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L'Unione informa
 
    2 agosto 2010 - 22 Av 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Sulla terra d'Israele, dice la Torà (parashà di Eqev) gli "occhi" del Signore sono dall'inizio alla fine dell'anno. Perché proprio gli occhi? C'è chi spiega questo strano antropomorfismo pensando al fatto che nella superficie del corpo umano gli occhi sono quella parte che non sopporta il contatto con un corpo estraneo.
Ogni volta ce ne scandalizziamo, e facciamo bene, perché se non lo facessimo diventerebbe un comportamento accettato: la smania di mostrarsi in TV nel caso di sciagure e disgrazie, di far ciao con la mano dietro alle rovine a ai cadaveri, come ad Afragola ieri, come in tante, troppe, vicende del passato. Si è veri solo se si è sul piccolo schermo, dunque. Ma ancora: si può orientare, guidare, solo dalla TV, e in particolare dai talk show? Ed ora, nella crisi politica che attraversiamo, ecco la proposta, non importa da chi venga, di riaprire i talk show chiusi per le grandi vacanze d'agosto, perché il popolo incerto possa "approfondire" la crisi attraverso le parole contrapposte degli ospiti dei talk show. Vi rendete conto a quale livello di dipendenza e di pubblica ignoranza siamo arrivati? Dopo la morte, anche la politica è ormai più solo spettacolo.
Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Europei basket: Italia - Israele, in palio mezza qualificazione

italia israeleStasera tutti sintonizzati sulle frequenze di Rai Sport: alle 20.30 è in programma Italia-Israele, incontro inaugurale del girone A di qualificazione agli Europei di basket del 2011 in Lituania. Scenario della sfida, sulla carta molto equilibrata, il Palaflorio di Bari. Davanti a circa 3000 spettatori si daranno battaglia le due squadre migliori del girone insieme al Montenegro: gli azzurri sono alla disperata ricerca di un rilancio dopo alcune stagioni a dir poco disastrose, la nazionale israeliana è da tempo una realtà a livello continentale. Il match vale mezza qualificazione: a Vilnius andranno (evitando ulteriori spareggi e brividi) solo le prime e le due migliori seconde dei vari raggruppamenti, quindi meglio non rischiare e iniziare il viaggio verso nord con due punti. In campo un pezzo di Nba: il neo ct Pianigiani si affida ai numeri di Bargnani e Belinelli, mentre gli ospiti hanno nella classe di Casspi il valore aggiunto. Oltre alla star dei Sacramento Kings, occhi puntati sulle triple di Bluthenthal e sulle giocate del play Halperin. Ansia e speranza in Casa Italia. Marco Belinelli, guardia dei Toronto Raptors e uomo simbolo del nuovo corso azzurro, è fiducioso: “C’è un certo nervosismo ma siamo un bel gruppo e abbiamo le potenzialità per risalire ai livelli che ci competono. Israele? Una buona squadra con grosse individualità”. Omri Casspi, re israeliano del canestro, vende cara la pelle: “Quello di stasera è un incontro fondamentale perchè la squadra che vince diventa il team da battere”. Il ragazzo di Tel Aviv indica la via: “Gli italiani sentono molta pressione dovuta alla recente crisi di risultati, dobbiamo approfittarne per vincere”.

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Presenza ebraica a Pitigliano


pitiglianoVorrei ringraziare Michael Calimani e tutta la redazione di Pagine Ebraiche per aver dato spazio nel numero di agosto alla nostra realtà di Pitigliano nell'ambito del dossier dedicato a Livorno. Devo tuttavia rilevare un'inesattezza, a mio parere significativa. La foto di gruppo riportata a fianco di quella della Sinagoga restaurata, risale in realtà al 1936, data del Bar Mitzvà di Italo Servi. Come si può dedurre dal DVD "Il pane della Memoria", il cui frontespizio appare a fianco della foto di gruppo, io sono la bambina con la "frangetta", in primo piano in braccio ad una delle mie sorelle.
Una precisazione che ritengo necessaria, tanto più che nel DVD, ormai ampiamente diffuso, quella foto appare più volte.

Elena Servi,  Presidente  de "La Piccola Gerusalemme" 
 
 
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  Hegel e lo Shabbat
 

donatella di cesare Hegel fu tra i filosofi che si fecero promotori dell’emancipazione degli ebrei. Ma questo non gli impedì di essere profondamente anti-ebraico e di pronunciare giudizi molto gravi che riflettono la diffamazione volgare legittimandola filosoficamente.
Colpisce in particolare la sua sprezzante condanna dello Shabbat. Negli Scritti teologico-giovanili, dove all’ebraismo vengono dedicate pagine dure e liquidatrici, antichi stereotipi si mescolano a nuove riprensioni e condanne. E a proposito dello Shabbat Hegel osserva: questo «riposo dal lavoro» può essere gradito solo «a chi è schiavo», non «agli uomini liberi e vivi». Perché «tenersi un intero giorno in un vuoto completo, in un’oziosa unità di spirito, fare del tempo dedicato a Dio un periodo vuoto, e far ritornare così spesso questo vuoto», poteva capitare solo a un popolo in grado di sopportare il vuoto supremo, a un popolo che crede che la vita, pur provenendo da D-o, sia a D-o «estranea».
Era in effetti molto lontano Hegel dall’aver sia pure lontanamente intuito la Presenza ineffabile del D-o di Israele, quel Vuoto separato e estraneo da cui ogni settimana il popolo ebraico trae sovranamente la forza di ricominciare.

Donatella Di Cesare, filosofa
 
 
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Prosegue la querelle sull’«aragosta a cena», della quale oggi ci dà notizia Carlo Baroni sul  Corriere della Sera. La vicenda, che va al di là della diatriba rabbinica e del rispetto delle più elementari regole della kasherut, può essere letta in molti modi. Esulando dalle sgradevolezze del caso – il cui oggetto pare in sé pare inverosimile, ma non sta a noi dirlo, essendo altri chiamati a un pronunciamento di merito  – rimane il fatto che è, a modo suo, un segno del mutamento dell’ebraismo italiano, della sua inevitabile apertura ad un rinnovato pluralismo, come già Pagine ebraiche ha avuto modo di segnalare. Andando oltre registriamo che, come d’abitudine, l’estate si porta appresso la bonaccia e la risacca della apparente mancanza di novità, ovvero del loro reiterarsi sotto le sembianze del già visto, del già detto, del già raccontato. Il clima che si ingenera è quello della spensierata stanchezza, per così dire, saturi come siamo delle passate stagioni, quando in più di una circostanza ci si è invece trovati a ridosso di eventi impellenti. A ciò in questi giorni si aggiunge, però, una percezione a tratti sinistra, un po’ come quando si è in quell’occhio del ciclone dove tutto sembra apparentemente calmo mentre intorno infuria la tempesta. Christian Rocca, su il Sole 24 Ore di mercoledì 28 luglio, ci indica che l’ipotesi di un intervento chirurgico contro il crescente potenziale nucleare iraniano – spada di Damocle brandita da Mahmud Ahmadinejad non solo su Israele ma sull’intero mondo arabo – non è poi così lontano dalla sua traduzione in fatti. Se per lo Stato ebraico si tratta di una questione di vita o di morte, un problema quindi inderogabile, non di meno per i paesi limitrofi vedono con crescente preoccupazione l’evoluzione del quadro regionale. In prima linea contro Teheran sono l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo, che dalla calamitosità del despota iraniano sanno di potere ricavare solo instabilità a venire. Peraltro un paese che ci riserverà, di qui a non molto, altre sorprese (e non è detto che siano delle più avvincenti), è quel Libano al cui capezzale sono accorsi il presidente siriano Bashar al-Assad (patrocinatore della componente sciita) e il re saudita Abdullah bin Abdel Aziz (sostenitore di quella sunnita). La stampa quotidiana se ne è occupata nei giorni scorsi con diversi articoli, tra i quali segnaliamo quelli di Francesca Paci su la Stampa, Roberto Bongiorni per il Sole 24 Ore, Gilles Paris su le Monde il Foglio, tutti nella giornata di sabato 31 luglio. La tensione sta salendo, come registra Andrea Riccardi su il Corriere della Sera di domenica 1 agosto, poiché il tribunale delle Nazioni Unite, che indaga sull’assassinio dell’ex Primo ministro Rafiq Hariri, ucciso a Beirut con un’autobomba il 14 febbraio del 2005, potrebbe porre in stato di incriminazione alcuni leader di Hezbollah. I quali, come rileva Paul Salem su l’Espresso, sono in fermento, avendo già ricostruito l’arsenale che nel 2006 l’operazione condotta dall’esercito israeliano aveva in parte smantellato. Peraltro gli sciiti libanesi, dopo la morte dell’ayatollah Mohammad Fadlallah, «fonte di emulazione» teologica e figura carismatica dell’universo fondamentalista, dovranno ora scegliere il suo successore, già dividendosi tra quanti si riconoscono nel suo omologo ottuagenario di Najaf, l’iracheno Al Sistani, o nel più conservatore Ali Khamenei, di stretta osservanza iraniana. In mezzo ai due poli sta il segretario politico di Hezbollah, quel pesce in barile di Hassan Nasrallah che, come sottolinea Michele Giorgio su il Manifesto, punta invece ad un maggiore radicamento nella medesima realtà libanese. In questi i giorni i mezzi di comunicazione di mezzo mondo hanno inoltre parlato della «fuga di notizie» che ha coinvolto il sito Wikileaks. L’esibizione online di circa novantamila file contenenti documenti riservarti, ed in parte segreti, sulla guerra americana in Afghanistan, per il periodo che va dal 2004 al 2010, laddove si va nei dettagli di un grande numero di operazioni condotte nei sei lunghi anni, ha rivelato quel che già si sapeva, ossia che il «re è nudo». Per parafrasare Lucio Caracciolo, su la Repubblica di giovedì 29 luglio, si tratta di una «guerra perduta». Su due piani: quello degli obiettivi (soprattutto sconfiggere i talebani, assicurando inoltre l’Afghanistan alla sfera di influenza occidentale), che non sono stati raggiunti, subentrando così, dopo ben nove anni di impegno militare, l’effetto di pericolosa saturazione per la quale ciò che più importa, a tale punto, è come lasciare il campo onorevolmente, al di là di altre, non meno impellenti considerazioni; ma anche sul versante dei costi materiali, sia umani (lievitanti per il prolungarsi ad infinitum delle operazioni militari) che economici. Più facile pensare – e non si tratta di cinismo – che la democrazia americana possa andare in crisi soprattutto in ragione degli oneri materiali: così fu per la vicenda vietnamita, che in questo caso non si sta pedissequamente ripetendo ma che lascia trasparire una sorta di precedente molto pericoloso per l’Amministrazione Obama, che tra poco più di due mesi affronterà le elezioni di medio termine, turning point in attesa della campagna presidenziale del 2012. I novantunmilasettecentotrentuno documenti «sensibili», che sono ora a disposizione del grande pubblico, in fondo non dicono nulla di nuovo. Semmai confermano quello che già da alcuni anni si andava sussurrando nelle camere e nei corridoi degli analisti: non è possibile mutare lo scenario afgano con il ricorso alla sola leva militare. Tanto più se dietro i gruppi fondamentalisti, tenacemente radicati nella popolazione pashtun, e protetti in vario modo dal Pakistan, i cui potenti servizi segreti da sempre giocano contemporaneamente su due tavoli, ci sono interessi di ampia portata, a partire dai mercati dell’illegalità (dalla droga e dalle armi, passando per gli equilibri nucleari della regione per arrivare al controllo delle grandi risorse energetiche). Si metta allora in relazione questo scenario con quello che va delineandosi, peraltro ancora confusamente, in aree un po’ più prossime a noi, ossia il Mediterraneo balcanico e la regione caucasica, di cui parla Luigi De Biase su il Foglio di sabato 31 luglio. Il calcolo turco di costruire, step-by-step, una sua ampia zona di influenza si incontra, come rileva l’autore dell’articolo, con la possibilità, per il governo Erdogan, «di costruire rapporti solidi con i paesi dell’Asia centrale, che hanno radici turcomanne e possiedono grandi risorse energetiche inutilizzate». Emerge ancora una volta una chiave di lettura, quella delle solidarietà etnolinguistiche che, in epoca postcoloniale, quando si addivenne al moderno sistema di Stati del Medio Oriente, fu abbondantemente sottovalutata dai suoi patrocinatori occidentali. In età di globalizzazione, dove le fragili lealtà verso comunità politica tendenzialmente deboli sono ancora di più messe in discussione dalle trasformazioni economiche, che colpiscono vorticosamente un po’ tutte le società nazionali, il legame più antico (e arcaico) di matrice culturale, sembra sopravvivere ai mutamenti in corso, divenendo grimaldello per la ricostruzione di antiche solidarietà e la definizione di nuove reciprocità politiche. Ne sono consapevoli i protagonisti locali quando fanno ricorso a «strumenti terzi», come la «questione palestinese», per rimettere in moto una politica, quella mediorientale, altrimenti inceppata. Così va scrivendo Camille Eid su l’ Avvenire del 1 agosto, con l’intervista a Amine Kammourieh, analista libanese. Va letto in tal senso, inoltre, il pressante invito che la Lega araba ha rivolto a Abu Mazen affinché riprenda i colloqui con Gerusalemme. Così il Foglio del 31 luglio, ma anche Laurent Zecchini su Le Monde della stessa giornata. Dopo di che, si prenda in considerazione quanto va scrivendo l’autorevole Efraim Karsh sull’Herald Tribune di oggi, laddove la nota che rileva come dominante è l’«apathy», l’apatia verso una «causa» che è stata abbondantemente manipolata dai suoi interessati patrocinatori nei decenni trascorsi. Certo, ad Obama occorrerebbe per davvero una ripresa in grande stile della negoziazioni, per potere spostare l’asse dell’attenzione collettiva dalle polveri afgane agli allori di un qualche successo di immagine. Ma è più plausibile che nel mentre i Territori palestinesi si tirino su da sé, un po’ come ci racconta Ilaria De Bonis su il Messaggero di questa mattina, in attesa di una «pace» che ha invece il sapore della chimera, se le disposizioni d’animo non dovessero per davvero mutare. Poiché, altrimenti, in Medio Oriente è più facile che il celebrato cammello passi per la cruna dell’ago (tanto per citare una fonte ebraica...).

 
Claudio Vercelli

 
 
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Razzi palestinesi colpiscono Eilat e Akaba                                        
Gerusalemme, 2 ago -
La polizia israeliana ha riferito oggi che cinque razzi a corto raggio, provenienti dal Sinai egiziano hanno colpito poco prima delle otto Eilat in Israele e Akaba in territorio giordano. Una fonte del ministero dell'Interno giordano ha detto che quattro civili sono rimasti feriti, uno dei quali in modo grave, quando un razzo ha colpito l'area di un hotel nel porto di Aqaba. La polizia israeliana ha detto invece di non avere notizia di vittime. Moshe Cohen, comandante distrettuale della polizia di Eilat, ha detto a Radio Israele che i suoi uomini stanno ancora cercando conferma che le cinque esplosioni avvertite stamattina fossero dovute a un bombardamento. Sembra che due dei presunti razzi (o granate) - ha agiunto Cohen - siano caduti in mare, mentre un altro ha colpito Aqaba. Alla domanda sulla provenienza dell'attacco, Cohen ha risposto che "è un po' presto per dirlo, ma è ragionevole ritenere che sia giunto dalla zona meridionale", riferendosi al confinante Egitto, il cui deserto del Sinai ha assistito ad alcuni episodi violenti attribuiti ai militanti islamici.
 
 
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