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L'Unione informa
 
    28 luglio 2010 - 17 Av 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  adolfo locci Adolfo
Locci,

rabbino capo
di Padova
...e l'Eterno mi disse allora: "Basta, non continuare più a parlarmi di questo fatto!" (Deuteronomio 3:26). La scorsa settimana avevo scritto che il peshat (interpretazione letterale del testo), lasciasse intendere che la supplica di Moshè avesse un fine personale e che, in quanto tale, non poteva essere ascoltata. Ma ad 'Ovadià Sforno (Cesena 1470/5 - Bologna 1550), l'immagine del nostro più grande profeta che prega per se stesso, non piace e così commenta al riguardo: "perché desideravo fortemente mantenervi in essa, affinché non siate mai esiliati da essa, mentre Egli già aveva decretato che la vostra discendenza sarebbe andata in esilio". Ben diversa allora è la situazione per il rabbino romagnolo: Moshè Rabbenu che secondo il salmista era stato reso "di poco inferiore agli angeli" (Salmi 8:6) era a conoscenza del fatto che il popolo da lui guidato fino alle soglie di Eretz Israel, in futuro sarebbe stato esiliato da essa. Dunque, forte delle sue esperienze positive nel far recedere il Signore dalla Sua decisione negativa, Moshè prega con fervore ed un'insistenza tale da far dire al Signore "Basta". La grandezza di una guida si vede anche quando si prende carico di quelle che, dai più, sono considerate solo "cause perse"... 
Jerrold Nadler, deputato democratico di Washington eletto a Manhattan, sta incontrando un'insolita difficoltà a raccogliere fondi in vista delle elezioni di novembre per il Congresso. Ebreo e sionista, come gran parte dei suoi elettori, nella telefonata a un finanziatore liberal di vecchia data, si è sentito rispondere: "Scusami tanto Jerrold, ma questa volta la mia donazione va ai repubblicani". Effetto Obama. Maurizio Molinari, giornalista maurizio molinari  
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Qui Milano -
L'aragosta e la questione ebraica
Quali rabbini, crisi e speranze

barchetta Una denuncia formale recapitata nella seconda metà del mese di luglio all'Ufficio rabbinico di Milano e il giudizio di un tribunale rabbinico che con ogni probabilità ne sarà la conseguenza, manifestano un fatto fino a ieri difficilmente concepibile e sembrano riassumere tutti gli elementi della grande mutazione che la minoranza ebraica in Italia e con essa il suo rabbinato stanno attraversando. La guida spirituale del movimento ebraico riformato milanese Lev Chadash affiliato alla World Union for Progressive Judaism (una particolarità nel panorama ebraico italiano, che fa tradizionalmente riferimento all'ebraismo ortodosso), accusa un rabbino milanese del movimento chassidico dei Lubavich (un'altra particolarità, presente ormai in Italia da anni, ma proveniente da tradizioni nate altrove) di aver diffuso notizie false e infamanti sulle attività del proprio gruppo ebraico. A dirimere la controversia e a fare giustizia è chiamato un collegio giudicante composto di rabbini che si identificano nella via ortodossa italiana. Al di là del contenuto di questa specifica vertenza ci troviamo di fronte alla conferma della centralità del ruolo e dell'autorevolezza del rabbinato italiano. In ogni caso un fatto nuovo. Un episodio che si inquadra nel dibattito già molto acceso e ricco di spunti. Un confronto che concentra grande attenzione sul mondo rabbinico e che evidenzia una realtà nuova, certo meno stabile, più ricca di contraddizioni e di rischi. Ma anche densa di quelle sfide e di quelle potenzialità che in oltre due millenni di storia la più antica comunità della Diaspora è spesso riuscita a tramutare, con equilibrio e creatività in una ricetta originale di crescita e di fedeltà alle proprie autentiche radici.

Pagine Ebraiche, agosto 2010

 
 
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  Prese di coscienza
 

Francesco lucrezi Un’intervista rilasciata dalla celebre astrofisica Margherita Hack sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche ha sollevato nuovamente l’antico problema dell’impegno civile e della responsabilità morale dell’intellettuale. La Hack ha ricordato il contributo dato alla sua formazione dagli insegnamenti della professoressa Enrica Calabresi, costretta a lasciare la Cattedra per la sua condizione di ebrea, poi arrestata, nel 1944, e morta suicida. Confessa, a tale proposito, di non avere avuto il coraggio, a quei tempi, di manifestare la sua solidarietà alla scienziata perseguitata, e di non essersi mai riuscita a perdonare tale scelta di passività.
L’intervista ha sollecitato un intervento, su l'Unione informa di giovedì scorso, della lettrice Sharon Nizza, la quale ha colto l’occasione per ricordare le ripetute posizioni violentemente anti-israeliane espresse dall’astrofisica, in numerose occasioni (per esempio, nell’appello “Gaza vivrà”, in cui si evocano i campi di concentramento nazisti e si accusa lo Stato di Israele di deliberato “genocidio” ai danni di cittadini inermi), rammaricandosi che, nell’intervista citata, non le sia stato chiesto conto di tali affermazioni. E Ugo Volli, domenica 25 luglio, ha espresso delle interessanti considerazioni sulla fascinazione spesso esercitata sugli intellettuali dalle ideologie totalitarie e illiberali (ieri il fascismo, poi il comunismo, oggi pacifismo radicale, terzomondismo ecc.), attestata, nel nostro Paese, dai molti casi di uomini di pensiero disinvoltamente passati, nel dopoguerra, dalla militanza fascista a quella comunista.
A mio avviso, dovrebbe essere effettuata una netta distinzione tra le posizioni politiche assunte da tali persone, in giovane età, sotto il regime fascista, e le scelte e le opinioni maturante successivamente, dopo la guerra.
Durante il fascismo, come si sa, l’intera società italiana era permeata dal pensiero unico, dal mito del ‘capo’ e dal culto dell’autorità, il servilismo regnava sovrano, la parola ‘democrazia’ era usata in senso dispregiativo, il dissenso era pressoché clandestino. E, per quanto riguarda gli ebrei, l’opinione pubblica era fortemente condizionata dalle posizioni della Chiesa, ancora improntate a un sostanziale, sistematico antisemitismo. E nessuno, soprattutto, avrebbe potuto neanche lontanamente immaginare fin dove avrebbe potuto condurre il delirio nazista. Ciò spiega come il manifesto della razza e le leggi del ‘38 e del ’39 siano stati accolti in una generale indifferenza, al di là dell’entusiasmo delle frange più violente del regime e dell’indignazione di pochi coraggiosi. Perfino alcuni ebrei, com’è noto, cercarono di riconquistare la fiducia del Duce, organizzando dei pogrom punitivi (il triste caso di Ettore Ovazza) contro altri ebrei, considerati… “più ebrei” di loro!
È in tale contesto che viveva la giovane Hack, quando assistette in silenzio all’epurazione della sua maestra. Quanti, in coscienza, possono dire che, cresciuti in quell’epoca, con quella formazione, quell’educazione al conformismo e all’obbedienza, si sarebbero comportati diversamente? Eppure, di tale pavidità giovanile la Hack appare sinceramente contrita, tanto da dire di non riuscire ancora a perdonarsi. È, certamente, una manifestazione di sensibilità che le fa onore, e che le va riconosciuta.
Le posizioni politiche – della Hack e di chiunque altro - espresse ai giorni d’oggi, però, vanno valutate, necessariamente, in modo diverso, direi senza ‘sconti’ e ‘indulgenze’. Oggi non c’è più il pensiero unico, non c’è un capo a cui ubbidire, la dignità dell’uomo non dipende da divise e gagliardetti. I valori della democrazia, della civile convivenza tra i popoli, della tolleranza e della pace sono, almeno a parole, universalmente condivisi. Non dovrebbe essere così difficile capire chi difende questi valori, e chi invece li calpesta. E, dopo Auschwitz, il mondo sa, o dovrebbe sapere, a cosa possa portare l’odio antiebraico. Coloro che hanno firmato un appello come “Gaza vivrà” non possono, in nessun modo, essere giustificati.
Certo, come ha ricordato Guido Vitale, in risposta alla lettrice Nizza, la Hack è stata intervistata come donna di scienza, e non certo per le sue opinioni su Israele. Tali opinioni non faranno venire meno la stima per la scienziata, ma neanche la stima per la scienziata farà venire meno il severo giudizio sulle sue opinioni: per le quali vorremmo sperare in un cenno di resipiscenza, analogo a quello nobilmente espresso per la vicenda di Enrica Calabresi.

Francesco Lucrezi, storico 
 
 
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Tra le notizie che difficilmente troveremo nei nostri giornali, neppure nei prossimi giorni, è la vicenda di Elinor Joseph, una ragazza araba cristiana di Haifa. Essa è entrata a far parte delle truppe di combattimento di IDF del battaglione Karakal, e potrà vantarsi di essere la prima donna araba che sia diventata una soldatessa combattente; Elinor è figlia d’arte, dal momento che già suo padre militò tra i paracadutisti. A chi le ha chiesto se non si senta a disagio a dover uccidere arabi, ha risposto candidamente che Israele è il paese nel quale è nata, e che neppure gli arabi si preoccupano se uccidono altri arabi quando sparano le loro katyusha contro Israele (un attacco di Hezbollah ha rischiato di colpire anche la sua abitazione). Su tutti i giornali di oggi viene invece dato grande rilievo alla visita del primo ministro inglese Cameron in Turchia; nel tentativo di salvaguardare gli interessi della BP egli attacca la politica franco tedesca che si oppone all’entrata della Turchia nella UE, e parlando agli industriali turchi coi quali intende firmare numerosi contratti (ahi, la solita economia che detta le linee della politica) definisce Gaza “un campo di prigionia” e condanna l’assalto israeliano alla flotilla. Bene fa il Foglio a ricordare che, in preparazione a questa visita, il governo turco ha provveduto a far cancellare, nei giorni scorsi, una multa comminata alla BP di 313 milioni di dollari. Parlando anche di Gaza si apprende, nello stesso articolo, che Hamas ha deciso di proibire le importazioni via terra, inaugurando una nuova politica del tanto peggio (per la popolazione), tanto meglio (per il regime). De Giovannangeli sull’Unità firma una lunga intervista a Burg che ha deciso di fondare un nuovo partito in Israele; il minimo che si possa dire dopo la lettura delle parole dell’ex presidente della Knesset è che dimostra di non vedere affatto i pericoli che l’islam radicale porta alla civiltà occidentale (della quale Israele è membro a pieno titolo); tra le altre dichiarazioni di Burg si osserva che egli rifiuta totalmente la definizione di Israele “Stato ebraico”. Altro argomento trattato da tutte le testate è la nuova sparata di Oliver Stone; sceglierei, tra tutte, per la completezza dell’esposizione, il Riformista; dopo aver recentemente definito Hitler un “capro espiatorio”, il regista dalle origini ebraiche per via paterna, promuovendo il suo ultimo documentario su Chavez, e mentre prepara un film sulla Shoah, ha dichiarato che Hitler ha fatto molti più danni ai russi che non agli ebrei, e che questi dominano i media e la politica americana (che, tra l’altro, egli definisce orribile per come si comporta nei confronti  dell’Iran). Subito attaccato da molte istituzioni americane Stone ha fatto intervenire il suo agente per scusarsi delle dichiarazioni maldestre; viene da chiedergli come si possano accettare simili scuse considerata la continuità nel tempo di certe affermazioni. L’unica spiegazione alle scuse che mi viene in mente è legata alla necessità di propagandare alla meno peggio i suoi lavori. Particolarmente gravi sono le parole contenute nell’articolo di Janki Cingoli su Europa, a margine di un convegno sull’integrazione degli altoatesini di lingua tedesca al quale hanno partecipato anche alcuni israeliani; Cingoli mette i 300.000 italiani di lingua tedesca a confronto con l’intera popolazione italiana anziché con quella della loro regione, e fa un paragone con gli arabi in Israele, nascondendo le condizioni di parità delle quali godono tutti i cittadini israeliani. Appare difficile comprendere perché, se l’Italia è la nazione degli italiani, Israele non possa definirsi uno stato ebraico. Cingoli inoltre rifiuta le proposte di scambi territoriali che non sono solo l’idea di qualche ministro in carica, ma di tutti i precedenti governi israeliani. Nell’articolo, infine, si parla, tra numerosi errori, della solita apartheid e di tante altre sciocchezze. Molto interessante sul Foglio la recensione del libro di Giorgio Israel: Il fascismo e la razza, nel quale l’amico Giorgio ha voluto, da par suo, andare oltre la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Interessante pure l’articolo di Gabriele Bedarida su l’Avanti che ci presenta la Livorno ebraica dalla cacciata degli ebrei dalla penisola iberica fino al secolo scorso. Ancora l’Avanti ritorna sulla decisione del Rettore dell’Università di Aix-en Provence di annullare il convegno dal titolo: Scrivere oggi nel Mediterraneo, dopo il rifiuto, da parte degli arabi, di sedere accanto agli israeliani. Sarebbe interessante aprire un dibattito su che cosa sia meglio fare in simili circostanze: annullare i convegni o tenerli ugualmente con la sola presenza di che accetta di sedersi accanto agli israeliani?

Emanuel Segre Amar 

 
 
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notizieflash    
 
 
Israele, il quotidiano Yediot Ahronot perde il primato                    
Tel Aviv, 28 lug -
Il quotidiano israeliano Yediot Ahronot non è più al primo posto assoluto come diffusione ed è stato affiancato, secondo un'indagine condotta dalla società specializzata Tgi, dal quotidiano gratuito e filo-governativo Israel ha-Yom. La notizia ha procurato un vero e proprio terremoto nel mondo della carta stampata israeliana.  Finanziato dall'uomo di affari statunitense Sheldon Adelson, il free-press Israel ha-Yom ha iniziato le pubblicazioni tre anni fa ed esce sei giorni su sette con una tiratura media di 350 mila copie. Nell'ultimo anno, secondo Tgi, Israel ha-Yom è stato letto quotidianamente dal 35 per cento degli israeliani adulti che si esprimono in ebraico (nel 2009 la sua percentuale era del 27 per cento). Anche Yediot Ahronot, aggiunge Tgi, viene letto quotidianamente dal 35 per cento degli israeliani mentre Maariv resta distanziato al terzo posto (13,6 per cento). Nel 2010 il numero complessivo dei lettori di giornali è salito - dopo un periodo di flessione - al 62,8 per cento degli adulti che si esprimono in ebraico. Si tratta, secondo Tgi, di una percentuale molto elevata rispetto ad altri Paesi occidentali.


 
 
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