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L'Unione informa
 
    18 luglio 2010 - 7 Av 5770  

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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  benedetto carucci viterbi Benedetto Carucci Viterbi,
rabbino
La frase della scorsa settimana non voleva essere ad effetto, come qualcuno ha notato. Rivedere le tappe di un percorso quando ci si avvicina alla meta è esattamente quello che ci propone la Torà nelle parashiot di queste settimane: se ciò non avesse un senso, dovremmo chiederci perché allora dare tanto spazio alla memoria nella nostra vita di ebrei.  
Più sapere, più conoscenza tecnica, più comunicazione. Tutte cose percepite come beni immateriali. Questo non significa che siano marginali o secondari. Oggi la crescita dipende più dalla produzione di beni immateriali che materiali. Diversamente: si può essere ricchi e ignoranti per una generazione, ma non per due. Sarà banale dirlo, ma ereditare una scatola vuota non è un buon inizio. È anche per questo che dovremmo chiederci se questo paese abbia per davvero un futuro e se dedicare ogni giorno tutte le nostre energie per rintuzzare supposti complotti che nascono e muoiono nello spazio di un mattino sia il modo più intelligente per costruirne uno.
David
Bidussa,

storico sociale delle idee
david bidussa  
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  La continua vitalità della Torà

sorgente di vita"Al di là del Giordano nel paese di Moav, Moshé iniziò a spiegare questa Torà". (Deut. 1:5) Rashì commenta: "Iniziò a spiegare questa Torà = glie l'ha spiegata in settanta lingue".
Il commento di Rashì appare un po' strano. Il popolo aveva bisogno di settanta lingue, non era più comprensibile per lui il testo ebraico stesso? In realtà le parole di Rashì vengono a darci un insegnamento profondo: le settanta lingue rappresentano i settanta popoli del mondo, le settanta culture; quello che Mosè voleva farci comprendere è che la Torà può dare il suo insegnamento nei confronti di ogni cultura. Durante la storia abbiamo avuto svariate culture e l'ebraismo si è cimentato con ognuna di esse. Spiegare la Torà in settanta lingue, vuol dire dare una risposta adatta a ogni cultura. Alcune culture, come quella occidentale, sostengono che all'uomo deve essere lasciata la più ampia possibilità di agire, conservando i diritti del singolo; l'ebraismo risponde che vi è un Essere (il Santo e Benedetto) che richiede all'uomo un certo atteggiamento, il compimento di determinate azioni; un'altra cultura, quella comunista, riconosce che l'uomo non è libero di fare quello che vuole, ma mentre il comunismo ritiene che il potere risieda nel partito o nel leader, per l'ebraismo è in D-o. Svariate sono state le culture che sono sorte nel corso dei secoli, e a tutte la Torà ha dato la sua risposta.
Il rav Izchak Meir Alter di Gur (1799-1866), autore del Chidushé Harim, era solito spiegare il versetto binu shnot dor-vador (comprendete gli anni di varie generazioni, Deut. 32:7) nel senso che ogni generazione deve spiegare la Torà come se si rivolgesse a lei e deve quindi trovare i fondamenti importanti e necessari per cimentarsi con la problematica di quella determinata generazione.
Il libro di Devarim si apre con una lunga prefazione: "Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele nel territorio al di là del Giordano nel deserto, nella pianura davanti a Suf fra Paran e Tofel a Lavan, Chazeroth e Di Zahav" (1:1); Rashì spiega che ogni posto fa riferimento a un determinato peccato compiuto lì, ma Rashbam ci dà il senso semplice del versetto: la Torà vuole indicarci il posto esatto ove Mosè si trovava quando ha pronunciato quelle parole. Dopo di che viene data una descrizione esatta del tempo in cui sono state pronunciate le parole: "Il primo giorno dell'undicesimo mese del quarantesimo anno dall'uscita dall'Egitto" (1:3) e infine viene descritto il periodo esatto in cui sono state pronunciate: "Dopo aver colpito Sichon re dell'Emoreo che risiedeva in Cheshbon e aver batEdrè'i Og re di Bascian che risiedeva in Ashtarot" (1:4).
Si pone allora il problema del perché mai doveva la Torà stare ad indicare il luogo, il tempo, il periodo esatti in cui sono state dette queste parole? La risposta è che è stato fatto per insegnarci quanto abbiamo sottolineato: le parole di Mosè non erano staccate dal luogo, dal tempo e dal periodo in cui sono state pronunciate. Dobbiamo adattare i messaggi della Torà a ogni generazione, come ha fatto lo stesso Mosè per assicurarne la loro continua vitalità.
[Tratto e adattato da una conversazione del Rav Yehudà Amital z.l.]

Alfredo Mordechai Rabello, Università ebraica di Gerusalemme



Sorgente di vita: dalla storia di Halimi
alla prossima mostra di arte e cabalà


sorgente di vitaCreme, cosmetici e cure per la pelle con i fanghi del Mar Morto: un laboratorio artigianale è diventato una moderna azienda che utilizza tecnologie avanzate ed esporta i suoi prodotti in tutto il mondo. E’ il tema di apertura della puntata di Sorgente di vita di domenica 18 luglio. Segue un’intervista alla signora Ruth Halimi, madre di Ilan, il ragazzo francese ucciso nel 2006 a Parigi solo perché ebreo. Un servizio è poi dedicato alla rocca di Masada, nel deserto della Giudea, simbolo della resistenza degli ebrei contro i romani: visitiamo il palazzo di Erode, i saloni, i magazzini, le terme di questo sito archeologico dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Arte e cabalà è l’ultimo argomento: lettere, numeri, segni e simboli nelle opere di artisti italiani e stranieri in mostra nell’incantevole giardino di una villa veneta. Sorgente di vita va in onda domenica 18 luglio alle ore 1,20 circa su Raidue.
La puntata verrà replicata lunedì 19 luglio alla stessa ora circa e lunedì 26 luglio alle ore 7 del mattino.
I servizi di Sogente di vita sono anche
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  Davar Acher - L'etica della responsabilità

ugo volliMa è giusto sentirsi in lutto a Tishà be Av, che ricorda le due cadute di Gerusalemme, ancora oggi, sessantadue anni dopo la fondazione dello Stato di Israele e quarantatre dopo la riconquista della città? Difficile negare che questa ricorrenza abbia perso per molti la sua base emotiva, una volta così forte. La tradizione rabbinica insegna però che vi sono molte ragioni per rispettarla. Le nostre ricorrenze hanno sempre molti aspetti: in questo caso non solo la caduta del Tempio, ma una serie di altri eventi negativi che cadono in questa data e le loro radici nel comportamento collettivo. Non intendo entrare qui in quest'ordine di discorso, ma sono d'accordo, per ragioni tutte civili e politiche.

Mi concentrerò solo su un paio di ragioni puramente storico-nazionali per riflettere su questa giornata. La prima ragione per mantenere vivo il ricordo della caduta di Gerusalemme è ovvia: non vi è oggi intorno a Israele né pace né riconoscimento generale; la restaurazione del nostro popolo sulla sua terra non è né stabilizzata né completata né appare probabile che possa esserlo in tempi prevedibili. Anzi, è forte il rischio di altre guerre, di altri lutti e non manca certo chi, fuori ma anche dentro il mondo ebraico, lavora instancabilmente per distruggere, demonizzare, delegittimare lo stato di Israele anche nei suoi limiti attuali. Vi è dunque ancora ragione se non di lutto, di angoscia e di preoccupazione. Tishà be Av è una buona occasione per esprimerli e riflettervi.

La seconda ragione è più specifica: Tishà be Av parla innanzitutto del pericolo della scissione di Israele in sette e fazioni che caratterizzò gli ultimi secoli della sua antica autonomia. Proprio per la divisione nel popolo ebraico cadde il Secondo Tempio, ci suggerisce infatti il Talmud (Yomà 9b). Leggiamo, oltre che da accenni talmudici, anche dalle fonti storiche di cui disponiamo (Giuseppe Flavio, "Guerra Giudaica" II, "Antichità giudaiche" XIII e XVIII, ecc.) che in quel periodo in Israele si combattevano fazioni accanitamente nemiche: saddiucei, farisei, esseni, zeloti, i primi cristiani, altri gruppi di cui ignoriamo tutto salvo una vaga denominazione (per esempio "la quarta filosofia" - ancora G. Flavio). Ciascuno convinto di essere il vero erede della tradizione di Israel e intollerante nei confronti degli altri. I documenti di Qumran, per esempio, come le apocalittiche di altra fonte che ci sono arrivate da quel periodo, sono piene di immagini belliche, di profezie di distruzione, di maledizioni e diffamazioni e intolleranza e del rifiuto del riconoscimento degli avversari come membri dello stesso popolo. Il rischio è che questa situazione si stia ripetendo oggi. Laici e religiosi, destra e sinistra, haredim e modernisti, ebrei di Israele e della diaspora soprattutto americana, sionisti e "post" non sono più differenze che arricchiscono, ma contrapposizioni che separano e indeboliscono: il motore della divisione ha ripreso oggi la sua piena attività. Da Tishà be Av dobbiamo proporci la necessità di un discrimine per non affogare oggi nelle lotte intestine.

Chi è lucido non può farsi troppe illusioni sulla possibilità di superare questi conflitti oggi come ieri attraverso la semplice buona volontà. Non possiamo attendercela certo da parte di quegli ultraortodossi che vanno a far visita a Ahamadinedjad con la bandiera dell'Olp al petto, per condividere la sua delegittimazione di Israele, né da quei docenti universitari "postsionisti" delle università israeliane che pretendono di aver diritto, per via della libertà della scienza, a organizzare il boicottaggio di Israele e delle loro stesse università da cui ricevono lo stipendio. In nome di che cosa giudicheremo queste posizioni?

A me sembra chiaro che il solo criterio possibile sia quello che si trova già nella Torà e che è alla base della democrazia: il rispetto delle scelte della maggioranza: dunque non solo della cornice istituzionale dello Stato di Israele - che è la forma attuale che si è dato il nostro popolo -, ma anche delle scelte politiche che vengono fatte da Governo e Parlamento, cioè dei contenuti di questa cornice. E' di fronte a questo criterio fondamentale - l'adesione al destino storico dell'Israele concreta, non di un'idea astratta e non impegnativa - che tutti gli ebrei devono sentirsi chiamati a esercitare quella che Hans Jonas ha chiamato "etica della responsabilità" in contrapposizione all'"etica della convinzione" o ai semplici interessi di parte. La responsabilità unisce, la convinzione divide. E' facile dare per scontato che esseni, zeloti, cristiani, ecc. fossero perfettamente convinti di fare il giusto con le loro posizioni settarie. Più difficile, ma non impossibile, capire che anche oggi tutti gli estremisti più distruttivi siano in buona fede. Il problema è che la buona fede non basta e neppure la convinzione di avere dalla propria la Torà o la ragione, occorre molto umilmente tener conto dei vincoli e dei dati di fatto per assicurare la sopravvivenza collettiva. Chi non lo fa, chi non rispetta questi limiti, per quanto possa nutrire la fede più grande e l'etica più ferma, rischia di lavorare per un nuovo Tisha be Av, per una nuova caduta di Gerusalemme e per una nuova Shoà. Lo sappia o meno. Su questo rischio la ricorrenza ci chiama a riflettere tutti. Ma soprattutto devono pensarci quelli che si proclamano giudici severi del loro popolo, coloro che hanno la pretesa di indicargli la fede o la giustizia smarrita.

Ugo Volli
  
 
 
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Madonna con Hitler, svastiche.Se l'arte si mescola all'orrore
Milano - Metti un bamboccio dall'espressione innocua ma dalle inequivocabili sembianze hitleriane, con baffetti, camicia bruna, svastica sulla manica sinistra, in braccio a una Madonna. Poi il corpo nudo di una modella con la faccia di topolino sdraiata davanti a un poster con la croce uncinata. Infine, un'allegra famiglia di ebrei, capeggiata dall'ottantanovenne Adolek Kohn, scampato al Lager, danzare davanti al campo di Auschwitz al ritmo di «I will survive» di Gloria Gaynor: cliccare su You Tube per credere. Tre opere che mischiano il sacro con l'orrore, l'icona della cultura pop per antonomasia, Mickey Mouse, con il simbolo della dittatura più crudele, riempiono il silenzio che circonda i luoghi dove è avvenuto lo sterminio di massa con un motivetto ottimista di grande successo: io sopravviverò. Ciascuna opera ha la sua poetica. Dice Giuseppe Veneziano, il pittore tretanovenne che ha usato la «Madonna del Terzo Reich» come manifesto di una mostra a Pietrasanta, aperta a Palazzo Panichi sino al 22 agosto: «Se l'arte non provoca, che cosa deve fare?». Ha una spiegazione più mirata Max Papeschi, autore del nudo con faccia di Topolino e svastica che ha scandalizzato i cittadini di Poznan, città della Polonia centro-occidentale: «Le icone cult perdono il loro effetto tranquillizzante per trasformarsi in un incubo collettivo». Jane kohn, figlia dello scampato al Lager nazista che ha inscenato con i figli e il padre lo spettacolo con la colonna sonora di Gloria Gaynor davanti ai campi di Auschwitz, Terezin e Dachau, spiega così il video che su You Tube ha già avuto oltre mezzo milione di spettatori: «Era importante che il video collegasse per le giovani generazioni il ricordo dell'Olocausto a qualcosa di fresco e d'attualità, perché le immagini tradizionali dello sterminio nazista sono intorpidenti». Un'ideologia pubblicitaria accomuna i tre eventi. E malgrado tutto, è ancora possibile parlare di arte? Per il critico Achille Bonito Oliva, appena nominato dal presidente Giorgio Napolitano grand'ufficiale al merito della Repubblica, «l'epoca delle provoca- rioni in arte è finita con il secolo scorso. Le avanguardie del XX secolo, dal Futurismo al Dadaismo al Surrealismo, volevano cambiare i gusti del pubblico per plasmare una nuova psicologia collettiva. Oggi quelle provocazioni con uno scopo superiore sono scadute a puro strumento pubblicitario, sicché il messaggio non è più rilevante». [...]
Dino Messina, il Corriere della Sera, 18 luglio 2010

Processo di carta per Kafka
La disputa attorno ai diritti sul lascito dei manoscritti di Franz Kafka e del suo amico Max Brod sta vivendo in questi giorni a Tel Aviv e a Zurigo un nuovo round. Nei giorni scorsi una delegazione di avvocati, guidata da Itta Shedletzky, stimata studiosa degli scritti kafkiani, forte di un mandato giudiziario, ha fatto visita alle filiali delle banche Leumi e Discount della città israeliana per prendere visione del lascito di Brod che da quarant'anni si conserva in due distinte casseforti. Non sono trapelate ancora notizie sul contenuto di quel fondo, in quanto Hava Hoffe, una delle figlie di Esther Hoffe, la segretaria di Brod cui venne affidato il lascito, è riuscita ad ottenere un silenzio stampa imposto. Contro di esso s'è scagliato il quotidiano Haaretz , che in Israele sta seguendo la vicenda con particolare zelo, in quanto rappresentante di interessi non solo giornalistici. Il giornale appartiene infatti ad Amos Schocken, il nipote dell'editore di Kafka, Saiman Schocken, che nel 1956 portò l'archivio Kalka in Svizzera. A Zurigo invece, sempre su disposizione della corte suprema di giustizia di Israele, è attesa per domani l'apertura delle quattro cassette di sicurezza che si trovano presso la Ubs, all'interno delle quali si presume si trovino manoscritti e disegni di Kafka. Anche in questo caso a guidare la delegazione sarà Itta Shedletzky, che avrà anche il compito di redigere un inventano di quanto lì contenuto. La studiosa si è impegnata di fronte allo stato d'Israele a non divulgare notizie sul contenuto del fondo. […]
Vito Punzi, Libero, 18 luglio 2010 

 
 
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M.O.: George Mitchell a colloquio con Abu Mazen
Al-Fatah: “No a dialogo diretto con Israele”
Theran, 17 lug -
Il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen, nel corso del colloquio con l'inviato Usa George Mirchell, ha chiesto chiarimenti sulla  questione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme. Yasser Abed Rabbo, esponente dell'Anp ha spiegato: “Mancano chiarimenti sulla posizione degli Stati Uniti su diversi problemi, in primo luogo sulla questione degli insediamenti e sulla situazione a Gerusalemme e chiarimenti sono necessari perché i palestinesi possano decidere se passare dalla fase attuale di negoziati di pace indiretti a quelli diretti con Israele”.  I palestinesi vogliono che il congelamento della politica di costruzioni negli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, che scade a settembre, sia prolungato indefinitamente da Israele prima di acconsentire a passare alle trattative dirette. Dal canto suo Mohamemd Dahlan, responsabile per l'informazione di al-Fatah, ha detto che questo partito - del quale Abu Mazen è il leader - si oppone a una trattativa diretta con Israele, come chiedono gli Usa, poiché il governo israeliano non ha risposto, alle richieste palestinesi sulla questione della definizione dei confini di un futuro stato palestinese e in materia di sicurezza. Mitchell ha invece detto di essere "incoraggiato dal colloquio che ho avuto e da quelli che avrò nei prossimi giorni". Al tempo stesso ha detto che gli Stati Uniti sono pienamente consci "delle difficoltà e delle complessità" dei negoziati.

L'Iran accusa gli Usa per gli attentati nel Sud-Est del Paese
“Ora ne pagheranno le conseguenze”, minacciano gli iraniani
Theran, 17 lug -
Duplice attentato giovedì sera nel Sud-Est dell'Iran. Theran accusa Washington di esserne il mandante. "Gli americani devono aspettarsi delle conseguenze per tali atti criminali e selvaggi", ha detto il vice capo di stato maggiore iraniano, generale Massud Jazayeri. Le autorità iraniane accusano da tempo gli Stati Uniti, Israele e la Gran Bretagna di sostenere il Jundullah (Soldati di Dio), il gruppo estremista sunnita che ha rivendicato questo e altri attentati precedenti. Anche il presidente del Parlamento, Ali Larijani, ha detto che "gli Usa devono rispondere dell'attacco terroristico". "I loro legami con Jundullah sono chiari, ne abbiamo prove fondate", ha aggiunto Larijani, citato dal sito della televisione di Stato. Intanto a Zahedan, capoluogo della provincia del Sistan-Baluchistan, dove è avvenuto l'attacco, sono in corso i funerali con un corteo al quale prendono parte migliaia di persone.

 
 
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