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L'Unione informa |
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16 agosto 2010 - 6 Elul 5770 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
Se
è stato commesso un omicidio e il colpevole non si è trovato, i
responsabili del luogo devono compiere un rito espiatorio, prescritto
dalla Torà alla fine della parashà letta questo sabato. Gli anziani si
dovono recare presso un torrente etàn letteralmente "forte". Ma cos'è
un torrente forte? Secondo alcuni si tratterebbe di un fiume perenne e
quindi il senso del rito sarebbe quello che le acque si portino via per
sempre il segno del delitto. Non la pensava così ShaDaL. Per lui i
segni del delitto devono rimanere per sempre a futura memoria. E' un
bel problema. Dimenticare e ricominciare come se niente fosse stato? O
mantenere una memoria viva e drammatica che ogni giorno condiziona
l'esistenza? E come conciliare le due posizioni contrapposte con un
rapporto sereno con la legge e l'equilibrio psicologico della società?
Sono temi che affrontiamo continuamente al nostro interno quando
discutiamo sulla memoria lontana e recente, dalla shoà al terrorismo.
Ma sono temi che investono la società più ampia, anch'essa certo non
immune dal terrorismo e dal dilemma oblio/ricordo. |
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Ne ha parlato a lungo sabato scorso Claudio Magris sul Corriere della Sera,
ma per quanto ne so nessun altro ha ripreso questo tema, in
quest'estate tutta dedicata agli scandali e al gossip più banale.
Eppure, il caso è stato riproposto recentemente al festival di
Salisburgo dalla proiezione del documentario che una regista tedesca,
Nina Gladitz, ha dedicato a questa vicenda negli anni Ottanta, Tempo
del silenzio e della tenebra, e che le è costato un processo per
diffamazione da parte di Leni Riefenstahl e molti anni di ostracismo
nel mondo del cinema, nonostante la sua vittoria nel processo di
diffamazione. E' una storia terribile, quella della grande regista
tedesca che nel 1941, per girare un film, si fa "imprestare" dal lager
di Maxglan, dove erano reclusi, dei bambini sinti, e che a film
terminato li restituisce regolarmente al lager. Futura destinazione,
non ancora prevista ma poi realizzata, Auschwitz. Un tassello di una
storia, quella di una grande artista pronta a sostenere con il sangue
dei singoli e dei popoli la sua arte ed assolta, forse proprio in nome
dell'arte, dall'accusa di essere stata nazista. Per filmarli, per
esprimersi dietro la macchina da presa, Leni Riefenstahl quei bambini
sinti deve averli almeno una volta guardati negli occhi. Li deve aver
"visti". E allora? |
Anna Foa,
storica |
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davar |
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Qui Tel Aviv - Un nuovo Sefer Torah per gli Italkim
L’appuntamento
era alle 19.30 (molto elastiche, nonostante la pressante richiesta di
puntualità dell’invito diramato via Facebook) in Kikar Dizengoff, cuore
della città tra ristoranti, caffè e grattacieli, negozi di scarpe e di
abiti da sposa. Lì a due passi c’è il tempio in cui tutte le settimane
di Shabbat si prega con rito italiano. L’occasione era di quelle
speciali, l’Achnassat Sefer Torah, la celebrazione di un nuovo Sefer
Torah del minian italiano di Tel Aviv, donato per onorare la memoria di
Robert Nissim. C’era chi a Tel Aviv ci vive e chi era appena tornato
dalla spiaggia Frishman, la preferita dagli italiani in trasferta in
Israele, tanto che una troupe del Tg3 è andata lì a colpo sicuro per
raccontare l’estate della “bolla” nell’edizione della sera di
Ferragosto. Sono sempre più numerosi gli ebrei italiani che
lasciano il Belpaese per trasferirsi in Israele. Sono soprattutto
giovani attratti dalla qualità delle università, dal desiderio di
trovare una vita ebraica più intensa, oppure dalle opportunità di
lavoro, grazie all’economia che continua a tirare nonostante la crisi
globale. A partecipare alla cerimonia erano più di duecento persone, in
maggioranza decisamente under trenta. Per le 20.30 erano arrivati
davvero tutti, e il nuovo Sefer Torah è stato portato in corteo fino
alla sinagoga nella vicina BenYeuda Street tra canti, balli e un po’ di
slalom tra le automobili. Al Tempio le celebrazioni sono proseguite e
dopo il suono dello Shofar i nuovi rotoli della Torah sono stati
riposti con cura nell’Aron Hakodesh, l’armadio sacro. Una importante
occasione di ritrovo per la comunità degli italkim e per gli
affezionati della città nel mese di agosto, prima di ributtarsi tra
ristoranti e locali nella movida della Collina della Primavera.
Rossella Tercatin
Qui Livorno - “Conservare e tramandare”, la sfida del chazan Daniele Bedarida
Città
capofila della Giornata Europea della Cultura Ebraica 2010, Livorno è
nota per l’unicità della sua musica sinagogale. Tramandati oralmente di
padre in figlio (anche se in misura sempre minore), i canti degli ebrei
livornesi costituiscono una delle testimonianze più vive di quella
commistione tra culture propria della patria anarchica e ilare che da
secoli li ospita senza aver mai eretto i confini netti di un ghetto.
Mix di identità e culture mediterranee, la tradizione labronica (di cui
il musicista e compositore Michele Bolaffi è il nome più noto)
rappresenta, come scrive lo studioso Francesco Spagnolo, “il lascito
concreto e in continua trasformazione di un network culturale che per
lungo tempo ha attraversato confini nazionali, barriere religiose e
differenze etniche”. Parte di quel ricco patrimonio è andato perduto,
parte è stato salvato da illustri musicisti e musicologi, parte lo
stiamo riscoprendo solo negli ultimi tempi. Il merito è soprattutto di
Daniele Bedarida, chazan del Tempio e autore di vari cd che continuano
l’opera di trasmissione con l’ausilio delle moderne tecnologie.
Occuparsi di liturgia ebraica per Daniele è un fatto di famiglia: suo
nonno era Alfredo Sabato Toaff, guida spirituale di Livorno nel periodo
più duro, suo zio è Elio Toaff, rabbino emerito di Roma e figura di
spessore internazionale dell’ebraismo italiano. “Da piccolo ero sempre
al Beth haKnesset, per me è stato naturale apprendere le musiche dai
vecchi chazanim”, racconta Daniele, che di professione è odontoiatra.
Il lavoro di recupero parte con la nascita del coro, creato nel 1995
con lo scopo di allargare la base di persone a conoscenza dei canti
comunitari. Recuperare è un lavoro complicato, che richiede molta
pazienza e affinate capacità investigative. Bedarida spiega il problema
di fondo: “Il patrimonio musicale livornese è enorme, ma nonostante la
vastità le tracce scritte in nostro possesso sono pochissime”. Tra gli
studiosi che nel passato si sono occupati della sua riscoperta e
catalogazione, anche Federico Consolo e il musicologo Leo Levi: quello
che è arrivato ai giorni nostri è in gran parte frutto della grande
passione di entrambi per ebraismo e musica ebraica. Oggi il testimone è
passato a Daniele, memoria storica della Comunità che cerca (e spesso
trova) materiale inedito negli archivi. Che poi sono la fonte
privilegiata: rare le testimonianze orali. Anche se ci sono delle
eccezioni: la trasmissione ai posteri di un Ashkivenu composto dal
Maestro Lattes è stata possibile solo grazie ai ricordi di un corista.
Il passaggio successivo al recupero è (in caso di mancanza di una
traccia scritta) la trascrizione su spartito e infine la trasposizione
su file audio. Per conto della Comunità Bedarida ha registrato sei cd
che forniscono un quadro ampio sul panorama melodico
giudaico-livornese. Le copie si trovano in molti archivi stranieri,
compreso quello dell’Università di Gerusalemme. Elemento di spicco del
coro (che in occasione della prossima Giornata della Cultura Ebraica
sarà protagonista al teatro Goldonetta), il chazan si esibisce da anni
come solista, in convegni internazionali e concerti. Due suoi cd sono
stati presentati a Yerushalaim e Salonicco, mentre il futuro parla a
stelle e strisce: “Sto prendendo accordi per una doppia presentazione a
New York e Philadelphia, che verosimilmente sarà nel 2011”. L’obiettivo
è quello di sempre: “Cerco di conservare e tramandare il più possibile
la nostra gloriosa tradizione”.
(nell'immagine
la copertina di uno dei cd realizzati da Daniele Bedarida: Shemà qolì -
Le vie dei canti: musiche ebraiche a Livorno)
Adam Smulevich
Qui Livorno - In Coro
Dal
1995 opera a Livorno, a scopo didattico e di conservazione dell’immenso
patrimonio musicale ebraico livornese, il Coro Ernesto Ventura,
intitolato alla memoria del Maestro Ventura, insegnante, direttore del
Coro del Tempio e autore di numerose melodie entrate nella tradizione
ebraica locale e spesso esportate anche altrove. Diretto inizialmente
da Andrea Gottfried, da anni direttore scientifico del Festival
Nessiah, il Coro è successivamente preso in carico da Stefano Visconti,
oggi direttore permanente del Coro dell’Opera di Montecarlo, a cui
subentra Paolo Filidei. Accanto ai concerti, è importante il lavoro di
accurata trascrizione dell’ingente materiale disponibile. Significativo
il recupero di un Ashkivenu composto dal Maestro Lattes e tramandato
grazie alla ferrea memoria di Carlo Cammeo, da cui si è anche appreso
che quel brano, eseguito una sola volta prima del recupero, ebbe quale
voce solista un giovane Elio Toaff. Il minhag livornese, inteso quale
canto liturgico, è il derivato di varie influenze: alle antiche musiche
provenienti dalla penisola iberica si aggiunse nel tempo, oltre a
influssi italiani e nordafricani, una produzione locale di altissimo
livello. Un patrimonio musicale inesauribile studiato, verso la metà
del secolo scorso, dal musicologo Leo Levi grazie a cui testi e
testimonianze di riti ormai scomparsi sono arrivati ai giorni nostri.
Pagine Ebraiche, agosto 2010
Qui Livorno - Pardo, l’ultimo menestrello
Pardo
Fornaciari non sta simpatico a tutti in Comunità. Ne è consapevole (la
polemica tra l’altro a suo tempo è finita su alcuni giornali locali e
ha fatto discutere) ma tira avanti per la sua strada: “C’è chi mi
accusa di essere antisemita, ma è una meschinità. In realtà ho più di
una remora sulle politiche del governo israeliano che non ho problemi a
esternare in pubblico. Tutto qua, il resto sono strumentalizzazioni da
parte di individui che faccio fatica a qualificare”. Pardo, 62 anni,
comunista testardo e ruspante, è un artista poliedrico, il colto
menestrello e cantore di Livorno, dei dialetti e della esuberante gente
labronica. Ama in modo viscerale la città in cui è nato e vive. Ed è
ricambiato: molti concittadini ne apprezzano penna e indole pungente.
Le sue ricerche sulle peculiarità linguistiche degli ebrei livornesi,
in particolare sul bagitto, rappresentano il primo studio scientifico
in materia. Fornaciari conosce molto bene la comunità e la lingua
ebraica, che ha studiato da autodidatta, incuriosito da quella
minoranza e dalla sua cultura forse anche perché di lui, giovane bimbo
inquieto e rompiscatole, si occupavano due tate ebree. Molto amico del
presidente Samuel Zarrough che definisce “un uomo di grande saggezza ed
equilibrio”, Pardo è di fatto un tuttologo dai mille interessi, che non
se la tira in nessun modo per la sua erudizione che emerge con
sobrietà. “Non bisogna mai prendersi troppo sul serio, altrimenti si
finisce per diventare ridicoli”, ammonisce. Figlio del partigiano
Pierino, pittore e insegnante che tra i suoi allievi ebbe anche il
futuro giornalista e vicedirettore del Corriere della sera Magdi Allam,
è firma di punta e rubricista del Vernacoliere, storica e irriverente
pubblicazione livornese che non si fa mettere i piedi in testa dai
potenti ed è veicolo di sfogo antipisano. Lo studio in cui Pardo
lavora, una stanza interna alla sua abitazione situata a due passi da
piazza Cavour, è come vuole la regola che riguarda i creativi, un gran
casino di libri e appunti di vario genere. In un angolo c’è una
chitarra, sugli scaffali sono riposti molti libri in ebraico.
“Benvenuto nel mio regno disordinato”, le parole che accolgono sulla
porta un visitatore munito di macchina fotografica e taccuino.
a.s., Pagine Ebraiche, agosto 2010
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pilpul |
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Riflessioni sull’ateismo. La voce di Scholem
In
una conversazione con Muki Tsur del 1975, in cui ripercorre il suo
complesso e affascinante itinerario intellettuale, che lo portò nel
1923 a scegliere con decisione la aliyà e a dedicarsi allo studio della
qabbalà, pur restando un razionalista, Gershom Scholem parla dei
molteplici distacchi che hanno segnato la sua vita. Sono stati i
distacchi dalla casa paterna a Berlino, dalla versione patriottica del
sionismo di Herzl, da Martin Buber, dalla psicoanalisi, dal marxismo,
da un certo stile di vita in Eretz Israel. Il distacco è un modo di
congedarsi, di dire addio. E dire addio è un atto critico, un modo di
esercitare la ragione. Se la ragione lo ha esposto al congedo, un
orientamento fermo è stata la sua ricerca dell’ebraicità e del
sionismo. «Ero tra quelli - afferma motivando la sua posizione - che
consideravano il passo biblico: “E sarete per Me un regno di sacerdoti
e una nazione santa” (Es 19, 6), la definizione stessa del sionismo» Ma
con enfasi Scholem sottolinea che pur in tutti quei congedi, non si è
mai separato da D-o. E aggiunge: «Non capisco gli atei; non li ho mai
capiti. Penso che l’ateismo sia comprensibile solo se si accetta il
dominio delle passioni sfrenate, una vita senza valori. Sono convinto
che non esista una moralità con un significato intrinseco, se non c’è
una base religiosa. Non credo che esista qualcosa come l’autonomia
assoluta dell’uomo, per cui l’uomo si fa da sé e il mondo si crea da
solo». Riprende l’affermazione di Dostojevskij per il quale «se
D-o non esiste, tutto è permesso». E commenta osservando che senza D-o
non esistono né valori né un’etica che abbiano una forza vincolante.
«La fede in D-o si rivelerà una forza anche non manifestandosi. […].
Verrà forse il giorno in cui sarà proibito parlare di D-o. Ma allora la
fede crescerà». Donatella Di Cesare, filosofa
La Giustizia e l'Ora alternativa
Complice
forse anche il clima vacanziero agostano, non ha avuto grande risalto
una sentenza del Tribunale di Padova che, accogliendo il ricorso
presentato dai genitori di una bambina che lamentavano l'assenza di
alternative all'ora di religione (quella cattolica, per la cronaca
l'unica presente nella scuola pubblica a carico però di tutti), ha
condannato scuola e ministero per “discriminazione indiretta
nell’esercizio del diritto all’istruzione e alla libertà di religione",
ribadendo che trattasi di "valori tutelati dalla Costituzione" e quindi
confermando come tali insegnamenti alternativi debbano essere
“obbligatoriamente offerti per rendere effettiva la scelta compiuta
dallo studente”. E' scattata anche la sanzione pecuniaria pari a
1500 euro: se la cifra non è gran cosa, tenendo conto che di situazioni
analogamente sanzionabili in Italia ve ne sono in abbondanza, anche dal
punto finanziario se iniziassero a partire ricorsi non sarebbe quindi
cosa indolore. Ma è dal punto di vista di principio che questa
sentenza è assai interessante perché dimostra, diversamente da quanto
alcuni cercarono di sostenere, che quanto espresso nel maggio scorso
dal Consiglio di Stato (pur rigettando la famosa sentenza del TAR del
Lazio) era in realtà un boomerang per chi, compreso purtroppo il
Ministro, si ostina a voler ritenere l'attuale situazione consona a una
compiuta democrazia. Scriveva infatti il Consiglio di Stato che il
non attivare corsi alternativi " può incidere sulla libertà religiosa
dello studente o della famiglia, e di questo aspetto il Ministero
appellante dovrà necessariamente farsi carico”: dinanzi
all'inadempienza padovana i giudici hanno pertanto proceduto di
conseguenza. Se l'alternativa "ora cattolica" od "ora alternativa"
può apparire, come al sottoscritto appare, soluzione ancora assai
insoddisfacente (la Costituzione infatti vuole tutte uguali, dinanzi
allo Stato, le fedi), risulta comunque assai triste che in questo paese
occorra ricorrere al giudice anche per farsi riconoscere un diritto
chiaramente sancito e ben noto a chi dovrebbe assicurarne l'esercizio.
Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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rassegna stampa |
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Tony Judt Quizzical,
erudite and clear-sighted, Tony Judt never let matters rest. He worried
at his own beliefs-Zionist, Francophile, socialist and Euro-federalist
until they fell apart and reformed under the pressure of his restless,
meticulous intellect. Few people in the Anglo-Saxon world can call
themselves “intellectuals”, continental-style, without feeling (and
sounding) a little odd. But in Mr Judt's case the word deserved a
capital “I”. In the world of brain and pen, his main trade was as a
historian: he plunged into that at Cambridge in the 1960s, and stayed
with it even when immobilised by the wasting disease that cost him bis
life. is was no narrow historicism: he scorned the idea that the past
was a guide to the future. But study of it could help avoid making the
same mistakes twice. Though he worked in America from 1987, his
intellectual centre of gravity was Europe; the defining event in his
world view was the second world war, and Hitler's Holocaust. The
aftermath of those Catastrophes was the theme of “Postwar” (2005), a
1,000-page tome that dealt with the 44 years between the end of the
main fighting and the collapse of the Soviet totalitarian empire that
survived it. It was a book more bought than read. But even skimmers got
the message: the European Union was a vitality important experiment, an
attempt to transcend the ideological, nationalist and ethnic schisms
that had cursed the continent. Prosperity, modernisation and peace,
plus a judicious dose of amnesia, would lay the ghosts to rest. But Mr
Judt was no sentimental Europhile. His deep connections with the
Czechoslovak opposition under communism gave him rare binocular vision,
and an edginess towards those who focused only on the luckier western
half of the continent. e detested the shallowness and artificial
obscurity of European-born intellectual fashions such as post-modernism
and structuralism. In politics, he bemoaned what he saw as the
degeneration of the au into a racket run by an elite class of
administrators for the benefit of its richest citizens. Admittedly, the
Eurocracy's enlightened despotism was better than the other kind. But
the cult of efficiency was no substitute for democracy and justice. Mr
Judt's deepest knowledge was of France, and particularly its post-war
intellectual history, which he regarded with a mixture of fascination
and disgust. “Past Imperfect”, published in 1992, was the definitive
book about the self-indulgence and wilful self-delusion of the French
brainboxes who failed to see that Stalin was a monster. His
evisceration of the phoney and creepy was best displayed in his
journalism, often in his natural home of the New York Review of Books.
A savage collection of essays, “Reappraisals”, published in 2008,
skewered among others Louis Althusser, a mad Marxist wife-killer with a
cult philosophical following, and Eric Hobsbawm, a distinguished
British historian with unrepentant pro-Soviet views. George Bush fared
little better: MrJudt was a trenchant critic of his poiicies in Iraq
and the Middle East.
In hot water He
was fearless in his fights. When he found the pro-Israel lobby in
America too strong. and thought Israel's democratic credentials were
weakening, he said so. That got him into the hottest water of his
career. It started with an essay in the NYRB in 2003 stating that the
peace process was “finished”; that the Jewish state was an
“anachronism”; and that legitimate criticism of Israel was being
silenced by bogus charges of anti-Semitism. Nobody could accuse him of
letting fly from a position of ignorance. He had been an ardent teenage
Zionist, working as an interpreter during the six-day war of 1967. But
to many his critique was exaggerated. Given the intense publicity he
attracted, it was hard to argue, as he did, that debate was habitually
squelched. The notion that Israel had no friends outside America, or
could be the (his italics) threat to world peace, struck even some of
his friends as extreme. Lectures were cancelled and the New Republic, a
longstanding ally, removed him from its masthead. A severe self-critic,
he dealt poorly with sniping from others. This East End boy did not
wear his learning, or bis polyglottal talents, lightly. He tended to
dismiss adversaries as fools, rather than as merely mistaken, or
half-right. As the head of a richly endowed faculty at New York
University, bis contempt for the poverty of British universities could
sound gratingly complacent. He could fund-raise. So should they. His
final ordeal might have inspired great self-pity, though he displayed
no hint of it. Just under a year ago, he appeared at a public lecture
in a wheelchair to announce that he was suffering from a variant of
motor-neurone disease, in which the body succumbs to inexorable
paralysis: like being imprisoned in a shrinking cell, he said. But he
wrote about that too, in poignant, crystalline vignettes about his
upbringing and travels. He was “raised on words” though by the end his
vocal muscle, “for 60 years my reliable alter ego” failed him: “vowel
sounds and sibilant consonants slide out of my mouth, shapeless and
inchoate”. He minded that, while insisting that “the view from inside
is as rich as ever”.
The Economist, 14 agosto 2010 |
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notizieflash |
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Barack Obama, sì a una moschea vicino a Ground Zero New York, 14 ago - L'ipotesi
della costruzione di una moschea a due passi da Ground Zero divide gli
americani. Il presidente Obama ha detto sì, è d'accordo alla
costruzione del Cordoba Center, un centro culturale e una moschea che
una associazione musulmana intende costruire vicino al luogo dove
sorgevano le torri gemelle, abbattute l'11 settembre dai terroristi
islamici di al Qaida. Per Obama, in base al principio della libertà
religiosa, i musulmani hanno "il diritto" di costruire il Cordoba.
Anche i rappresentati della della Comunità ebraica si dividono. Il
sindaco di New York, Michael Bloomberg, appoggia il progetto, mentre
Abraham Foxman, il direttore nazionale della Anti Defamation League
(Adl), una delle principali organizzazioni ebraiche e anti razzista, ha
chiesto alla Comunità musulmana di costruire il centro Cordoba un po'
più lontano da Ground Zero per non urtare la sensibilità delle vittime.
Una richiesta che ha spinto il più famoso dei giornalisti americani di
origine musulmana, Fareed Zakaria, a restituire un premio che la stessa
Adl gli aveva dato negli anni scorsi. La mossa a sorpresa di Obama, cui
si attribuiva l'intenzione di rimanere fuori dalla controversa vicenda
a pochi mesi dalla elezioni di metà mandato del 2 novembre, rischia di
rilanciare le polemiche con una certa violenza. Parte della destra
americana rimane convinta che il presidente non sia nato negli Stati
Uniti, e che sia di religione musulmana, come confermerebbe il suo nome
completo, Barack Hussein Obama. Nel suo discorso alla Casa Bianca, in
base al testo distribuito in anticipo, Obama ha detto: "con la massima
chiarezza in quanto cittadino, in quanto presidente, sono convinto che
i musulmani abbiano lo stesso diritto di praticare la propria religione
come qualsiasi altra persone in questo paese. Ciò comprende il diritto
di costruire un luogo di culto e un centro per la comunità su una
proprietà privata a Lower Manhattan, nel rispetto delle leggi e delle
ordinanze locali". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. |
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