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L'Unione informa |
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11 agosto 2010 - 1 Elul 5770 |
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alef/tav |
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Adolfo Locci, rabbino capo di Padova |
L'ordine
di nominare un re, annoverato nel computo delle mitzwoth affermative
della parashà di Shofetim, presenta alcune perplessità. Quella più
eclatante è sottolineata dal Nachmanide (Ramba"n 1194 -1270) il quale
si chiede per quale ragione la Torà ordini questa mitzwà come risposta
ad una richiesta del popolo motivata dalla grave espressione "per
essere come i goym intorno a me". Ciò sarebbe in forte contrasto col
principio fondamentale di non emulare ne di assimilare gli usi e i
costumi degli altri popoli. Tuttavia, una possibile soluzione a questa
incongruenza viene da Don Itzchak Abravanel (1437-1508). Il
commentatore portoghese spiega che questa mitzwà non è
obbligatoria a priori bensì rappresenta la fissazione di criteri e
comportamenti atti a salvaguardare il popolo ebraico quando si verrà a
trovare in questa pericolosa situazione. Per evitare che una
collettività segua un pericoloso "fai da te", una buona guida, a volte,
deve saper prevedere possibili problematiche future e preparare,
preventivamente, le giuste soluzioni. Chodesh Tov.
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Non cercate la verità, semplicemente smettete di nutrire opinioni. (Charlotte Joko Beck) |
Matilde Passa,
giornalista |
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davar |
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Carote e acqua di rubinetto: in Israele i ministri cambiano stile
Quella
dell’acqua, in Israele, è una questione sempre scottante. In un paese
nato nel deserto dal sogno di far fiorire il deserto, non potrebbe
essere altrimenti. Sfruttamento del fiume Giordano, impianti di
desalinizzazione, riciclo delle acque reflue. Problemi che sono
costantemente sull’agenda del Governo. Che però, dovrà smettere di
discuterne dissetandosi con costosa acqua minerale. È infatti di questi
giorni l’annuncio che alle riunioni del Consiglio dei ministri
smetteranno di essere servite le classiche bottigliette da mezzo litro.
E come si difenderanno i membri del gabinetto Netanyahu dal torrido
clima israeliano? Semplice: bevendo la più economica, ma altrettanto
sicura, acqua del rubinetto. “Oltre a essere uno spreco di denaro
pubblico, l’abitudine di servire acqua minerale dimostra mancanza di
fiducia nell’acqua di rubinetto del nostro paese, di cui, per inciso, a
essere responsabile è il Governo stesso – ha sottolineato David
Kochmeister, presidente del Forum of Water Corporations, in un
messaggio inviato al segretario di gabinetto Zvi Hauser – L’acqua del
rubinetto in Israele è pulita e salutare, pertanto non c’è nessuna
controindicazione a berla. È il momento che il Governo cominci a dare
il buon esempio”. La proposta del Forum è stata ritenuta ragionevole e
prontamente accolta da Hauser, già famoso per aver deciso di servire
alle riunioni di Governo yoghurt e verdura cruda al posto di brioche e
snack al formaggio, nel tentativo di far perdere ai pingui ministri
israeliani qualche chilo. E se qualcuno risulterà un po’ schizzinoso,
potrà sempre consolarsi aggiungendo all’acqua del rubinetto menta o
limone che – ha promesso il segretario – non mancheranno mai di essere
a disposizione. Ma qual è l’atteggiamento dei cittadini israeliani di
fronte alla scelta tra acqua minerale e del rubinetto? Secondo un
recente sondaggio pubblicato dal Jerusalem Post, soltanto un terzo
della popolazione israeliana beve regolarmente acqua del rubinetto. La
percentuale risulta più alta tra gli ultraortodossi (64 per cento) e
tra gli arabi israeliani (il 53 per cento). I più affezionati alle
bottigliette sono gli immigrati dall’ex Unione Sovietica e i giovani
under 30, con una percentuale di fan dell’acqua minerale che si aggira
intorno al 90 per cento. Eppure l’acqua israeliana è particolarmente
buona. Nel rapporto del Ministero della Salute del 2007 figura che su
86 mila campioni esaminati, sono state rilevate irregolarità solo nello
0.4 per cento dei casi, per la maggior parte dovuti a difetti nelle
tubature. La gente tuttavia resta diffidente, con oltre il 50 per cento
degli intervistati convinto che l’acqua del rubinetto sia in qualche
modo nociva per la salute. Oggi il governo cerca di cambiare le
cose, cominciando dalle proprie abitudini. Come per gli spuntini
dietetici, resta da vedere se gli israeliani saranno disposti a
seguirlo.
Rossella Tercatin
Israele e il Libano, un dialogo online
Capita,
navigando abitualmente sul web e interloquendo con molte persone, di
essere sollecitati alla riflessione da domande stimolanti, fatte da chi
chiede di capire, anche avendo opinioni diverse e non necessariamente
coincidenti con le proprie. Ibrahim Osmani, libanese di nascita ma
italiano di adozione, sulla scorta di una conversazione fatta su
Facebook, riguardo a due film israeliani che parlano in qualche modo
della sua terra natale, Valzer con Bashir, di Ari Folman (2008), e
Lebanon di Samuel Maoz (2009), mi ha chiesto se «è una pura coincidenza
che due film, usciti a poca distanza l'uno dall'altro, parlino tutti e
due dello stesso tema?», domandandomi poi se «il Libano è molto
presente nella cultura "popolare" israeliana oppure è un tema da
pacifisti intellettuali? Sono molto incuriosito da questo fatto». Non
sono israeliano e non voglio arrogarmi il diritto ad una risposta
definitiva ma ho provato a sintetizzare un piccolo decalogo di idee al
riguardo che ho raccolto, per comodità, in questo modo: 1. per
Israele la campagna militare del 1982 è stata, in termini
geostrategici, la prima guerra non strettamente difensiva bensì
offensiva, ovvero intrapresa non per una minaccia militare diretta e
immediata, costituita da un esercito straniero, bensì in ragione del
ripetuto stillicidio di tensioni e provocazioni, ovvero per a causa del
perdurare di una forte pressione ai confini settentrionali, esercitata
perlopiù dai gruppi di miliziani allora legati all’Olp di Yasser Arafat; 2.
da ciò è derivato il carattere non convenzionale di tale impresa
bellica, ponendo l'esercito nella difficile posizione di dovere
contrastare una guerriglia tanto diffusa quanto mobile e flessibile. Si
è trattata di una operazione ai limiti dell’azzardo: Israele, di
prassi, vince al primo strike, ma rischia di perdere nei conflitti di
logoramento; 3. infatti, quella che nelle intenzioni doveva
essere una Blitzkrieg, un «conflitto lampo», che avrebbe mutato gli
equilibri politici libanesi a favore dei cristiano maroniti,
rappresentati dal partito falangista della famiglia Gemayel, e spinto
l'Olp a nord di Beirut, si tramutò ben presto in una guerra di lunga
durata, basata sull'occupazione militare dei territori sotto sovranità
libanese; 4 .la scelta di privilegiare i falangisti come
interlocutori si rivelò politicamente non premiante, trascinando
esercito e politici israeliani nel ginepraio delle alleanze e delle
conflittualità locali; 5. la presenza militare israeliana, nel
sud del paese, dovette confrontarsi sempre di più con la crescita della
rappresentanza politica degli sciiti, la parte più svantaggiata del
paese, ossia con la saldatura che andò determinandosi tra una parte di
essi - rappresentanti dall'Hezbollah nascente e lievitante - e i
palestinesi dei campi profughi; 6. le stragi falangiste di Sabra
e Chatila, nel settembre del 1982, polarizzarono la coscienza nazionale
israeliana, creando le condizioni per il manifestarsi di un movimento
pacifista, Peace Now, nato in ambito non solo civile ma anche militare
(alla fine degli anni Settanta, tra i riservisti), con un programma
preciso: il ritiro dai territori occupati militarmente, al nord, in
Libano, nonché da quelli amministrati dopo le conquiste conseguite con
la guerra del 1967, ad est, ovvero in Cisgiordania. A ciò avrebbe
dovuto accompagnarsi la negoziazione definitiva del rapporto con i
palestinesi; 7. di fatto Peace Now diede nuova linfa ad una
sinistra laburista, ancora in grave crisi per la clamorosa sconfitta
elettorale subita nel 1977, quando aveva vinto il Likud di Begin, e da
allora passata ad una opposizione incapace di esercitare politicamente
(avendo perso per sempre quell'egemonia di cui aveva goduto nei decenni
precedenti, soprattutto nella società civile); 8. la guerra del
1982 (che si concluse solo con il 1985, con il definitivo ritiro
avvenuto nella cosiddetta «fascia di sicurezza», a sud del fiume
Litani) fu la prima integralmente combattuta dai figli degli anni
Sessanta, nati in un'epoca per molti aspetti "post-sionista", quando
cioè Israele si era emancipata dalle originarie condizioni di
pauperismo materiale e “ascetismo politico”, che l'aveva
obbligatoriamente caratterizzata nei primi dieci anni di vita,
accedendo ad una maggiore tranquillità economica (l'espansione del Pil,
con indici che variavano dal 4 all'8% in più per anno, durò fino al
1973) e ad uno sviluppo sociodemografico autoctono, sempre più
indipendente dai robusti flussi immigratori che l'avevano
caratterizzata precedentemente; 9. il turning point
generazionale registrato nella campagna del 1982 segnò il passaggio
dall'età dei padri (i "pionieri") a quella dei figli (i "guerrieri"
loro malgrado) che si ponevano domande sulle ragioni di ciò che
facevano e di come lo andavano facendo. Le motivazioni di questi ultimi
perdevano quella dimensione strettamente emergenziale ed esistenziale
che aveva caratterizzato i genitori, per assumere una valenza più
problematizzante. Nella condotta della campagna libanese emersero, per
una parte della popolazione israeliana, i limiti di una azione militare
senza un preciso obiettivo politico. Quest’ultimo non era mancato (lo
aveva espresso Ariel Sharon, confidando nel mutamento di equilibri
politici a Beirut e nella scelta che un nuovo governo libanese, più
favorevole ad Israele, avrebbe fatto a favore di un trattato di pace)
ma non si era avvalso di interlocutori credibili né di una strategia
militare e politica sufficientemente realista; 10.il Libano
diventò quindi, nella narrazione fattane da una parte della società
israeliana, quella che si riconosce a tutt’oggi nel cosiddetto «campo
della pace», perlopiù la sinistra, il potenziale "Vietnam di casa
nostra", intendendo con ciò un conflitto a media intensità, di lunga
durata, senza una plausibile conclusione, basato su una lunga e
logorante esposizione delle truppe (soprattutto di leva, ventenni) e
sul confronto con le popolazioni civili locali. In questo senso il
Libano entrò nella coscienza collettiva come il simbolo di una nuova
epoca per Israele. Per i sostenitori dell’opzione militare indicava i
rischi di una pratica bellica priva di razionalità; per chi riteneva
discutibile un approccio affidato unicamente alle armi demandava alla
inaffidabilità politica e morale di tale condotta. Gli uni e gli altri
non mettevano in discussione il paradigma della sicurezza ma lo
declinavano in modi, tra di loro, molto differenti. Le stagioni sono
trascorse ma l’«enigma Libano» (paese angosciante e, nel medesimo
tempo, per certi aspetti quasi seducente), agli occhi degli israeliani,
rimane irrisolto. Si tratta di un nazione che è oggi raccontata in
molti modi ma soprattutto con gli occhi di chi partecipò, giovanissimo,
alle operazioni militari che ne segnarono, come sempre capita in questi
casi, il proprio vissuto e la sua successiva identità. I film
raccontano l’irrisolto rapporto con quella storia, individuale e
collettiva.
Claudio Vercelli
Qui Livorno - Rabbini e studiosi con il sorriso dell'ironia
Narra
il Vessillo Israelitico che rav Elia Benamozegh, grande rabbino e
filosofo, entrando in una yeshivah livornese venisse attorniato dai
rabbini che gli chiesero con devozione se esistesse veramente il
malocchio. “Certamente”, rispose il Maestro aggiungendo che “un rabbino
lo mette, l’altro lo leva e poi fanno a mezzo dei soldi...”. Certo si
può essere scettici circa questo aneddoto in cui a mio parere è
comunque presente la chiave per aprire la porta della comprensione di
questa città e della sua Comunità ebraica. L’ironia, infatti, è
componente essenziale del livornese e lede il mito, guardando ad
esempio ai sonetti di Cesarino Rossi o Guido Bedarida tanto per citare
alcuni noti esempi, che l’umorismo ebraico sia solo di derivazione
askenazita. Non a caso di recente, parlando a Livorno dei diari del
grande Chidà (rav Haim Iosef David Azulay z.l.), il rabbino Alberto M.
Somekh osservava: “L’ironia, si sa, è un classico della letteratura
ebraica di ogni tempo, in quanto risponde a un’esigenza etica ben
precisa. E’ lo strumento in mano all’oratore o allo scrittore per
denigrare un personaggio che se lo merita senza scadere nel dileggio,
nell’insulto e nella maldicenza, tutte espressioni proibite dalla
Torah. Lo stesso Chidà, presentando molti suoi colleghi incontrati qua
e là in termini talvolta magniloquenti, ci lascia un legittimo dubbio
sulla reale statura di questi personaggi”. L’importanza di questo
elemento ben si coniugò a quel clima propedeutico all’evolversi di
profondi studi ebraici alimentati da eccelsi Maestri che, come lo
stesso Chidà, da questa città rimasero affascinati sino al punto di
soggiornarvi a lungo, talvolta sino al termine della loro esistenza
terrena, interagendo con la già solida tradizione rabbinica locale. Con
l’ironia labronica, anche ebraica, senza la quale si potrebbe talvolta
pensare a un carattere altrimenti spispigoloso, per alcuni magari anche
ignorantello, fecero i conti anche i rabbini che si avvicendarono alla
guida spirituale della Comunità in tempi più recenti: penso a mio padre
rav Bruno G. Polacco e a rav Isidoro Kahn (z.l.), trovando dei
paralleli caratteriali naturali e legati ai luoghi di origine. In altri
casi, come rav Laras potrebbe ben testimoniare, adattandocisi
cogliendone l’originalità. Se rav Alfredo Sabato Toaff (z.l.) invece
giocava in casa ben conoscendo la sua città e la sua Comunità
lasciandoci scritti e studi preziosi, l’esperienza acquisita a Roma
deve aver reso più facili le cose a rav Jehudah Kalon (z.l.),
prematuramente scomparso, nella sua purtroppo breve esperienza
labronica. Tocca oggi a rav Yair Didi, partendo dalla sua matrice
israeliana, amalgamarsi con quello spirito ebraico livornese che ha,
quale eccezionale testimonial nonostante decenni di lontananza, rav
Elio Toaff (nell'immagine in un disegno di Giorgio Albertini), di cui è
nota la fine e intelligente ironia. Livolno, secondo un’inflessione
dialettale che pone la elle al posto della erre, città in Toscana ma
non proprio del tutto toscana in virtù della particolare e unica
storia, unisce nell’ironia lo studioso quanto il popolano, creando un
panorama di personaggi spesso appellati con azzeccati soprannomi: un
completo e veritiero quadro storico non potrebbe essere composto
escludendo gli uni o gli altri. Non mancano ovviamente i problemi, in
città come nella Comunità, ma certamente una salda radice ironica aiuta
ad affrontare anche le avversità. Anche per gli ebrei livornesi, come
per gli altri concittadini, il legame con la città e la Comunità rimane
forte nel tempo. Città dalla storica vocazione sionista (anche il
fascismo tragicomicamente, come testimoniato da alcune carte pervenute,
temette i sionisti locali), è struggente l’addio alla città di un
livornese, immaginato in un sonetto di Guido Bedarida, che parte per
Israele dove molti sono ormai i livornesi o i loro discendenti. Non è
quindi un caso che sia questa città a vantare in Italia il primo
gemellaggio con una città israeliana, ovvero Bat Yam. Benvenuti allora
a Livorno, per la Giornata della cultura ebraica 2010 che ci vede città
capofila per l’Italia, con sana e sincera ironia.
Gadi Polacco, Pagine Ebraiche agosto 2010
Qui Locarno - Un bagaglio di umorismo ebraico in salsa berlinese
Ernst
Lubitsch (il grande regista cui il Festival del film di Locarno
rende omaggio quest'anno), nato a Berlino nel 1892 da una famiglia di
ebrei russi, decide da giovanissimo di non seguire la tradizione di
famiglia e lavorare nella sartoria del padre, ma la sua grande passione
per il teatro. Dopo aver lavorato nella compagnia di Max Reihnardt, nel
1913 debutta nel cinema come attore diventando, nel giro di pochi anni,
uno dei protagonisti del cinema tedesco del periodo Weimar. Pinkus
l’emporio della scarpa del 1916 è uno dei primi film che interpreta e
dirige. Il Pinkus del titolo si riferisce a Solomon ‘Sally’ Pinkus,
interpretato dallo stesso Lubitsch, un giovane scapestrato espulso da
scuola a causa della sua cattiva condotta. Sally inizia quindi a
lavorare come apprendista commesso in un negozio di scarpe, dove passa
la maggior parte delle giornate a flirtare con la giovane figlia del
proprietario e le belle clienti. Dopo una serie di comiche imprese,
Sally riesce ad ottenere un prestito da una ricca signorina. Così
finisce per aprire il suo negozio, l’emporio Pinkus, e in più a sposare
la sua benefattrice. Nel 1919 Lubitsch scrive, dirige ed interpreta
Meyer il berlinese. Meyer, grazie ad un falso certificato medico, si fa
spedire in Tirolo per curarsi e sfuggire così alla moglie Paula rimasta
a Berlino. Vestito con i lederhosen, Meyer s’introduce alla bella Kitty
in vacanza insieme al marito Harry. Subito cerca di sedurla usando ogni
possibile stratagemma. Il film finisce con i due che trascorrono
insieme la notte in una baita senza sapere che anche Harry e Paula, che
ha seguito di nascosto il marito da Berlino, sono lì. Se nei film del
periodo americano la matrice ebraica del suo cinema è espressa in
maniera molto discreta, nei primi film berlinesi come Pinkus o Meyer
aus Berlin, Lubitsch mette in scena storie che hanno come protagonisti
personaggi inequivocabilmente ebrei.
Non
solo per i loro nomi o per il fatto che i titoli dei dialoghi sono
infarciti di espressioni in Yiddish. Ispirati dal suo milieu fatto di
artigiani e commercianti e dalla tradizione del Purim Spiel (le
rappresentazioni teatrali messe in scena durante la festa di Purim),
questi personaggi sono fortemente stereotipati, la caricatura degli
Ostjuden, gli ebrei dell’Est Europa immigrati in Germania: arrivisti,
disonesti, opportunisti. Pinkus, infatti, diventa il proprietario di un
negozio di scarpe grazie all’imbroglio, prendendosi gioco di tutti. In
una scena di Meyer aus Berlin vediamo il protagonista a letto, la notte
prima della scalata di una montagna di 2800 metri a cui ha deciso di
partecipare per impressionare la giovane Kitty; grazie ad un montaggio
fotografico la montagna, come in un sogno, si materializza nella sua
stanza con un numero ad indicarne l’altezza. Meyer si alza dal letto e
cancella i due zeri facendo diventare la montagna alta 28 metri. Poi,
rivolgendosi alla macchina da presa e allo spettatore dice “Sapevo che
potevo contrattare con quella montagna”, in altre parole gli ebrei
cercano sempre di abbassare il prezzo. Se Lubitsch non fosse ebreo i
suoi primi film verrebbero considerati antisemiti. Queste commedie di
grandissimo successo meritano, tuttavia, una lettura più attenta: l’uso
di stereotipi antisemiti sullo schermo permette a Lubitsch di
criticarli, smontarli e, paradossalmente, riderne insieme ad un
pubblico composto per la maggior parte di non ebrei. Pensiamo soltanto
all’idea di mettere sullo schermo un ebreo che va a spasso per le Alpi,
vestito da Tirolese con corde e bastoni, cercando di sedurre una
giovane tedesca. Lubitsch mischia le carte e fa suo l’immaginario
antisemita rivelando così il fallimento del processo d’integrazione
della minoranza ebraica in Germania. Ma se i non ebrei ritrovano il
loro antisemitismo comicamente trattato in una complessa operazione
intellettuale che ne rivela l’assurdità, gli ebrei, purtroppo, sullo
schermo, vedono allontanare sempre di più il loro sogno d’integrazione
nella società tedesca del primo dopoguerra.
Rocco Giansante - Pagine Ebraiche agosto 2010
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pilpul |
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Gli antisemiti di Sua Maestà
Notevole
impatto, sull’opinione pubblica mondiale, ha avuto la recente
intervista rilasciata allo storico Benny Morris dal Presidente
israeliano Shimon Peres, il quale, a proposito dei reiterati gesti di
ostilità, di vario tipo, verso lo Stato di Israele provenienti da
diversi ambenti - politici, civili, intellettuali – del Regno Unito, ha
dichiarato di non potersene stupire, in ragione dell’antico, radicato
antisemitismo d’Oltremanica. Forte della sua indiscussa autorità
morale, il Presidente ha avuto il coraggio di dire la verità,
quantunque scomoda e “politically uncorrect”? O è caduto in una
pericolosa generalizzazione, sfiorando un increscioso incidente
diplomatico? Consigliamo, prima di dare una riposta, la lettura di
due libri, in grado di dare luce sul controverso rapporto verso il
mondo ebraico da parte dei sudditi di Sua Maestà. Il primo, Autodafé,
di Emanuele Ottolenghi (Lindau, 2007) dà un quadro preciso e
sconfortante – ricostruito per esperienza diretta - dell’estensione del
pregiudizio anti-israeliano negli ambienti culturali e accademici del
Regno, che vede moltissimi docenti e intellettuali, di diversa
formazione e collocazione politica, farsi promotori di massicce
iniziative di denuncia, boicottaggio, discriminazione ecc. che, quasi
sempre, coinvolgono l’intera società israeliana, nel suo insieme, la
quale appare integralmente criminalizzata, nella sua interezza, senza
alcun distinguo e alcuna eccezione. L’altro libro, uscito in
Italia col titolo Il muro invisibile (Piemme, 2007), è un testo di
memorie, scritto, tra il 2003 e il 2006, come opera prima, da Harry
Bernstein (all’inizio della scrittura, novantatreenne), la cui
famiglia, di ebrei originari della Polonia, visse nel Lancashire nei
primi decenni del secolo, per poi emigrare negli Stati Uniti alla
vigilia della grande depressione. In pagine piene di poesia, nostalgia
e dolore, l’autore rievoca – senza nulla aggiungere o inventare - i
lontani anni della sua infanzia, nei quali la lotta contro fame e
miseria doveva sommarsi alla quotidiana autodifesa contro le
innumerevoli angherie e vessazioni da parte della popolazione
cristiana. Tra i vari episodi narrati, c’è quello del fratello
maggiore, Joe, che, bravo nello scrivere, mandava continue richieste di
collaborazione a giornali vari, senza mai ricevere risposta. Un giorno,
una lettera arrivò, con l’offerta di un colloquio nella lontana città
di Manchester. Pieno di speranza, il ragazzo partì, col suo abito
buono, accompagnato dagli auguri festosi di tutta la famiglia. Giunto
all’appuntamento, dopo un lungo viaggio e un’attesa di molte ore, fu
finalmente ricevuto, per sentirsi dire dal Direttore che era assurdo e
offensivo che un ebreo pretendesse di fare il giornalista, e che era
ora che la smettesse di inviare quelle lettere ridicole. Uscito dal
giornale, Joe fu aggredito e pestato a sangue da alcuni teppisti, per
vendicare la morte di Gesù. E, una volta tornato a casa, il suo
racconto fece finalmente maturare nella madre la determinazione di
lasciare il Paese, per non tornarci mai più. Ai tempi
dell’infanzia di Bernstein, naturalmente, lo Stato di Israele non
esisteva, e l’accusa del deicidio rappresentava il principale pretesto
per i gesti antisemiti. Un’accusa, ovviamente, che gli intellettuali
britannici del giorno d’oggi, interessati esclusivamente a sionismo e
Palestina, non si sognerebbe mai di sollevare. Eppure, ciascuno dei due
libri aiuta a comprendere l’altro, nella misura in cui entrambi
parlano, in pratica, della stessa cosa. Continueremo sempre,
nonostante tutto, ad amare l’Inghilterra, culla della democrazia e del
diritto. Ma, proprio in ragione di tale amore, non assistiamo con
indifferenza alla recrudescenza di una sua antica malattia, dalla quale
dovrà guarire.
Francesco Lucrezi, storico
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L'Iran lancia il negazionismo via Web per irridere l'Olocausto Roma.
Mentre l'Unesco si appresta a portare a Teheran la Giornata mondiale
della filosofia, dal regime degli hayatollah arriva un mega portale
internet di vignette per irridere l'Olocausto (holocartoons.com).
L'iniziativa giunge a due giorni dal discorso in cui il presidente
iraniano Mahmud Ahmadinejad è tornato a mettere in dubbio l'Olocausto e
l'11 settembre. Parlano dell'oppressione di un gruppo - ha detto il
presidente iraniano fanno film e reportage e instillano questa idea
nelle menti della gente al punto che anche in Iran alcuni non possono
credere che si tratti di un falso . Perché ha aggiunto Ahmadinejad non
consentono alcuna ricerca se non si tratta di un falso? E se noi
invitiamo gente a venire e a fare delle ricerche, reagiscono facendo un
baccano . Nel dicembre del 2006 il governo iraniano organizzò a Teheran
una conferenza internazionale sull'Olocausto con la presenza di alcuni
dei più noti negazionisti europei e americani. L'idea ora è quella di
spiegare le tesi negazioniste dell'Olocausto attraverso vignette
satiriche. Il sito internet, in farsi arabo e inglese è prodotto da
Khakriz, un istituto di Teheran legato al ministero della Cultura. Il
fulcro di tutta la piattaforma negazionista si basa sull'idea di un
complotto ebraico per scacciare i palestinesi dalla propria terra. Il Foglio 11 agosto 2010 |
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notizieflash |
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Israele
- In caso di guerra i missili potrebbero colpire
il centro del paese Gerusalemme, 10 ago. - Il viceministro degli Esteri israeliano Matan Vilnai in
una visita a Herzliya, a nord di Tel Aviv, organizzata proprio per
discutere con le autorità locali di come affrontare un nuovo possibile
conflitto
ha dichiarato che "In un prossimo conflitto (che coinvolga
Israele, ndr) i missili (dei nemici, ndr) arriveranno fino al centro
del paese". Secondo Vilnai "bisogna prepararsi a qualsiasi
scenario". "La cosa migliore da fare è far partecipare la gente delle
città ai preparativi per un'emergenza". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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