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    26 luglio 2010 - 15 Av 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Tu beAv, il 15 di Av, la festa di oggi, rischia di diventare, nella cultura popolar-commerciale israeliana una festa dell'amore, una specie di S. Valentino; mancano i Baci Perugina, che al caldo si squaglierebbero. Strano modo per riprendere una tradizione remota in cui l'amore c'entra, ma fino a un certo punto. I Maestri, tra i motivi per festeggiare, ricordano questo come il giorno in cui fu permesso alle tribù d'Israele di sposarsi tra di loro; forse fu l'addolcimento della regola che impediva alle ereditiere di sposarsi fuori tribù per impedire il trasferimento delle proprietà terriere (Bemdibar 36:6). La società ebraica ha oscillato in questo campo da un eccesso all'altro. Nell'Ottocento gli ebrei italiani (livornesi), grandi commercianti e imprenditori a Tunisi, avrebbero considerato con orrore le loro nozze con gli ebrei locali; l'unione in matrimonio era anche in patrimonio. Oggi, da queste parti, è già tanto se ci si sposa e la caduta delle barriere van ben oltre i limiti tribali del 15 di Av.
Non ho visto il film televisivo tedesco di Bettina Stangneth sulla storia d'amore fra una giovane ebrea tedesca rifugiata in Argentina e il figlio di Eichmann che avrebbe portato all'individuazione del criminale nazista, e mi baso solo su quanto riferito dalla stampa italiana. Non sono sicura che davvero, come alcuni giornali sostengono, il filmato susciti nuovi interrogativi sul comportamento del  Vaticano e fin su quello di Israele. Su questi  temi molto è stato detto, per Israele basti anche solo la lettura del libro di Tom Segev, Il  settimo milione, dove si analizza proprio il passaggio da un disinteresse sostanziale verso la  Shoah da parte del nuovo Stato all'esplosione di memoria suscitata dal processo Eichmann. E anche per l'aiuto dato nel dopoguerra dal Vaticano a molti nazisti, nulla di nuovo mi sembra possa  ancora emergere, e tanto meno a partire dal caso  Eichmann. No, a parte questi sensazionalismi, mi  sembra che l'interesse della storia sia un altro:  il fatto che, a proposito di un criminale di guerra che ha diretto lo sterminio di milioni di ebrei e del suo processo che ha avuto un effetto  dirompente sulla costruzione della memoria in  tutto il mondo, l'attenzione dei media si concentri su una love story. Giulietta e Romeo, come già sapeva Shakespeare, tirano sempre. Ma in questo caso, ce ne era davvero bisogno? e se è così, se dobbiamo ricostruire un flirt tra sedicenni per interessarci al processo Eichmann, allora forse è davvero segno che qualcosa non funziona, che almeno in qualcosa, se non in tutto, abbiamo sbagliato.   Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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Qui Roma - Una serata per ricordare Daniela Di Castro

Si svolgerà questa sera al Museo ebraico di Roma alle 19, una serata di studio in ricordo di Daniela Di Castro, insigne studiosa di storia e di arte e direttrice del Museo ebraico di Roma, scomparsa prematuramente un mese fa. Dopo il saluto dell'assessore Roberto Steindler, del marito professor Giacomo Moscati e del fratello Alberto Di Castro, sono previsti gli interventi del rav Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma, del Rav Benedetto Carucci Viterbi, del Rav Vittorio Chaim Della Rocca e del Rav Amedeo Spagnoletto.


Cara compagna di banco
pe agostoCara compagna di banco, l’altro giorno avevo voglia di piangere, e tu sai perché. Ho cercato di distrarmi con il lavoro, ma non sempre funziona. E in ogni caso volevo parlare di te per come ti ho conosciuta, lasciando ad altri, più competenti e titolati, il compito di rendere omaggio alla tua figura straordinaria di professionista, di studiosa, di ambasciatrice nel mondo della cultura e della storia degli ebrei italiani. Parlare per quella quotidianità di ragazzini che siamo stati, vicende eguali a tante altre che a noi sono parse e a me continuano a sembrare tanto speciali. Così ho finito per aprire quel cassetto. Sul fondo ci sono vecchie carte e vecchie foto e fra queste le foto della nostra classe. Quarta ginnasio, liceo Visconti. Eccoci nel cortile cui allora non si badava, mentre ora capisco quanto sia uno dei tesori della nostra città. L’inverno di 38 anni fa non fu mite, ma per noi cambiava poco, dato che anche nelle aule mancava un vero e proprio riscaldamento. Nell’immagine ci siamo tutti, tu da un capo e io dall’altro, la prof Moretti in mezzo. Che ci incantava tutti, quando fra una declinazione e l’altra ci raccontava che quello screanzato di suo figlio, neanche tanto più grande di noi, sognando di fare il regista, aveva buttato la casa all’aria per realizzare un filmino in superotto e le epigrafi greche collezionate dal suo autorevole papà erano finite per sbaglio in un cestino. Non era il freddo, era la vita a darci la pena e lo slancio che sembra difficile trovare nelle nuove generazioni. Dietro quei volti così infantili c’erano le prime settimane di un percorso che ci avrebbe fatto diventare grandi in anni difficili. Il Sessantotto era ieri e la prima carica della polizia, che inspiegabilmente entrava a scuola con i manganelli per motivi che non riuscivamo a capire (chissà che diavolo avevano combinato i più grandi), giornate tese, minacciose e divise fra il dovere di sentirsi impegnati e il diritto di perdersi in scemenze, le assemblee non autorizzate e le passeggiate a Villa Borghese. Ogni mattina, sulla piazza del Collegio romano, che era il nostro salotto, volantini, slogan, striscioni, giornaletti ciclostilati nati come funghi. Sembravamo in fondo pesci fuor d’acqua in un tempo in cui tutte le idee dovevano dimostrarsi altisonanti per reggere il confronto. Troppo sensibili, troppo ben educati, troppo fragili. Al nostro primo volantinaggio eravamo soli tu e io, a pochi passi da piazza di Spagna, di fronte alle vetrine della pellicceria Fendi. Il messaggio era un grido di guerra contro le signore impellicciate. Una commessa venne fuori con aria burbera, eravamo impauriti. Fu la prima, innocente contestazione. Altre ne seguirono, sempre cercando, ognuno a modo proprio, di tenersi allo scarto dai compagni più bellicosi. Ne abbiamo viste di tutti i colori. I 32 morti che i terroristi di Settembre nero lasciarono sulla pista dell’aeroporto di Fiumicino (quando sei uscita dall’assemblea degli studenti trattenendo le lacrime, non voglio mai dimenticarlo, mentre qualcuno fra gli applausi cercava di giustificare l’orrore con le ragioni del popolo palestinese senza nemmeno sapere dove fosse il Medio Oriente). La morte di Giorgiana Masi sul ponte Garibaldi, le battaglie per il divorzio, l’obiezione di coscienza e gli altri diritti civili, gli sforzi spesso inutili di un paese straziato e arretrato di essere un paese civile. La nostra prima gioventù, cominciata nell’irrisolto contrasto fra paura, violenze e rivendicazione di diritti e di identità, si sarebbe conclusa pochi anni dopo, nel 1982, con negli occhi le immagini di quella manifestazione sindacale che sperando di intimidire gli ebrei di Roma buttò una bara di fronte alla sinagoga e l’attentato che dopo poche settimane che costò la vita a un bambino di due anni. In mezzo siamo riusciti a infilarci tante speranze. E qualche sorriso. Siamo riusciti a farci portare in gruppo sui giornali e in tribunale (1974) per aver organizzato fra gli studenti uno scandaloso, per il metro di giudizio di allora, questionario sulla vita sessuale degli studenti. Ci siamo procurati il primo ciclostile a manovella per stampare l’ennesimo giornalino scolastico. E siamo andati in gita a Venezia (che allora sembrava ancora un grande viaggio, una grande avventura). Ma soprattutto, non si sa come, in mezzo a tanta confusione, siamo riusciti a studiare (per te non era un problema, eri sempre comunque la prima della classe). Poi la vita ha preso il suo corso: lo studio, i viaggi, i matrimoni, i figli. Perdersi di vista e ritrovarsi. In un modo o nell’altro, con i nostri passi o con i ricordi, siamo tornati mille volte sulla piazza del Collegio romano, abbiamo guardato i tre scalini consumati dove i ragazzi continuano a darsi appuntamento fuori da scuola e abbiamo sorriso ripensando alla goliardia e alla fierezza di alcuni nostri compagni di scuola, destinati a divenire illustri rabbini italiani, che scherzando mi dicevano: “Mettiti a studiare, così facciamo un Beth Din, un tribunale rabbinico composto di tre giudici, di soli viscontini”. Abbiamo finto di essere al riparo dalla nostalgia. Siamo tornati a scuola per la serata dell’Associazione ex alunni e avevi appena ricevuto il prestigioso premio Mattonella, quando si consegna una piastrella dell’antichissima pavimentazione dell’Aula magna a un ex alunno di successo. Ho ascoltato la tua appassionata rievocazione di quegli anni di scuola. Tuo figlio grande, che mi stava a fianco, mi ha chiesto sottovoce se nel raccontare quei cinque anni e quelle mille storie tu non esagerassi. E per tranquillizzarlo gli ho detto che forse un pochino sì, ma sapevo benissimo che era tutto vero. E che le storie apparentemente incoerenti e buffe di quegli anni in realtà sono state più dritte e importanti di quanto non sembrasse. Volevamo fare qualcosa di significativo in campo ebraico. Tu sicuramente ci sei riuscita, con la professionalità e la serietà che ti hanno resa ambasciatrice di Roma nel mondo. Hai aiutato schiere di italiani a comprendere le cose belle, innumerevoli ebrei a essere fieri delle proprie radici e della propria cultura. E hai aiutato me a capire che dietro i grandi capolavori, dietro gli elementi preziosi, c’è la nostra capacità di impegnarci, di lavorare con umiltà e devozione e di apprezzare anche le piccole soddisfazioni della vita quotidiana. E fra tante parole che ci siamo detti, c’è una cosa che non ti ho mai confessato. Quando una volta stavamo seduti fianco a fianco in quel banco senza voglia alcuna di ascoltare la professoressa, hai avuto un momento di fastidio per qualche dieta che ti costringevi a seguire. Ti avevo chiesto quale privazione fosse per te la più insopportabile. E tu, sgranando gli occhi, mi avevi risposto sicura: “Anche semplicemente pane e burro”. Sono passati tanti anni, ma da allora immancabilmente tutte le volte che spalmo una fetta di pane ripenso con affetto a quel momento di sincerità e di amore per la vita. E alla tua capacità di capire le grandi opere cogliendo intensamente e con gratitudine ogni frammento delle piccole cose chi ci vengono incontro.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche, agosto 2010


L’ultima festa, tra amore e perdono 

luciano caroTu beAv, vale a dire il 15 del mese di Av (nel 2010 cade il 26 di luglio), è l’ultima ricorrenza dell’anno ebraico e anche la meno nota. Considerata festa dell’amore e della gioventù, fu istituita presumibilmente nel periodo del Secondo Tempio, ma, secondo alcuni, trae le sue origini da un’antica festa legata all’agricoltura e alla fine dell’estate. Attenuatasi la calura dell’estate, si finiva di tagliare il legname da usarsi nel Santuario per i sacrifici dell’anno successivo. Dal punto di vista liturgico la data si segnala per l’omissione nella preghiera quotidiana di alcune parti penitenziali (Techinnà). Inoltre chi si sposa in questa giornata è esentato dal digiuno istituito in occasione del giorno delle nozze. Se poi nel giorno di Tu beav ha avuto luogo l’inumazione di un defunto si limitano le manifestazioni pubbliche di lutto. Ma, quali sono le origini della festa e a quali eventi è legata? Una fonte midrashica ricorda che, a detta di «certi sapienti il 15 Av sono stati creati gli astri» (Otzar Hamid 1, 282 ). Nel libro dei Giudici si fa cenno a una festa popolare celebrata «da molti anni» nelle vigne con canti e danze e, secondo una tradizione, questa che potrebbe esser definita una festa della vendemmia cadeva proprio il 15 Av. Altri sostengono che la festività risalga al periodo di polemico confronto fra Farisei e Sadducei e che sarebbe stata istituita dai primi per celebrare un loro successo nei confronti dei Sadducei. Nelle nostre fonti il riferimento più evidente è dato da quanto riportato nella Mishnà: Raban Shimon ben Gamliel diceva: «Per Israele non esistevano giorni più lieti del 15 di Av e del giorno di Kippur, in cui le fanciulle di Gerusalemme uscivano con abiti bianchi presi in prestito per non far arrossire le più povere. Tutti i vestiti andavano sottoposti al bagno di purificazione. Le fanciulle di Gerusalemme uscivano a danzare nelle vigne. E che cosa dicevano ? “Giovane, alza i tuoi occhi e guarda bene quello che scegli. Non posare gli occhi sulla bellezza, ma bada alla famiglia. Cosa falsa è la grazia; vanità è la bellezza. Solo la donna temente di Dio è degna di lode” (Prov. 31,20 - Ta’anit IV, 7)». Questo testo presenta alcune difficoltà di interpretazione. Ci si domanda quale tipo di rapporto leghi Tu beav e il giorno di Kippur. Qualcuno sostiene che entrambe le date sono collegate al perdono concesso da D. in diverse occasioni. Nel giorno di Kippur l’Eterno perdonò di fatto il popolo ebraico che si era macchiato del peccato del vitello d’oro, ma, secondo la tradizione, era il 15 di Av allorchè fu accolta la richiesta di perdono formulata da Mosè il giorno stesso della sua discesa dal Sinai. Sempre nel giorno del 15 di Av ebbe termine la pestilenza inviata come punizione per la vicenda degli esploratori incaricati da Mosè di compiere un sopralluogo in Terra di Israele. Inoltre il 15 di Av cessarono i decessi di quanti, usciti dall’Egitto, furono condannati a morire nel deserto. E anche questa circostanza è legata al perdono di D. perché si sostiene che quanti non morirono entro quella data sopravvissero miracolosamente. Le fonti midrashiche riferiscono che nel quarantesimo anno del soggiorno nel deserto, gli ultimi quindicimila di quanti, ultraventenni, erano usciti dall’Egitto attendevano la morte per il 9 Av, tradizionale anniversario del peccato degli “esploratori”. Infatti, secondo la tradizione, furono condannati a morire nel deserto e pertanto a non entrare nella Terra Promessa, solo coloro che avevano superato i vent’anni. Ma, l’Eterno ebbe pietà e li lasciò in vita. Dapprima costoro ritenevano di aver conteggiato male il tempo e che il 9 di Av non fosse ancora sopraggiunto, ma quando videro in cielo splendere la luna piena (segno che era il 15 del mese) si resero conto di esser stati perdonati e istituirono il 15 di Av come giorno di festa. (Talmud Jerushalmi-Ta’anit 4). Dunque esiste un rapporto fra Kippur e 15 di Av. Perché non c’è gioia maggiore di quella provata da colui al quale sono stati perdonati gli errori commessi. Secondo la Meghillat Ta’anit, il 15 di Av non si fanno manifestazioni di lutto in quanto la giornata è legata alla raccolta del legname per il Santuario (Nehemia 10, 35). Le fonti talmudiche affermano che in questo giorno sono state abrogate alcune limitazioni nel campo matrimoniale. Si ricorderà che nel libro dei Numeri, a proposito delle “figlie di Tselofchad” (cap. 36), per evitare che vi fossero trasferimenti di proprietà terriera fra una tribù e l’altra, fu stabilito che una donna erede di una famiglia priva di figli maschi non potesse sposare un membro di altra tribù. Si racconta anche che, in relazione al triste episodio della “concubina” (Giud. 19-20,21) i rappresentanti delle varie tribù si impegnarono a non consentire le nozze con una donna appartenente alla tribù di Beniamino. Il 15 di Av fu stabilito che le suddette deliberazioni riguardavano solo la generazione nella quale furono prese. Secondo il Talmud, il 15 di Av, Hoshèa’, figlio di Elà, ultimo re di Israele, abolì i posti di blocco istituiti da Geroboamo ai confini col territorio di Giuda. Veniva in tal modo sollecitata la riunificazione tra il territorio del Regno di Giuda e quello del Regno d’Israele (Ta’anit 30). Il 15 di Av ricorda anche la revoca del provvedimento delle autorità romane di dare sepolture ai caduti della fortezza di Betar (135) strenuamente difesa dai combattenti di Bar Kokhbà. Nonostante i cadaveri fossero stati abbandonati all’aperto per lungo tempo, furono miracolsamente trovati integri. Per celebrare l’evento fu istituita una benedizione supplementare (Hatov Vehametiv) nel Birkat Hamazon, la formula da recitarsi dopo il pasto (Bava Batrà, 121). Il 15 di Av viene altresì ricordato come giorno dello «spezzamento delle scuri». Infatti da questo giorno tali strumenti venivano pubblicamente spezzati in quanto non servivano più, essendo terminata la raccolta del legname per il Santuario. In quell’occasione si faceva una grande festa. (B. Batrà, 121) Si osserva altresì che il progressivo accorciarsi della luce del giorno che ha inizio nel periodo del 15 di Av predispone l’animo all’atmosfera del succesivo mese di Elul particolarmente adatto alla riflessione e alla introspezione in preparazione delle imminenti ricorrenze autunnali (Yamin Noraim). il testo fondamentale della Kabalà, la mistica ebraica, raccomanda di celebrare il 15 di Av con manifestazioni di allegria perché in questo giorno la Provvidenza è particolarmente disposta alla benevolenza nei confronti dell’uomo. Viene anche suggerito di dedicare la notte allo studio di Torà. Sono dunque tante le motivazioni proposte sui significati della ricorrenza. In relazione al passo della Mishnà riportato all’inizio c’è chi ha formulato due curiose affermazioni. Si è visto che il 15 di Av le fanciulle uscivano a ballare, presumibilmente in cerchio, vestite di bianco. Il termine “Av” designa un mese dell’anno ebraico, ma è composto dalle prime due lettere dell’alfabeto: Alef Bet. Da notare che nell’alfabeto ebraico la quindicesima lettera è la Samekh, che ha la forma di un cerchio ed evoca pertanto la danza in circolo, nella quale tutti i danzatori si possono guardare l’un l’altro e si trovano tutti in situazione di uguaglianza. Inoltre si afferma che nei tempi messianici, il Santo Benedetto parteciperà alla danza festosa dei giusti ponendosi in mezzo a loro. Qualcuno sostiene che la danza organizzata per i giusti avrà luogo nel Gan Eden. In quell’occasione l’Eterno sarà al centro del cerchio e ognuno dei partecipanti Lo additerà agli altri esclamando: «Ecco questo è il nostro Dio nel quale abbiamo confidato…. Gioiamo e rallegriamoci nella Sua salvezza». (Isaia 25, 9) E quanto al colore bianco richiesto per le vesti delle fanciulle, questo, secondo alcuni, è composto da vari colori che rappresentano la varietà del nostro mondo materiale. Ma, il mondo futuro non avrà alcunchè di materiale e pertanto non vi sarà più bisogno di indossare abiti bianchi. Oggi, nel risorto Stato di Israele è ripreso l’uso di dar vita, in occasione di Tu Beav ad allegri incontri campestri fra giovani, a feste di fidanzamento e riunioni di riconciliazione.

Rav Luciano Meir Caro, rabbino capo della Comunità Ebraica di Ferrara
e membro della Consulta Rabbinica, Pagine Ebraiche, agosto 2010



Redazione aperta - Tu beAv sul Carso

 
tu beavLa Comunità Ebraica di Trieste ha festeggiato Tu beAv, festa agricola e dell'amore dalle radici antichissime (è così antica che rimane aperta una discussione fra i Maestri per stabilirne le motivazioni), con una cena aperta a tutta la cittadinanza e un concerto cui hanno partecipato formazioni musicali da Israele e dall'Europa. Diverse centinaia di cittadini hanno raggiunto la Colonia di Opicina, sul Carso triestino, dove in questi giorni fra l'altro si svolgono i lavori di Redazione aperta, per un evento a base di musica, poesia e cucina creativa e omaggio al dono dei frutti della terra.

 
 
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  Benamozegh, il cristianesimo e il «disprezzo del corpo»

donatella di cesareNel suo libro Morale ebraica e morale cristiana del 1867 Elia Benamozegh (1823-1900), il grande rabbino di Livorno, pur gettando ponti, critica a più riprese il cristianesimo. Fra l’altro tocca un punto di grande attualità.
Sostiene che l’equilibro dell’ebraismo viene sbilanciato dal cristianesimo verso la spiritualità. Le conseguenze sono gravi. Perché la proclamazione avventata del regno dello spirito porta ad un «disprezzo del corpo». E da questo disprezzo non risultano solo «prodigi di virtù». Al contrario, come la storia prova, possono derivare paradossalmente anche «il più vile materialismo, la licenza più sfrenata, l’immoralità più mostruosa».
Abbandonato a se stesso, il corpo reagisce e si ribella con intemperanza e sregolatezza. A differenza della morale ebraica, quella cristiana va così incontro ad una inevitabile «degenerazione». E non si tratta solo di un incidente. A provocarla sono gli stessi fondamenti teorici del cristianesimo. Ecco perché al suo interno si ripetono – scrive Benamozegh – fenomeni di «immoralità istituzionale». 

Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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rassegna stampa    
 
 
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È reato dichiarare falso il Diario di Anna Frank
Sentenza esemplare per l'ex presidente della sezione renana del Partito dei nazionalisti svizzeri (Pnos). Il tribunale penale di Basilea, in Svizzera, ha condannato l'uomo (di appena 22 anni di età) a una pena pecuniaria di 90 aliquote giornaliere di 120 franchi per un totale di 10.800 franchi (al posto delle 60 proposte inizialmente). Il tutto, per aver definito un falso il diario di Anna Frank. Il giovane è stato riconosciuto colpevole dai togati svizzeri di discriminazione razziale a causa di un contributo da lui pubblicato sul sito Internet del Pnos dal titolo «Die Lugen um Anne Frank», ovvero «Le bugie attorno ad Anna Frank». L'articolo metteva in dubbio l'autenticità del racconto della ragazza ebrea che visse in clandestinità ad Amsterdam per cercare di sfuggire all'Olocausto. La teoria esposta dal giovane svizzero si rifà a quella apparsa sul settimanale tedesco Der Spiegel che nel 1980 esprimeva già alcuni dubbi sulla questione Anna Frank citando una perizia del ministero di giustizia tedesco. Quattro anni fa, tuttavia, le autorità investigative tedesche avevano chiuso definitivamente il caso affermando l'autenticità del diario e sostenendo che l'inchiesta non aveva fatto trapelare alcun sospetto sulle verità riportate nel diario di Anna Frank. «Chi definisce bugiardo chi è stato vittima dell'Olocausto compie una mostruosità», ha tagliato corto il procuratore di Berna nel corso dell'arringa. «E'come se le vittime, attraverso queste affermazioni, venissero uccise una volta ancora». Tesi accolta dal giudici che hanno deciso di procedere. 

Italia Oggi Sette, 26 luglio 2010

 
 
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notizieflash    
 
 
Visita di Shimon Peres al campo di concentramento                     di  Jasenovac, "l'Auschwitz croato"          
Jasenovac (Croazia), 25 lug -

Il presidente israeliano Shimon Peres ha visitato  il sito del campo di concentramento croato a Jasenovac (un centinaio di chilometri sud est di Zagabria) ove perirono durante la Seconda Guerra Mondiale migliaia di serbi e di ebrei vittime del regine filo nazista croato. Accompagnato dal suo omologo croato Ivo Josipovic, Peres ha visitato anche il museo del campo, definito l' 'Auschwitz croato' e ha deposto una corona al monumento alla memoria delle vittime. Peres è il secondo capo di stato israeliano a visitare Jasenovac dopo Moshe Katsav che vi si recò nel 2003. Il numero delle vittime del campo sotto il regime filo nazista, che ha sempre suscitato polemiche, varia da molte decine di migliaia a 700 mila. Nel lager morirono serbi, ebrei, rom e antifascisti croati.
 
 
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