sono le vere custodi di quello che abbiamo di più sacro, la famiglia e con essa la Torat habait. Finché ci sono non ti accorgi della loro opera, tutto sembra così naturale, ma appena morì Miriam non vi era più acqua, ed allora ci siamo resi conto di quanto ricevevamo da lei e da loro, ed allora la loro morte ci invita all'espiazione, ad una purificazione interna.


Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme
 
 
 
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Nella giornata in cui i quotidiani aderiscono, per buona parte, alla protesta promossa dalla Federazione nazionale della stampa italiana, contro quella che per certuni è una «legge bavaglio» e per altri una norma a «difesa della privacy», ci sia permesso di tornare su alcuni passaggi di cronaca che hanno caratterizzato la settimana in corso.  Partiamo dal viaggio di Netanyahu in America. Dunque “Bibi e Barack” hanno fatto la “pace”. Oppure, più prosaicamente, hanno dichiarato agli astanti di non volersi fare nessun tipo di guerra fredda. Il Foglio di mercoledì 7 luglio, infatti, la definisce una 
«prova di armonia». Stiamo parlando dei due più importanti inquilini di Washington e Gerusalemme sul cui rapporto, tra i tanti articoli usciti lo stesso giorno, si vedano quelli di Maurizio Molinari per La Stampa, di Massimo Gaggi per il Corriere della Sera, di Federico Rampini su la Repubblica, di Virginia Di Marco su il Riformista e di Luisa Arezzo per Liberal mentre, nella giornata successiva, ancora una volta Virginia Di Marco per il Riformista. L’incontro di martedì scorso, alla Casa Bianca, ha in parte dissipato la ridda di polemiche e astiose considerazioni che erano andate montando in questi ultimi mesi su una presunta frattura che si sarebbe consumata nelle segrete stanze della diplomazia. Di certo i rapporti tra Stati Uniti e Israele hanno conosciuto tempi migliori (ma anche peggiori) e tuttavia è difficile credere che le solidissime relazioni, consolidatesi in quattro decenni, si possano frantumare in pochi mesi. Piuttosto, potremmo misurare in futuro degli assestamenti, vedremo nel qual caso di quale natura. Né Barack Obama né Benjamin Netanyahu hanno peraltro interesse a animare un conflitto politico dal quale trarrebbero entrambi, a conti fatti, ben pochi utili. Il presidente americano non ha una precisa strategia per il Medio Oriente, limitandosi perlopiù a navigare a vista. Lo ricordava Emanuele Parsi, sempre mercoledì, su la Stampa. Peraltro sconta la conclusione della “fase propulsiva” dei due disegni politici di ampio respiro che l’hanno preceduto, quello negoziale di Clinton e quello muscolare di Bush. Per Obama la priorità ha un nome e si chiama Afghanistan. La presenza in quel paese rischia di rivelarsi una temibile trappola politica, come già era capitato ai sovietici, con la differenza che per il crepuscolare regime di Breznev la pressione alle frontiere da parte dei movimenti islamisti era avvertita come un pericolo concreto mentre per gli americani la permanenza in una landa lontana, che parrebbe essere priva di sostanziale rilevanza strategica, risulta essere sempre meno sostenibile. Il tramonto della prassi della “controinsorgenza”, con l’estromissione, una settimana fa, del suo maggiore sostenitore, il generale McCristal, ne è un segno netto: in sostanza, la Casa Bianca ha preso atto che nessun reale beneficio è derivato dall’avere adottato un criterio che poneva al primo posto il rapporto con i civili e i poteri locali. L’Afghanistan, in sostanza, non cambia, né con i toni duri né con quelli gentili, essendo completamente ripiegato su di sé, terra di continue infiltrazioni da parte pakistana e “giardino di casa” dei talebani, forti, potenti e soprattutto prepotenti in molti province del paese. Non di meno, altra partita aperta per Washington è l’Iraq, dove qualche elemento di beneficio è invece derivato dall’avere riaperto i corridoi e le stanze del potere al vecchio funzionariato baatista, già di osservanza saddamiana ed ora proteso a promuoversi nella nuova realtà postbellica. In realtà si è trattata di una mossa tardiva, dopo la scelta, tanto repentina quanto poco meditata, di escluderlo dall’amministrazione civile con la guerra del 2003. Così facendo, la precedente amministrazione aveva optato per una strada molto onerosa: se ogni cambio di regime implica il reciderne nettamente le articolazioni politiche più rilevanti, facendo decadere la vecchia leadership, non altrettanto può essere fatto con le ramificazioni amministrative. Cosa tanto più difficile nel caso di un partito, il Ba’ath di Saddam Hussein, che di fatto si era identificato in tutto e per tutto con lo Stato, essendo in tale veste riconosciuto dalla stessa popolazione irakena. Il problema del consenso, infatti, non è mai meramente ideologico ma legato a chi tiene in mano la borsa delle risorse pubbliche e le leve della mobilitazione popolare. Boicottando i baathisti di fatto la presidenza Bush si era privata di fondamentali canali di filtro e comunicazione con le comunità locali, dovendo poi subirne gli effetti anche sul piano delle ossessionanti e compulsive violenze che hanno accompagnato la conclusione degli scontri della guerra del 2003. Obama è oramai prossimo al giro di boa della sua presidenza, che si celebrerà con le elezioni di medio termine, a novembre, dove i democratici rischiano molto. Il mantenere uno stato di conflittualità aperta con Netanyahu, trattato ancora tre mesi fa da Hillary Clinton alla stregua di uno studente indisciplinato, non gli gioverebbe in alcun modo. Quanto al Primo ministro israeliano ha, a sua volta, diverse gatte da pelare. Il primo problema è quello legato ad una colazione di maggioranza rissosa e molto divisa al suo interno, con alcune componenti più radicali che puntano apertamente al confronto secco sui tanti temi in agenda: l’Iran, i rapporti con i palestinesi, la politica degli insediamenti in Cisgiordania (ma anche a Gerusalemme), l’atteggiamento verso Hamas, il blocco di Gaza, le risposte da dare alla Turchia ma anche il rapporto con le componenti religiose ultraortodosse interne al paese e, questione non meno spinosa, le politiche sociali. Non è un caso, quindi, se nelle settimane scorse il ministro degli Esteri Lieberman sia stato temporaneamente congelato e sostituito, nell’esercizio del suo mandato, dal laburista Ehud Barak, molto più gradito alla Casa Bianca di quanto non lo sia il leader di Israel Beitenu. Netanyahu è peraltro assai più prossimo a quelle parti del suo governo che vorrebbero trattare di quanto non lo sia un certo numero dei suoi ministri. La sua formazione culturale e politica è depositaria di un lungo rapporto con gli americani, derivandogli in ciò una propensione al pragmatismo che si deve però confrontare con la severa rigidità – motivata anche da inconfessabili calcoli elettorali – di formazioni come lo Shas o lo stesso Israel Beitenu. Se una qualche forma di negoziazione con i palestinesi dovesse riprendere fiato, dopo lo stallo che si è determinato da due anni a questa parte, è possibile che il Primo ministro dovrà andare a cercare nell’opposizione i voti di sostegno, a partire da Kadima di Tzipi Livni, la donna più corteggiata dell’intero panorama politico israeliano. Di fatto l’orizzonte politico dell’esecutivo israeliano si è di molto ridimensionato, riducendosi ad una serie di scelte contingenti in attesa, forse, di sviluppi esterni tali da permettere una iniziativa di un qualche tenore. A settembre alcuni nodi verranno al pettine, soprattutto in merito alla scadenza della moratoria nell’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, come ricorda, tra gli altri, Mario Platero su il Sole 24 Ore. Nelle pagine delle poche testate in edicola oggi si segnalano le riflessioni di Matteo Sacchi, editate da il Giornale, sul nuovo libro di Paul Berman nel merito del rapporto tra intellettuali occidentali e mondo musulmano (ovvero su quella parte più militante che si propone in interlocuzione con le nostre società, a partire da un Tariq Ramadan), mentre Giulio Meotti prosegue il suo viaggio in Israele e nei Territori palestinesi resocontandolo su il Foglio. Segre, infine, ci offre, ancora una volta su il Giornale, alcune puntuali riflessioni sulle trasformazioni della Turchia di Erdogan, nel contesto dei problemi che Glauco Maggi pone, a sua volta, in rilievo su Libero.

 

Claudio Vercelli

 
 
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