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L'Unione informa
 
    13 luglio 2010 - 2 Av 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto della rocca Roberto
Della Rocca,

rabbino
In questi giorni di calura nei quali sono in molti a lasciare le città  durante i week end per rifugiarsi al mare i Batè Ha keneset delle nostre Comunità si svuotano e in molti casi il miniàn dello Shabat è costituito in gran parte dai turisti di passaggio. In questo scenario di smobilitazione, che vede tuttavia una progressiva apertura di centri di preghiera e di studio in diverse località di villeggiatura, a Roma si può registrare una singolare eccezione, quella del Bet Shalom, una sinagoga in zona Marconi, i cui frequentatori accorrono al Bet Ha keneset nei mesi di luglio e agosto forse più che in altri periodi dell'anno. Durante lo shabat pomeriggio si condivide una gioiosa seuda shelishìt (terzo pasto sabbatico) con tanto di challòt, vino e e cibi di ogni tipo, il tutto accompagnato da canti e parole di Torah. Ma la cosa più suggestiva è vedere una ventina di ragazzi che, anziché passare il sabato pomeriggio in spiaggia o in altri luoghi di svago come fanno quasi tutti i loro coetanei, si riuniscono per studiare la Mishnà e alcune Halakhòt. In un panorama nazionale dove l'educazione e la cultura ebraica sono un po' in ribasso si scoprono delle isole di eccezione nelle quali si assiste a un fermento religioso e identitario che parte dal basso, forse un po' distante da quelli che sono i grandi progetti e ragionamenti all'ordine del giorno del dibattito nazionale, ma che può richiamarci a quell'autenticità e a quella genuinità che troppo spesso l'ideologia e la politica comunitaria ci fanno perdere di vista. 
Il caso è una facile spiegazione dell'ignoranza delle leggi dell'universo.  Vittorio Dan
Segre,

pensionato
vittorio dan segre  
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  L'estasi della felicità in un francobollo

FrancobolloPuò capitare, passeggiando sul lungomare di Tel Aviv, di imbattersi in un gruppetto di chasidim con la barba lunga e la kippah bianca che ballano musica techno sul tettuccio di un furgone, cercando di coinvolgere gli stupefatti passanti nella loro danza ispirata: uno squarcio di religiosità postmoderna.
I Breslav sono una delle sette chassidiche più appariscenti e folkloristiche che si possono trovare in Israele, nonché la più aperta e tollerante nei confronti del mondo ebraico laico o assimilato.
Le poste israeliane hanno deciso di rendere omaggio ai Breslav e al loro fondatore, il rabbi Nachman: nel duecentesimo anniversario della sua morte viene stampato un francobollo (nell'immagine) che raffigura una riunione di chasidim Breslav sulla tomba del rebbe. Sullo sfondo si staglia la sinagoga di Uman, la cittadina ucraina che diede i natali a rav Nachman nel 1772.
Pronipote di Baal Shem Tov, il fondatore del chasidismo, rabbi Nachman dimostrò precocemente un notevole carisma spirituale. Portatore di una fede incrollabile, visse la sua esperienza religiosa accentuando i toni gioiosi e vitalistici di essa. In poco tempo radunò un cospicuo numero di seguaci e comincio a viaggiare attraverso l'Europa orientale portando in giro il suo messaggio di gioia ed entusiasmo. “Essere sempre felici è una grande mitzvah”, sosteneva, “l'unico vero peccato è la tristezza, lo scoramento”.
La sua più grande dote spirituale era quella di scorgere una scintilla di santità in ogni cosa. Poneva grande enfasi sulla mitzvah della gioia: il rapporto con il Creatore e con il creato, nel sua visione mistica, deve generare un perenne entusiasmo nel cuore del fedele, un sentimento di giubilo, di amore per la vita, il quale si esprime attraverso la musica e la danza.
La chasidut Breslav nacque a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo quando i seguaci di rav Nachman furono allontanati dalla comunità ortodossa per via dell'adorazione cultuale del rebbe, la quale continua ancora oggi.
Sono decine di migliaia le persone che nel terzo millennio dell'era volgare seguono la filosofia di rav Nachman di Breslav, che unisce la fede e la gioia. Egli però non volle fondare una dinastia chassidica, pratica comune tra queste comunità. Quando morì di tubercolosi, neanche quarantenne, nel 1810, si rifiutò di nominare un successore. "Non aspettate nessun altro rebbe", disse ai suoi discepoli, "fino alla venuta del Messia rimarrò io la vostra guida".
Ancora oggi i Breslav non hanno un maestro guida, se non lo spirito di rav Nachman. Questo ha attirato su di loro il soprannome di 'chasidim morti' perché fanno riferimento ad un rebbe defunto e non intendono sostituirlo. Ma culturalmente sono tutt'altro che morti: nel mondo del chasidismo, la loro attività di diffusione della spiritualità e della felicità che l'accompagna è tra le più visibili, soprattutto in Israele.
La setta è storicamente in competizione con quella Lubavitch per il primato nel mondo chassidico e per le attività di proselitismo. I Breslav perseguono l'obiettivo di rendere il mondo un posto migliore, sconfiggendo il male, diffondendo il loro messaggio di gioia e cercando di avvicinare gli uomini a Dio. Oggi portano avanti la loro missione in tutto Israele e anche in grandi metropoli della diaspora con una significativa presenza ebraica come New York, Los Angeles, Parigi e Montreal.
Un momento cruciale della vita di questa comunità chassidica è il Rosh Hashana kibbutz. "Il mio Rosh Hashana è la festa più grandiosa" soleva dire rabbi Nachman. "Chiunque creda in me deve passare Rosh Hashana in mia compagnia, questo è il nucleo della mia missione". "I seguaci che visiteranno la mia tomba e faranno tzedakah in mio onore", disse inoltre "cancelleranno tutte le loro colpe. Io li tirerò fuori dalla Gheenna per le pe'ot".
Dal capodanno ebraico del 1811, il primo dopo la morte del rebbe, viene organizzato un pellegrinaggio annuale sulla sua tomba a Uman. Oggi, a Rosh Hashana, più di ventimila persone provenienti da tutto il mondo si ritrovano a Uman per onorare rabbi Nachman e festeggiare insieme l'inizio del nuovo anno.
Proprio l'occasione del capodanno sulla tomba del rebbe è stata scelta dalle poste israeliane come la manifestazione più caratteristica da raffigurare per rendere omaggio al grande maestro e ai suoi seguaci, che tanta parte hanno nello sviluppo spirituale del paese.
Il maggiore lascito di rav Nachman di Breslav è il suo approccio emozionale al culto, la valorizzazione della spontaneità e delle esternazioni entusiastiche: compito dell'uomo è servire Dio con cuore sincero e coinvolgere i suoi simili nella gioia mistica che ne deriva.

Manuel Disegni


Benayoun, prime parole da giocatore del Chelsea
 
BenayounYosi Benayoun, capitano e giocatore di maggior estro della nazionale di calcio israeliana, a distanza di alcuni giorni dal suo trasferimento al Chelsea campione di Inghilterra, parla e si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Il motivo del passaggio al dream team di Abramovich che ha fatto inferocire i tifosi del Liverpool? “Tutta colpa di Rafa Benitez”, spiega Yosi. Che attacca senza giri di parole il suo vecchio allenatore: "Non mi ha mai trattato con rispetto. Quando giocavo bene non mi mostrava mai fiducia e anche quando segnavo mi aspettavo sempre di restare fuori alla partita successiva. Quando poi i tifosi invocavano il mio ingresso in campo, mi diceva che non capiva perché lo facessero". Un rapporto teso quello tra i due, che in questa sessione di mercato è sfociato in una separazione inevitabile: Benitez ha preso un aereo per Milano, il Benayoun furioso, quando la scelta italiana di Rafa non era ancora ufficiale, è volato a Londra. Con la casacca dei Blues insegue obiettivi ormai irraggiungibili per il flaccido Liverpool degli ultimi tempi. Yosi vuole vincere campionato e Champions League (“we can do it”) e far parte dei Carletto Boys, i fedelissimi di Carletto Ancelotti. Anche se non chiede garanzie tattiche quanto umane. “Per me è importante sapere che sarò trattato con rispetto, non sono così stupido da pensare che giocherò ogni settimana”. La tappa londinese è il punto più alto di una carriera in crescita costante.  Dal deserto del Negev al prato di Stamford Bridge, quello che è comunemente chiamato il bimbo di Dimona (sua città di nascita), a 30 anni suonati ha la possibilità concreta di scrivere il proprio nome nella leggenda diventando il primo israeliano ad alzare la coppa con le orecchie. Il suo connazionale Avraham Grant, tecnico pro tempore del Chelsea un paio di stagioni fa, c’era andato vicinissimo. Solo un disgraziato rigore, l’ultimo della serie, calciato in malo modo da John Terry nella finale col Manchester United del maggio 2008 aveva servito su un piatto di argento l’ennesimo trofeo continentale ai Red Devils.

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  Il termometro della libertà

tobia zeviIn questi giorni di caldo soffocante, dobbiamo provare a immaginare la vita di 245 persone rinchiuse da una settimana nel carcere di Braq, in pieno deserto libico. Senza l’aria condizionata delle nostre case e dei nostri uffici, certo, ma anche senza acqua, senza cibo sufficiente, senza spazio, naturalmente senza libertà, senza contatti col mondo esterno, con un carico di vessazioni di ogni sorta, botte, torture e molestie.
Si tratta, come sapete, dei 245 profughi somali ed eritrei, deportati in quella struttura desolata dalle autorità libiche che li avevano arrestati nel tentativo di raggiungere clandestinamente l’Europa. Esseri umani spinti dalla fame, certamente, ma anche da un regime terribilmente autoritario e liberticida come quello dell’ex-colonia italiana. A queste persone è stato consegnato un questionario, ufficialmente necessario per essere inseriti nella lista di prigionieri destinati a lavori socialmente utili. Temendo che invece si trattasse dei formulari per il rimpatrio forzato - ed è difficile non comprendere la diffidenza verso la feroce dittatura di Gheddafi - i profughi si sono rifiutati di compilarli, preoccupati dalle ritorsioni nei confronti dei loro familiari rimasti a casa.
Questa versione ufficiale è stata evidentemente ritenuta credibile dal ministro Elio Vito, che, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha ritenuto di affermare che la tragedia dei 245 profughi fosse originata da un “equivoco”, quello appunto dell’errata interpretazione del modulo. Il che riporta un’incredibile emergenza umanitaria a una piccineria di carattere burocratico-amministrativo, sanabile con una corretta informazione ai detenuti.
Secondo la Costituzione italiana hanno diritto ad essere accolti sul suolo della Repubblica tutti coloro le cui libertà democratiche non sono garantite nel paese di provenienza, secondo le modalità espresse dalla legge. Questa banale affermazione di diritto e di civiltà viene ormai sistematicamente violata dalla pratica ormai cronica dei respingimenti in mare, che impediscono un’identificazione adeguata dei clandestini volta ad accertare se vi siano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato. I rifugiati mancati vengono invece ricondotti in Libia, un paese – considerato un importante alleato dai politici italiani di destra e di sinistra - che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra e dove l’Alto commissariato delle Nazioni Unite non può operare, nel quale sono detenuti in condizioni terrificanti.
La vicenda di questi 245 essere umani è una spia della civiltà giuridica e morale del nostro paese. Su un tema come questo – anche per rispetto delle migliaia di ebrei italiani provenienti dalla Libia – come ebrei italiani non possiamo tacere.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
 
 
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Tzahal fa autocritica (tecnica) sul blitz alla Mavi Marmara
Gerusalemme. Affaire flotilla: stavolta l'esercito israeliano punta il dito contro l'esercito israeliano. L'accusa è di avere fallito proprio in quello che internazionalmente è riconosciuto come uno dei punti di forza dei soldati dello Stato ebraico, l'intelligence. E' la conclusione a cui è giunta la commissione d'inchiesta militare che ieri ha pubblicato i risultati del proprio lavoro: un'indagine interna che ha cercato di fare luce su quanto successo lo scorso 31 maggio a largo di Gaza, a bordo della Mavi Marmara, traghetto turco diretto verso la Striscia con un carico di aiuti umanitari. Nove attivisti filopalestinesi sono rimasti uccisi nello scontro con i soldati israeliani, la comunità internazionale ha chiesto immediatamente, sebbene con toni e modalità diversi da Paese a Paese, che venissero chiarite colpe e responsabilità. I primi a rispondere alla richiesta sono stati proprio i militari israeliani, che ora fanno mea culpa, sebbene, com'è ovvio, solo dal punto di vista tecnico. Eventuali responsabilità politiche saranno individuate in altre sedi: una seconda commissione, civile, anch'essa interna, è già all'opera da settimane. Ma intanto l'esercito ha tratto le sue, amare, conclusioni: la marina ha fatto male i calcoli, si legge nel resoconto, sottovalutando la possibilità che i commando calati da elicotteri sul ponte della nave potessero incappare nella resistenza violenta dei volontari a bordo. I militari di mare avrebbero poi mancato di collaborare sufficientemente con il Mossad, i servizi segreti, per ottenere quante più informazioni possibili sul conto di chi viaggiava a bordo del traghetto. Attivisti non-violenti, certo, ma non solo: l'imbarcazione trasportava anche picchiatori esperti, persone in contatto con l'IHH, ong turca di matrice islamica, bandita da Israele nel 2008 perché accusata di finanziare Hamas e il terrorismo anti-israeliano.  [...]
Virginia Di Marco, il Riformista, 13 luglio 2010

La nave libica domani a Gaza. Gheddafi jr vuole salire a bordo
Batte bandiera moldava ma l'Amalthea, nave salpata dalla Grecia con aiuti umanitari per i palestinesi è in missione per conto della Libia, anzi per Seif al-Islam, figlio del colonnello Gheddafi. Che vorrebbe addirittura salire a bordo sul finire della missione. Mentre c'è attesa sulle reali intenzioni dell'equipaggio. Vuole o no forzare il blocco israeliano in mare? Oppure si tratta soltanto di un'azione dimostrativa per attirare l'attenzione internazionale sulla drammatica situazione degli abitanti di Gaza, ma poi alla fine la Fondazione Gheddafi, che ha finanziato la spedizione, accetterà che gli aiuti raggiungano la popolazione palestinese via terra e dopo i controlli israeliani? Secondo fonti diplomatiche a Gerusalemme, citate dal quotidiano Haaretz, l'equipaggio ha deciso di dirigersi verso il porto egiziano di el-Arish, evitando quindi il tentativo di rompere l'embargo a Gaza. Ma l'emittente araba al-Jazeera sostiene invece che non ci sia stato nessun cambio di rotta per la nave, che dovrebbe arrivare presso le coste di Gaza entro due giorni al massimo, e il suo stesso capitano ha negato l'intenzione di dirigersi verso el-Arish.
Il Messaggero, 13 luglio 2010

Un soldato ostaggio delle ong. E' silenzio umanitario su Shalit
Roma. Il soldato israeliano Gilad Shalit è tenuto segregato da quattro anni nelle mani di Hamas e la Croce Rossa, abituata a visitare regolarmente i terroristi palestinesi nelle prigioni israeliane, non ha mai potuto incontrare il giovane caporale. Il soldato israeliano non fu catturato nel corso di una battaglia, ma in un raid effettuato in Israele e mentre Israele, che aveva evacuato Gaza, era in pace con il proprio vicino. Parlare di Shalit come di un “prigioniero di guerra” significa ritenere che, se Israele occupa un territorio o se pone fine a tale occupazione, il fatto non cambia in alcun modo l'odio che si crede di dovergli destinare. Shalit non è un prigioniero di guerra, ma un “ostaggio”. La sua sorte è simmetrica a quella di chi è sequestrato in cambio di un riscatto, non a quella di un terrorista palestinese. Eppure è così, come un prigioniero di guerra, che viene descritto Shalit nel recente comunicato con cui Amnesty International, ammiraglia dell'umanitarismo globale, commenta il caso Shalit: “Amnesty International non chiede il rilascio di militari catturati. Il diritto internazionale umanitario permette alle parti coinvolte in un conflitto armato di catturare e imprigionare membri delle opposte forze armate come prigionieri di guerra”. Il caporale Shalit non appare dunque prigioniero soltanto di Hamas, ma anche delle organizzazioni non governative che hanno adottato una strategia che va dall'ipocrisia alla connivenza con i suoi carcerieri. Il loro vergognoso silenzio sul destino di Shalit è un tradimento dei diritti umani, dice l'accademico Gerald Steinberg, che monitora le ong in medio oriente. In tutti i comunicati delle ong impegnate nella regione non si fa accenno al rifiuto di Hamas di rinunciare alla pretesa di distruggere Israele, al rapimento e alla detenzione del militare Gilad Shalit prigioniero da quattro anni, alle campagne a colpi di missili e mortaio contro i centri abitati israeliani e al contrabbando di armi e munizioni provenienti dall'Iran. [...]
Il Foglio, 13 luglio 2010

L'iran è pronto per l'atomica. Ora lo dice anche la Russia
Adesso, secondo il perverso principio che se lo dice chi fino ad ora aveva mentito o si sbagliava, allora è vero, non ci sarà più nessuno che potrà tirarsi indietro di fronte alla luce rossa sfolgorante che lampeggia dall'Iran. Perché adesso l'ha detto anche Medvedev, il presidente russo, e certo non senza il permesso di Putin: l'Iran sta per arrivare alla conclusione della sua corsa verso la bomba atomica. È, dice, «vicino al possesso del potenziale che in linea di principio potrebbe essere usato perla creazione dell'arma atomica». Linguaggio un po' più diplomatico, ma chiarissimo. E la Russia, insieme alla Cina, prima che i pasdaran turco e brasiliano si ergessero al Consiglio di sicurezza contro le sanzioni, era stata sempre il principale nemico delle sanzioni stesse e il miglior amico dell'Iran, quello che metteva il bastone tra le ruote degli Usa per non arrivare mai a una chiara definizione del problema.
[…] La Russia di Putin ha cominciato ad adombrarsi seriamente contro Ahmadinejad quando egli ha osato protestare e persino minacciare l'alleato di sempre al momento in cui Putin ha deciso per le sanzioni all'ultimo round del Consiglio di Sicurezza il 19 giugno: la logica dell'orgoglio russo ha avuto il sopravvento, l'Iran non può sognarsi di gestire contro la Grande Madre Russia il nuovo potere islamista, che oltretutto a causa dei molteplici conflitti russi con l'Islam, per esempio in Cecenia, è un tasto molto doloroso. Inoltre anche Putin e Medvedev, come Obama, specie dopo le ultime indagini dei servizi segreti (Leon Panetta direttore della Cia ha annunciato da una settimana che l'Iran può già costruire due bombe) hanno afferrato il rischio non più rimandabile di un Iran che non ha dato il minimo segno di apprezzare la linea morbida in tutti questi mesi ed annidi insistenze occidentali e di gentilezze russe. Obama si è ricreduto evidentemente in base a informazioni definitive, e anche la Russia ha compreso di conseguenza, e un po' forse in concorrenza rispetto alla leadership mondiale, che con amici come l'Iran è molto meglio affidarsi ai nemici.  […]
Fiamma Nirenstein, il Giornale, 13 luglio 2010

 
 
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notizieflash    
 
 
Lo Shin-Bet incontra la leadership dei detenuti palestinesi,        
la speranza è trovare accordi per la liberazione di Shalit
Tel Aviv, 13 lug -
Lo Shin Bet (servizio di sicurezza interna israeliana) al fine di riaprire i negoziati con Hamas per la restituzione del soldato Gilad Shalit, rapito quattro anni fa, ha svolto colloqui diretti con la leadership informale dei reclusi di Hamas. Ad affermarlo è stato il quotidiano israeliano Yedioth Ahronot. Obiettivo dei contatti, secondo il giornale, è di convincere i detenuti palestinesi più pericolosi agli occhi di Israele ad accettare una espulsione all'estero, nel contesto di uno scambio di prigionieri che garantisca la libertà di Shalit. Secondo il giornale, questi contatti si sono svolti "in un' atmosfera positiva" e sono destinati a proseguire. Da parte sua lo Shin Bet si è trincerato dietro a un 'no comment'. Fra i membri della delegazione di detenuti palestinesi spiccano i nomi di Yihya Sinwar e Hussam Badran; il primo sconta un erogastolo ed è fra i fondatori delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas; il secondo è un altro miliziano di Hamas condannato a 12 ergastoli per aver organizzato attentati terroristici.


Chelsea Clinton pensa a una conversione,
il suo ragazzo è ebreo e vuole sposarlo
New York, 12 lug -
Chelsea Clinton fidanzata del banchiere d'affari Marc Mezvinsky potrebbe convertirsi all'ebraismo. Chelsea ha 30 anni. Sua madre è metodista, il padre è un battista del Sud. Mezvinsky, di due anni maggiore e un ex amico d'infanzia, ed è cresciuto in una famiglia ebrea tradizionalista, lei vorrebbe sposarlo. La corrente di ebraismo a cui appartiene Marc scoraggia i matrimoni misti e proibisce ai rabbini di celebrare e talora anche di partecipare alle nozze in cui lo sposo o la sposa non sia di religione ebraica, a meno che questo/a non si converta. Non è chiaro come la coppia Clinton-Mezvinsky risolverà questo dilemma religioso, d'altra parte Chelesa ha partecipato con Marc lo scorso settembre alla celebrazioni di Yom Kippur al Jewish Theological Seminary di New York. "Sarebbe un sogno", ha detto il rabbino David Wolpe del Sinai Temple di Los Angeles, un ex collaboratore di Ed Mezvinsky, il papà di Marc. Il silenzio sul protocollo della cerimonia del 31 luglio ha dato aria alle voci nella comunità ebraica. Chi celebrerà? Ci sarà un rabbino presente? Si convertirà la sposa o lo sposo o nessuno dei due? E che succederà con l'educazione di eventuali figli? Intanto le indiscrezioni sul matrimonio continuano a circolare: Bill Clinton ha promesso di perdere sette chili prima di portare la figlia all'altare, mentre la madre della sposa (la segretaria di stato Hillary) si divide tra impegni di politica estera e la scelta dell'abito (Oscar de la Renta o Vera Wang). La sposa intanto sta ripassando la lista degli invitati, composta di 400 amici personali. Sembra invece confermata la "location", una vasta tenuta che appartenne alla famiglia Astor nel villaggio di Rhinebeck, a nord di New York.
 
 
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