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    12 luglio 2010 - 1 Av 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Mentre inizia il mese di Av, l'attenzione si dovrebbe concentrare sui drammi della nostra storia. Le pagine dei libri di tefillà di questi giorni sono piene di testi speciali, le qinòt, elegie composte per ricordare i tristi eventi, che verranno lette il 9 di Av. E' un modo molto particolare e abbastanza eccezionale con cui la nostra tradizione ha reagito al negativo. Il nucleo centrale di questi testi è nell'opera di un poeta di cui poco si conosce, Elazar al Qalir. Il resto è una catena ininterrotta di testi sefarditi, ashkenaziti, italiani. Sono testi a volta molto tecnici nella costruzione poetica, a volte poco chiari, altre volte drammatici come un pugno nello stomaco per quello che dicono. Spesso sono cantati con melodie struggenti. I vari riti pescano in questa tradizione, facendo  ciascuno la sua selezione. Tra i testi medievali ci sono quelli che raccontano i massacri dei Crociati. Dopo la Shoà è stata composta qualche nuova qinà, che fatica ad entrare nelle abitudini consolidate, proponendo il problema di come unire vecchio e nuovo. Qualche anno fa ci fu una polemica a Torino (non è una novità) contro il rabbino capo che non gradiva l'inserimento di un testo in ricordo della Shoà e della rivolta del Ghetto di Varsavia durante la cena del Seder. E' interessante notare che proprio a Torino, non si sa da quando, la lettura tradizionale delle qinòt è stata abolita nella preghiera del mattino, per essere sostituita da un formulario speciale a mezzogiorno (autorevole ma molto più recente). Strane contraddizioni in cui si fa fatica a mettere le cose giuste al momento giusto.
E' successo solo quindici anni fa. Il massacro di Srebrenica, oltre ottomila uomini bosniaci assassinati dai serbi di Mladic, un massacro che la Corte Internazionale di giustizia dell'Aia ha definito nel 2007 con il termine, carico di implicazioni dal punto di vista del diritto internazionale,  di "genocidio", è iniziato dopo la resa ai serbi di  Srebrenica, l'11 luglio 1995, nell'indifferente complicità dei caschi blu dell'ONU, olandesi,  che avevano il compito di proteggere i bosniaci. E ieri è stato commemorato con la sepoltura dei resti di  775  vittime, esumate dalle fosse comuni e identificate con il test del DNA, che si aggiungono alle altre 3749 che hanno già  trovato un nome e una sepoltura nel cimitero di Potocari. Gli altri, sono ancora senza nome. Alla cerimonia di ieri era presente anche il presidente serbo Tadic, che ha elevato un appello alla riconciliazione e si è impegnato a cercare (sic!)  Mladic, finora protetto da Belgrado, e a consegnarlo al tribunale internazionale. Ricordo questi fatti ben noti, e la cerimonia di ieri, perché, stranamente, non ne ho trovato traccia nella rassegna stampa dell'UCEI di ieri. L'agenzia che cura la rassegna stampa non ha evidentemente pensato che fosse una notizia significativa per gli ebrei. Eppure, se è vero che i genocidi riguardano tutti,  forse, proprio per la loro storia,  possono coinvolgere in particolare gli ebrei. Sembra ovvio, ma forse bisogna ribadirlo. E possiamo farlo con le parole di Eli Wiesel, che nel 1993, quindi prima di Srebrenica, all'inaugurazione del Museo dell'Olocausto a Washington, si rivolse all'allora presidente Clinton e gli disse di essere stato nell'ex Jugoslavia e di non riuscire a dormire per quello che aveva visto. "Qualcosa deve essere fatto, qualcosa dobbiamo fare per fermare le uccisioni" gli disse.  Anna
Foa,

storica
Anna Foa, storica  
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  Quali rabbini, quale futuro - Da Torino a Gerusalemme

BirnbaumIn un caldo pomeriggio gerosolomitano ho incontrato, nel suo studio, il professore Michael Corinaldi, che da tempo mi cercava. Corinaldi è senza dubbio la persona, in Israele, più impegnata, in diversi campi, a sensibilizzare l'opinione pubblica al riguardo dell'ampio panorama dei gruppi che costituiscono o hanno costituito, in epoche lontane, il Popolo di Israele disperso ai quattro angoli della terra. Per più di due ore ho assaporato l'avvincente racconto, per così dire, del professore sulla sua ormai lunga attività di giurista, di studioso e, più di tutto, di partecipe combattente della causa delle più svariate "tribù" ebraiche, dai Caraiti agli ebrei etiopici, nelle due componenti del "Beta Israel" e dei "Falashmura", dai Sobotnik russi ai "Marrani" iberici o di altrove. In una recente riunione in Spagna si sono proposte diverse denominazioni political correct da sostituire allo storico, dispregiativo, termine medioevale, tramandato, nei secoli, di generazione e generazione, da questi ebrei nascosti, che, attualmente, anche nella nostra Italia, sono al centro dell'attenzione non solo delle comunità ufficiali. Il professore ritiene che il compito impellente attuale sia la ricerca e l'avvicinamento dei fratelli che hanno scoperto le proprie radici, in molteplici maniere, più che tendere ad un proselitismo "fantasioso" in remote regioni africane o asiatiche, dove si sono "scoperte" popolazioni con tenui segni di "ebraicità" di dubbia provenienza. Se nel mondo la problematica è diventata uno dei temi della scena ebraica di questo terzo millennio, nello Stato di Israele, lo status personale di centinaia di migliaia di nuovi 'olim, soprattutto dall'ex-Unione Sovietica, è uno dei punti più scottanti dell'agenda politica, motivi di scontri ideologici e partitici ben lungi dall'essere risolti. Lungo questa conversazione di estremo interesse, quale filo conduttore, è emersa la nostra individualità di membri della collettività italo-israeliana, di figli di una comunità ebraica, che da più di un secolo e mezzo è stata attiva per aiutare e far conoscere I fratelli dell'Etiopia, da Filosseno Luzzatto, lo studioso della loro lingua, a rav Margulies, Il Maestro della Rinascita del primo Novecento al suo discepolo Carlo Alberto Viterbo, l'indomito combattente della causa dei "Beta Israel". Michael Corinaldi, senza alcun dubbio, rappresenta un ulteriore anello di una lunga catena, anche come autore di scritti divenuti testi di riferimento basilare sugli ebrei etiopici e sugli aspetti giuridici delle edot, non per caso. Suo padre, l'ingegnere Corrado z.l. salì nel '33 in Eretz Israel, dove poco dopo fu unito in matrimonio con la dottoressa Nella Pavia di Milano, dal Gran Rabbino Avraham Izchak Kook z.z.l. Lo aveva indotto a questa scelta di vita, l'insegnamento e l'esempio di Alfonso Pacifici, il grande animatore del ritorno all'ebraismo integrale, discepolo del rav Margulies.
Dallo studio il professore mi ha gentilmente portato al Beth Hakeneset italiano di Rehov Hillel, dove ero stato invitato per il termine dell'anno delle attività culturali della Kehillah degli italkim. I sopraggiunti mi hanno accolto: "Torino ha un nuovo rav! Il rav Eliahu Birbaum''. Coincidenza. Corinaldi me lo aveva appena nominato come rabbino dell'Associazione dei "Shavei Israel", il cui scopo è di raggiungere gli ebrei dispersi ai quattro angoli del mondo…Come costantemente vicino alla mia collettività di origine e alla Comunità di Torino, in particolare, la notizia mi ha indotto a una profonda riflessione, auspicando un superamento di fratture che hanno tormentato fin troppo i miei fratelli subalpini.

Reuven Ravenna


Qui Torino - Il Consiglio: condanna per le falsità su rav Birnbaum


Giorgina Arian Levi - “Libertà e democrazia sono l’unica strada"

Birnbaum“Libertà e democrazia sono l’unica strada per una società sana”. Il tempo scorre, ma la determinazione è rimasta la stessa. Giorgina Arian Levi, a un mese dal suo centesimo compleanno, sottolinea ancora una volta la necessità dell’impegno civile, della lotta all’antisemitismo, al razzismo e all’ignoranza. La battaglia di una vita insomma, celebrata giovedì scorso con la consegna da parte del sindaco Sergio Chiamparino del prestigioso Sigillo Civico nella Sala Rossa del Comune di Torino. Una sala gremita di familiari, amici, colleghi; una sala che cinquant’anni prima (fra il 1957 - 1964) vedeva Giorgina, nella veste di consigliera comunale del Pci, lottare per i diritti dei più deboli, per l’integrazione degli immigrati o per la tutela degli operai. Una ebrea militante che però nel 1939, a causa delle leggi razziali, dovette lasciare la sua Torino per emigrare in Bolivia. Lì si dedicò per quattro anni all’insegnamento dei figli dei contadini indios e dei minatori, sempre attenta ad aiutare le fasce più deboli della popolazione, per poi spostarsi all’Università di Sucre e La Paz. Tornata in Italia, Giorgina si dedicò alla politica e alla sua passione, l’insegnamento, divenendo professoressa al Liceo Gioberti.
I suoi molteplici interessi e impegni non affievolirono il suo legame con l’ebraismo e i suoi valori. “Emblematico - ricorda Tullio Levi, presidente della Comunità di Torino - che già la sua tesi, discussa nel 1933 presso la Regia Università di Torino si intitolasse ‘L’evoluzione scociale politica degli ebrei in Piemonte, dalla rivoluzione francese all’emancipazione’; quasi a voler condensare - continua il presidente -  in quel suo primo studio gli interessi che avrebbero costituito il fio conduttore di tutta una vita: una vita da protagonista dell’intera vicenda del ventesimo secolo”.
Giorgina è stata a lungo Consigliere della Comunità Ebraica di Torino, partecipando alla creazione e dirigendo per oltre vent’anni la rivista del Gruppo di studi ebraici, Ha-Keillah. E oggi ospite, presenza importante della Casa di Riposo della Comunità Ebraica torinese.
Religione, istituzione, scuola, sono i tre mondi della vita di Giorgina. “Una donna - afferma il sindaco Chiamparino - con una forza di volontà impressionante; capace di ascoltare e raccontare una storia lunga un secolo”. E, come sostiene il presidente del Consiglio Comunale Giuseppe Castronovo, un punto di riferimento per molte generazioni. Testimone della furia del nazifascismo, Giorgina ha portato a lungo nelle scuole la sua esperienza, parlando di rispetto, di tolleranza, di dignità delle persone con gli studenti. “Con i giovani ha sempre avuto un legame speciale - commenta Chiamparino che poi ricorda come - i cento anni di Giorgina sono un regalo per tutta la città”. Un sentito ringraziamento arriva dal presidente Levi “per la sua costante dedizione ebraica e civile e con l’augurio che possa continuare ancora per molti anni in salute e serenità e che la sua coerenza ed il suo impegno possano servire da esempio per le nuove generazioni”.
Consigliera comunale, parlamentare del Partico comunista italiano, leader della Comunità ebraica, saggista, insegnante, testimone, sono stati cento anni intensi quelli vissuti da Giorgina che, commossa ed emozionata, ha voluto ringraziare i presenti. “Sono grata alla mia città - ha spiegato Giorgina, dopo aver ricevuto dal sindaco il Sigillo Civico - sono nata nell’austera e bella Torino; qui ho combattuto in favore delle minoranze, ho lavorato per anni perché questa città diventasse per tutti e di tutti. In un secolo di vita ho potuto vivere con determinazione e impegno, testimoniando nelle scuole contro il razzismo e l’antisemitismo. Vorrei ricordare che la libertà e la democrazia sono l’unica strada per costruire una società sana”.

Daniel Reichel


Giorgina Arian Levi - La storia di un quadro

GiorginaOspite nella Casa di Riposo Ebraica di Torino da quasi dodici anni, consumo i miei pasti nel luminoso ampio salone da pranzo, occupato da tre file di tavoli a quattro posti. Il primo giorno, libera di scegliermi una compagnia gradita, senza esitazione mi sedetti al primo tavolo presso la signora Ada Jona, che era stata una cara amica di mia sorella. Conservai quel posto per molto tempo, fino a che mi incontrai con una nuova ospite, la ultranovantenne energica Jole Luzzati Segre, madre di un compagno di partito. La nuova ospite era stata riluttante a lasciare la sua abitazione e aveva accettato il trasferimento soltanto per esaudire il desiderio dei figli lontani di lasciarla fra persone amiche e protetta. Per rasserenarla, mi sedetti al suo tavolo e fino alla sua morte godetti della sua amicizia e della sua grande intelligenza.
Mi resi conto allora che, fino a quando le forze me lo avessero permesso, avrei potuto contribuire a interrompere dolorose solitudini e acquistare nuove amicizie spostandomi presso quegli ospiti che per vari motivi erano rimasti soli durante i pasti. Così, anno dopo anno, ho cambiato ben otto tavoli, spostandomi casualmente verso il fondo del salone.
Ora occupo da molti mesi uno dei due tavoli appoggiati a due mezze pareti divisorie, insieme a un caro parente. Di lì ogni tanto volgo distrattamente lo sguardo verso un dipinto appeso alla mia sinistra, uno dei pochi sparsi nel salone che ho sempre immaginato fossero residui di donazioni. Rappresenta un Sefer Torà aperto su due colonne del testo, con la fascia gialla dai motivi floreali rossi appesa a uno dei supporti dei due rotoli, e ai piedi, morbidamente adagiato su un divano verde, il manto di velluto nero che reca la scritta in ebraico, ricamata in oro: "onore alla Torà". Circa due mesi fa ebbi la curiosità di conoscerne l’autore e cercai la firma. E fui assai stupita di scoprire che era quella, ben nota a molti ebrei torinesi, di Mauro Chessa, che fu mio allievo al ginnasio e con il quale conservo tuttora una viva amicizia. Incuriosita, gli chiesi informazioni per email. E Mauro per altrettanta via mi inviò la seguente breve storia del quadro e dei sentimenti che lo accompagnarono: "... si trattava di una mostra organizzata allo Spazio Bolaffi per raccogliere fondi per il restauro del tempio piccolo della Comunità... So che un quadro analogo (stesso soggetto Sefer Torà) dei quattro che avevo dipinto, fu esposto in Svizzera nel 1996.
Il soggetto era estremamente interessante e il rotolo con la custodia e una sciarpa bellissima (senza la corona però...) mi era stato prestato dalla Comunità, dopo una richiesta al rabbino di Roma, per sapere se un goy come me poteva avere il permesso di dipingerlo. Si trattava di un Sefer Torà non più valido e quindi il permesso mi fu dato.
Non ti nascondo che, nonostante il mio laicismo a tutta prova, la presenza di quest’oggetto, così carico di significati, mi aveva suggestionato, ed è per questo che dipinsi ben tre versioni, di cui una fu donata alla Comunità, ed è quella che tu conosci. Non escludo, conoscendo l’autore, che egli si ripromettesse magari lauti acquisti da parte di facoltosi membri della Comunità, ma non se ne fece mai nulla e gli altri tre quadri giacciono, coperti di polvere, nel mio studio..."
La sottoscritta allora ha sottratto alla polvere almeno uno dei suggestivi quadri di Mauro Chessa per offrirlo in dono all’unico fra i suoi nipoti che conosce molto bene l’ebraico e sa leggere la Torà.

Giorgina Arian Levi

(HaKeillah - giugno 2003 / Sivan 5763)


Giorgina Arian Levi - Il terrore in un quadro

copertinaNel luglio scorso ho villeggiato durante alcuni giorni a Coazze, località montana piemontese, rinomata per il suo grandioso parco municipale, dove nella bella stagione il Comune è solito organizzare frequenti manifestazioni culturali di alto livello. Fra quelle a cui ho assistito mi ha particolarmente interessato una mostra di pittori, che esponevano alcune loro opere all’ombra dei frondosi alberi e nello stesso tempo stavano dipingendo un nuovo soggetto ispirato per lo più da particolari dello spettacolo naturale che si offriva ai loro occhi.
A un certo punto mi fermai stupita e turbata da una improvvisa visione di Israele. Collocata su un cavalletto, fra numerosi altri quadri dai colori vivacissimi ispirati a temi relativi all’Oriente asiatico, mi trovai di fronte alla descrizione solitaria di un inconfondibile, drammatico e angosciante particolare dell’Israele di oggi. In un’atmosfera dai colori scialbi, smorti, occupa quasi tutto lo spazio della tela una strada grigiastra costeggiata da un desolato edificio diroccato, e in lontananza, l’ingresso della città di Hebron, occupato soltanto da un grande veicolo militare e da alcuni soldati.
Domina interamente il primo piano, e ne occupa tutto lo spazio, una tipica famiglia di ebrei ortodossi: un giovane, un padre, una madre che spinge una carrozzina e a fianco due bionde bambine, tutti con abiti neri. È un nero accentuato dal candore della gonna della madre, dalle camicette sotto lo scamiciato lungo fino ai piedi delle bambine, dalla kippà degli uomini, e, particolare più sconvolgente, sul candore dell’ampio scialle rituale che avvolge il dorso del padre un poderoso mitra nero, a tracolla. Questo particolare colpisce violentemente per la contraddizione implicita tra il vestimento religioso e lo strumento di morte, indice dello stato d’animo delle famiglie israeliane, soprattutto quelle abitanti nei territori occupati, pronte a sparare al minimo indizio di pericolo.
Desiderai conoscere l’autore del quadro e i motivi che l’avevano spinto a scegliere di Israele una scena così inquietante. Era presente: una pittrice francese, Marie Christine Stenger (nell'immagine un suo dipinto), residente nel nostro Piemonte, che ha desiderato prolungare il colloquio con una visita a casa mia. Ho così appreso che, studiosa di antropologia e appassionata viaggiatrice, ha inteso nelle sue opere dare valore alla gente perseguitata, raffigurata anche negli altri quadri, quali, ad esempio, monaci e donne del Tibet, l’afgano Massud ucciso da Bin Laden, e un suo seguace che prega.
La scena del quadro risale al 25 dicembre del 2000: era un sabato pomeriggio e sulla strada deserta per Hebron Christine ha visto quella numerosa famiglia – in realtà c’erano anche due ragazzini – e ha voluto rappresentarla mentre vive in un clima di permanente violenza e terrore. Lo stesso clima in cui probabilmente vivono i palestinesi di Hebron.

Giorgina Arian Levi

(Ha Keillah - dicembre 2003 / Kislev 5764)


Giorgina Arian Levi - Un secolo di ricordi

copertinaPiù di una volta, nelle infinite testimonianze portate nei convegni, nelle scuole, tra i giovani, Giorgina Arian Levi ha ricordato vicende della sua lunga vita, quasi entrate nella leggenda, ha parlato delle sue molteplici esperienze, delle sue lotte, dei suoi ricordi, ha raccontato episodi della sua gioventù.
Poco più di un anno fa ricordo di averle chiesto di fissare alcuni di questi momenti sulla carta stampata: davvero lo meritavano.
I suoi ultimi libri, in fondo, avevano raccontato pagine di storia. È vero che si trattava in qualche modo anche della sua storia, perché Simeone Levi, personaggio eclettico dell’ebraismo piemontese, è un suo antenato, la famiglia Montagnana rappresenta il ramo materno da cui proviene, l’emancipazione ebraica e la storia degli ebrei del Piemonte nel momento dell’uscita dai ghetti fanno parte della sua storia personale, perché ancora suo padre le ha lasciato un ricordo vivo dei familiari vissuti nel ghetto di Torino e lei stessa aveva dedicato nel 1933 la sua tesi di laurea alle vicende degli ebrei nel Regno sardo.
Ma di lei, della sua testimonianza umana, di donna da sempre impegnata tra storia e politica, a eccezione delle memorabili pagine sul suo esilio in Bolivia descritte nel libro Avrei capovolto le montagne, Giorgina non aveva scritto quasi nulla.
Eppure, il suo coraggio, le sue battaglie, la sua fierezza, la sua energia, il suo esempio, erano e sono noti a tanti, ma non abbastanza. Bisognava dunque che quei ricordi fossero tradotti in libro.
È nato così Tutto un secolo, un libro di memorie, ma non solo.
Quando, agli inizi del 2004, le avevo suggerito di scriverlo, Giorgina aveva tentato una timida resistenza, dicendo che era stanca, che aveva superato i novant’anni e che un altro libro le costava fatica. Ma intanto, mentre rispondeva così, stava lavorando alacremente alla trascrizione di una lunga intervista che lei stessa in quei mesi aveva registrato con Nina Montedoro, la cui storia l’aveva appassionata a tal punto da invitarla a ripercorrerla tutta.
Forse proprio l’incontro con Nina Montedoro e il racconto che ne è nato ha costituito per Giorgina lo stimolo per scrivere ancora, per fissare anche taluni suoi ricordi personali di vita vissuta.
Lei ha così scelto di scrivere frammenti della sua gioventù e della sua vecchiaia, due momenti fondamentali di un’esistenza unica, ricca di esperienze, vigile su tutto quello che le accadeva e le accade intorno, sempre attentissima a quello che si muove nella società, ai grandi temi del dibattito politico-sociale, ai giovani, tra i suoi interessi dominanti.
In poco tempo si è allora messa a scrivere di getto e sul suo modernissimo computer portatile, a 94 anni compiuti, ha evocato alcuni di quegli episodi che talvolta ha raccontato a platee di studenti.
I ricordi sono usciti nitidissimi: nomi, date, giochi, parlate, dettagli, le sono affiorati alla mente e sono comparsi sulla carta.
Ha descritto pagine della sua infanzia di bambina nella prima guerra mondiale, il suo ginnasio, la scuola frequentata in pieno fascismo, i suoi incontri e scontri con i professori che più amava, le sue speranze, i suoi dubbi, la sua vita quotidiana.
Quella vita quotidiana che è stata fertile terreno per il formarsi della coscienza morale, civile e politica di Giorgina Arian Levi, che in fondo si è sempre occupata poco di sé e molto degli altri, con un impegno e una passione vera per tutto quanto la circonda, per l’educazione e il mondo della scuola, per i giovani e le donne, per il movimento operaio e i popoli oppressi, per chi è straniero, per il mondo ebraico, grande amore di una vita, ma soprattutto degli ultimi trent’anni.
“Un aspetto - scrive Giorgina Levi nelle sue pagine - per me fondamentale dell’educazione ricevuta sin dall’infanzia dai miei genitori, ma soprattutto evidentemente dalla mamma, è stata la libertà”. E sarà proprio la ricerca della libertà una delle costanti di tutta la sua vita.
Infanzia e vecchiaia: nel libro si assiste ad un salto di oltre mezzo secolo, che la porta dagli anni Venti, quando, giovane ebrea, frequentava il liceo, agli anni Novanta, allorché si trova a vivere nella Casa di Riposo Ebraica di Torino, dove nasce un piccolo diario, appunti veloci, storie di ospiti.
Qui avviene l’incontro con Nina Montedoro, l’indomita ebrea proletaria, come la definisce Giorgina, che giorno dopo giorno la registra, come sa fare lei, vera appassionata della testimonianza orale, affascinata dall’intelligenza e dall’operosità di “questa piccola donna ebrea di 86 anni, dagli splendidi occhi azzurri”.
Il libro termina con una testimonianza del suo impegno politico-culturale: una lezione sull’antisemitismo, un osservatorio sul pregiudizio duro a morire e sui punti di convergenza tra i valori dell’antifascismo e quelli dell’ebraismo.
L’impegno, il rigore e la passione di Giorgina continuano, nuovi scritti l’attendono.
L’augurio che tutti oggi le facciamo è di continuare a raccontarci, a testimoniare, ad essere con noi per molti e molti anni ancora.

Giulio Disegni

(Ha Keillah - ottobre 2005 / Tishrì 5766)

 
 
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  Spinoza e la libertà di stampa

donatella di cesareLe pagine con cui si conclude il Trattato teologico-politico sono dedicate alla libertà di espressione e di stampa. Nel 1665 Baruch Spinoza iniziò a scrivere la sua grande opera che fu pubblicata a Amsterdam nel 1670. Facendo tesoro della tradizione ebraica riuscì a delineare un modello di convivenza politica ed etica che ha ispirato la migliore modernità.
Il capitolo conclusivo del Trattato ha un lungo ma efficace titolo: «Si mostra che in un libero Stato a chiunque è lecito pensare ciò che vuole e dire ciò che pensa». La tesi di Spinoza è che «ci sono tante differenze di teste quante di palati». Se fosse facile comandare sia gli animi sia le lingue, allora regnerebbe la sicurezza, ma «ciascuno vivrebbe secondo il volere di coloro che comandano». Così verrebbe però usurpato un diritto inalienabile, un «diritto a cui nessuno, anche se volesse potrebbe rinunciare». Che ne sarebbe della democrazia dove tutti hanno pattuito di agire in comune, ma non di giudicare e ragionare allo stesso modo?
Dato che nessuno può rinunciare a questo diritto, su cui si fonda la libertà, «segue» che avrà un «esito infelice» qualunque tentativo di limitare la libertà di opinione e di stampa. Perciò per Spinoza è «violentissimo quello Stato in cui si nega la libertà di dire». E oltre a essere violento diventa anche «instabile». Le leggi contro la libertà di dire, di scrivere, di stampare, non solo sono «inutili». Hanno un difetto ancora più grave: sono fatte non contro i malvagi, ma contro coloro che sono liberi e leali. Chi si opporrà a qualsiasi decreto che voglia limitare o togliere la libertà di parola? Risponde Spinoza: «Non gli avari, gli adulatori e gli altri di animo debole, la cui massima soddisfazione consiste nel contemplare il denaro che hanno in cassaforte e nell’avere la pancia piena, ma coloro che la buona educazione, l’integrità dei costumi e la virtù hanno reso più liberi».

Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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Museo della Shoah, dieci anni di storia
Ancora il progetto definitivo non è stato iniziato ma il museo nazionale della Shoah a Roma può vantare già una storia ultradecennale. E di certo farà ancora parlare di sé, visto che le proteste di qualche oppositore in Consiglio comunale si sono fatte sentire anche alla vigilia della presentazione ufficiale del progetto, lo scorso 30 giugno, criticando lo stanziamento di 13 milioni nel bilancio capitolino.  [...]
Massimo Frontera, il Sole 24 ore, 12 luglio 2010

Negoziati diretti con Israele. Abu Mazen: è troppo presto
Negoziati diretti fra Israele e palestinesi non sono per il momento all'ordine del giorno. Con questo messaggio lanciato da Ramallah il presidente palestinese Abu Mazen ha ieri raggelato le speranze di Barack Obama e di Benjamin Netanyahu di rilanciare in tempi brevi le trattative di pace. [...]
Aldo Baquis, La Stampa, 12 luglio 2010 

Da Enerqos nasce Gem Solar, joint-venture in Israele
Si chiama Gem Solar la joint-venture paritetica a cui l'italiana Enerqos ha dato vita assieme alle israeliane Ginergia e Menorah nel campo dell'energia rinnovabile.  [...]
S.Rig., Corriere Economia, 12 luglio 2010 

 
 
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Il Museo d'Israele rinnovato apre i battenti                                      
Gerusalemme, 11 lug -
Il Museo d'Israele di Gerusalemme è stato oggetto di un'imponente lavoro di restauro e rinnovo. L'ambizione oggi è raccontare la storia delle Stato ebraico dalla preistoria alle neoavanguardie, dall'archeologia alle installazioni dell'arte contemporanea, dal patrimonio ebraico alle diverse declinazioni della tradizione monoteistica (cristianesimo, islam) e ai suoi influssi sulla cultura dell'Occidente e del resto del mondo. L'imponente intervento di risistemazione avviato e concluso nel giro di tre anni conferma il Museo, istituzione simbolo del Paese, scrigno d'una delle collezioni di opere e oggetti fra le più vaste al mondo. Il rinnovo consiste anche in un incremento dai 50 mila agli oltre 58 mila metri quadrati delle superfici espositive disseminate su un'area di 20 acri. L'inaugurazione ufficiale è prevista per il 21 luglio.
 
 
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