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    17 agosto 2010 - 7 Elul 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto della rocca Roberto
Della Rocca,

rabbino 
Una delle straordinarie esperienze della vacanza per famiglie organizzata dal Dec ancora in corso a Serrada di Folgaria è quella di due educatrici, provenienti da Israele, che stanno tenendo le attività per bambini solo in ebraico. Un esperimento di grande successo che potrebbe aprire la strada a una nuova modalità di trasmissione della lingua ebraica, ivrìt beivrìt, anche nelle scuole ebraiche e nei movimenti giovanili. Ciò potrebbe costituire una vera rivoluzione culturale oltre che una grande scommessa da giocare per il nostro futuro.
Invecchiare è la migliore alternativa al morire giovani.
Vittorio Dan Segre, pensionato vittorio dan segre  
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  Qui Venezia - Luzzatto: "Una grande Giornata per l'arte ebraica"

LuzzattoTorna la Giornata della Cultura Ebraica a Venezia e la Comunità lagunare si prepara ad accogliere nuovamente l’iniziativa con un programma di appuntamenti all’avanguardia per le offerte culturali che vengono presentate in linea con una tradizione che ha radici profonde e lontane nel tempo. Ne parliamo con il presidente della Comunità ebraica di Venezia, Amos Luzzatto, che parlerà domenica 5 settembre dell’arte nella tradizione ebraica argomento che riprende il tema generale della giornata dedicata quest’anno al binomio arte ed ebraismo.
Da sempre Venezia è simbolo di cultura, commercio e arte, riguardo a questo punto come ha contribuito nei secoli la componente alla crescita artistica della città?
A Venezia sono presenti spesso elementi di cultura ebraica nella produzione artistica generale con quadri nei quali figurano lettere ebraiche o ipotetiche frasi in ebraico che hanno la loro importanza. Il fatto stesso che a Venezia si santifichino personaggi biblici come Giobbe, Zaccaria o Mosè, che in altri luoghi del mondo cattolico difficilmente vengono santificati, rappresenta un fatto anomalo, ma indicativo. Sulla chiesa di San Zulian per esempio esiste un’iscrizione dedicata al mecenate Tommaso Rangone, filologo e medico che sponsorizzò il rifacimento della facciata. Sono presenti tre iscrizioni all’entrata, una in latino, una in greco e una in ebraico che celebrano questo dubbio personaggio. Nell’iscrizione in ebraico però c’è qualcosa di diverso rispetto a quelle in greco e in latino, si dice infatti che tale Tommaso Rangone avesse scoperto la cura per vivere ben oltre i 120 anni d’età. Forse era un cabalista pratico o più probabilmente un ciarlatano, di certo però è il simbolo di quella presenza oggettiva della cultura ebraica nel tessuto sociale veneziano. Un altro elemento fondamentale da prendere in considerazione è l’importanza che ebbe a Venezia l’editoria ebraica.
A Venezia si ricorda però di quando il Consiglio dei Dieci, allineandosi al parere della Chiesa del tempo decise di mettere al rogo in piazza San Marco non solo le copie rinvenute del Talmud, ma ogni compendio, sommario da esso dipendente.
Questo è vero, ma oltre a bruciare il Talmud, ricordiamoci che a Venezia fu anche stampato, in una veste tipografica che con poche modifiche nell’edizione di Vilna è diventato poi il formato tipografico che noi oggi studiamo. A Venezia si è poi pubblicato il Maimonide, l’intera bibbia, le Mikraòt ghedolòt e molti altri testi canonici e di mistica. Il perché una comunità di media grandezza come Venezia attirasse tanto i tipografi anche non ebrei e li spingesse a dedicare tempo, lavoro e anche preparazione per la pubblicazione di testi sacri in ebraico è un argomento suggestivo che lascia aperti ancora degli interrogativi.
E invece cosa hanno prodotto gli ebrei di Venezia a livello artistico e culturale?
Gli ebrei di Venezia hanno avuto una caratteristica che qualche volta viene raccontata come fatto di mera cronaca: raramente in comunità delle dimensioni di Venezia confluiscono realtà ebraiche di origini e provenienze diverse come invece successe qui. La prima cosa che ci colpisce sono le sinagoghe, la Scola grande tedesca, la spagnola, la levantina, l’italiana, e la Scola Canton, probabilmente franco-tedesca. Per una comunità di qualche migliaio di ebrei, con tradizioni linguistiche e culturali diverse, modi di studiare, pregare e minhaghim diversi, il fatto di essere riunita in uno spazio talmente ristretto avrebbe dovuto scatenare accese conflittualità come successe ad esempio in altri luoghi. A Venezia invece si riscontrò una notevole convergenza e tutt’al più un po’ di competizione tra le diverse Nationi che cercavano di accaparrarsi gli architetti più rinomati per la costruzione delle sinagoghe come il noto architetto e scultore Baldassarre Longhena. Ma questo non rappresenta ancora la vera arte ebraica veneziana.
Cosa intendi quindi per arte ebraica a Venezia?
Un esempio potrebbe essere rappresentato dai bassorilievi della Scola Canton, che raffigurano una serie di episodi biblici senza che ci sia la presenza di figure umane e quindi ipoteticamente in linea con il divieto di farsi immagini.
Perché dici che solo per ipotesi sarebbero in linea con il divieto di interdizione visiva?
Se vogliamo parlare in termini tradizionali, nel comandamento specifico non c’è scritto di non farsi figure umane, c’è invece scritto non ti farai nessuna figura di tutto quello che esiste in cielo o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra. Quindi in teoria anche quei bassorilievi sono immagini che contravvengono alla regola. La mia opinione ovviamente è diversa e per ora nessuno l’ha mai contestata. Il versetto prima afferma cosa non si deve fare parlando di qualsiasi immagine, poi nel versetto successivo aggiunge: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li presterai culto”, aggiungendo un ulteriore elemento di riflessione.
Sì ma questo argomento viene appunto trattato nel versetto successivo.
Certo, ma la divisione in versetti in tutto il Tanach è masoretica, tardiva e rappresenta già una forma di commento. Se noi leggiamo il passo senza essere condizionati dal conteggio dei versetti il significato è abbastanza chiaro. Ciò che conta non è tanto il disegno, ma l’uso che ne fai. Perché se seguissimo alla lettera la regola non si potrebbero disegnare neppure le piante, adorate per esempio nel culto cananeo. Il concetto importante è non prostrarsi davanti a tali immagini. Questa interpretazione è avvalorata da grandi studiosi e trova fondamento sia nelle fonti bibliche, ad esempio i 12 tori a sostegno del mare nel tempio di Salomone, che non bibliche.
Riguardo alle fonti non bibliche puoi farci un esempio?
Alla fine degli anni ’20 al confine tra Iraq e Siria, sull’Eufrate, gli archeologi hanno scoperto un’antica basilica bizantina vicino alla città mesopotamica di Doura Europos. Continuando poi a scavare sotto la basilica hanno poi trovato una sinagoga risalente alla metà del terzo secolo completamente affrescata con immagini che riprendevano episodi biblici. Nelle immagini ad altezza uomo contenenti figure umane esse sono raffigurate con il volto bianco, senza lineamenti, al fine, si pensa, di non contravvenire al divieto di idolatria. Ma allora ripensando anche ai bassorilievi della Scola Canton a cosa potevano servire tali immagini? Queste opere artistiche avevano la funzione di commento alla lettura, rappresentavano commenti didattici alla Torah similmente alle immagini che ritroviamo nelle Haggadot di Pesach che ancora oggi utilizziamo durante i nostri Sedarim.

Michael Calimani



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Qui Livorno - Quell’esplosione d’arte
che mandò in crisi la tradizione


Sinagoga di LivornoNon esiste una scuola, un elemento stilistico o una predilezione tematica che accomuni i pittori ebrei di Livorno. Ma la lista dei loro nomi, dai macchiaioli a Modigliani, è eccezionalmente ricca e comprende figure che hanno contribuito in maniera determinante a definire la storia dell’arte moderna italiana nella fase di rottura che ha messo in crisi e riformulato il linguaggio visivo occidentale tra la metà dell’Ottocento e l’affermarsi dei regimi totalitari in Europa. Quattro figure bene rappresentano gli altrettanti scarti generazionali che hanno rivoluzionato il modo di vedere e dunque di mostrare le cose. Serafino De Tivoli (1826-1892) ebbe un ruolo importante nella fase iniziale della scuola dei macchiaioli. Attivista e combattente risorgimentale, pittore attivo tra Firenze e Parigi alla metà dell’Ottocento, De Tivoli fu uno dei fondatori del celebre circolo d’artisti del fiorentino Caffè Michelangiolo. Vicino all’ambiente parigino della tarda Scuola di Barbizon e poi aggiornato sui primi sviluppi dell’Impressionismo, introdusse la scuola toscana alla predilezione francese per la pittura di paesaggio en plein air e a un realismo basato sull’osservazione diretta piuttosto che su convenzioni accademiche. Tanto da essere considerato da Telemaco Signorini “il padre della macchia”. Anche Vittorio Corcos (1854-1933) fu attivo a Parigi via Firenze. Ritrattista brillante, interpretò con successo l’élite culturale della belle époque parigina e dell’Italia giolittiana. Introdotto nei circoli parigini di Zola e Flaubert, e poi in quelli toscani di Carducci, Mascagni e Pascoli, fu in grado di compiacere i suoi committenti con uno stile tradizionale e allo stesso tempo capace di cogliere con freschezza il nuovo carattere della borghesia liberale. Sebbene quasi coetaneo di Corcos, Ulvi Liegi (Luigi Levi, 1858-1939 - nell'immagine un suo quadro raffigurante la Sinagoga di Livorno) sembra appartenere a una generazione successiva. Artista colto e ricettivo, formatosi alla scuola macchiaiola di Signorini, visitò Parigi nel 1886 in occasione dell’ultima mostra impressionista che apriva le porte a ciò che dopo l’impressionismo sarebbe avvenuto - Seurat vi esponeva La Grande Jatte. Un quadro come La Modellina del 1889 già dimostra un’elaborazione originale e assai precoce del post impressionismo (è il passaggio tra Degas, Gauguin e Toulouse - Lautrec). Sin dal primo decennio del Novecento le sue opere, accesissime, sono pienamente partecipi del clima fauve di Matisse o ancor meglio di Derain. Il colore, svincolato da ogni funzione descrittiva, è usato come puro strumento espressivo.

MomiglianiAnche Amedeo Modigliani (1884- 1920 - nell'immagine un suo quadro "Nudo coricato") si formò presso gli epigoni della macchia. Ma, giunto a Parigi nel 1906, si amalgamò presto alla nascente avanguardia internazionale. Con Picasso e a Brancusi fece ricorso all’arte “primitiva” africana, intesa come fonte alternativa alla tradizione occidentale. L’intento collettivo era quello di inventare un nuovo linguaggio visivo che corrispondesse al modo di percepire nuovo, radicalmente mutato dalla modernità. Similmente a Picasso, Modigliani semplificò geometricamente l’anatomia umana. Ma mentre l’interesse del Picasso cubista si concentrò sulla struttura delle cose rappresentate e sulla natura arbitraria del linguaggio visivo che le rappresenta, Modigliani innescò un dramma più sensuoso nei suoi quadri. Creò un dialogo teso se non un vero e proprio contrasto violento tra gli strumenti elementari della pittura: da una parte la struttura lineare che definisce le figure e il chiaroscuro che le fa apparire tridimensionali; dall’altra i colori violenti e saturati che corrodono le linee e tendono ad appiattire il quadro, fino a portare l’immagine in superficie. Nella metafora del quadro come finestra che dominava il sistema rappresentativo occidentale sin dai tempi di Leon Battista Alberti, i nudi di Modigliani sono spiaccicati contro il vetro immaginario attraverso cui li si guarda. La violenza cromatica di Modigliani è partecipe del clima espressionista degli artisti di Montparnasse che frequentava, quasi tutti ebrei dell’Est Europa. Ma a differenza della dimensione visionaria e mistica di Chagall o delle allucinate distorsioni di Soutine, Modigliani era in grado di coniugare l’idioma d’avanguardia con una tradizione raffinatissima che risale ai preziosi arabeschi di Simone Martini e alle sinuosità allungate di Botticelli. La pittura di questi artisti non si distingue per “ebraicità” - ammesso che esistano aspetti individuabili come essenzialmente ebraici in arte. È vero che alla fine della sua carriera, negli anni Trenta, Ulvi Liegi ha dipinto una serie di vedute dell’interno del Tempio di Livorno e che sia Corcos sia Modigliani hanno ritratto amici e committenti ebrei. Ma non lo hanno fatto più spesso o con più enfasi dei loro colleghi non ebrei. Rientrano tuttavia nel fenomeno straordinario della centralità che in un secolo scarso hanno progressivamente avuto artisti, collezionisti, storici dell’arte e galleristi ebrei nel sistema dell’arte europea. Straordinario soprattutto in relazione alla relativamente scarsa tradizione ebraica nelle arti figurative e al divieto biblico di rappresentare. Tra le cause concomitanti spesso addotte sono l’emancipazione ebraica e l’assimilazione alla cultura della migliore borghesia gentile, la volontà di partecipare alle rispettive culture nazionali, la ricerca di una sacralità culturale a sostituzione della religiosità in declino, una sete d’immagini retroattiva. Privilegiata e internazionale, la comunità ebraica livornese ha costituito terreno particolarmente fertile per l’emergere di queste generazioni di artisti anche in virtù di un interessante connubio: la coltivazione estetica di matrice sefardita derivante dal principio del hiddur mitzvah (fare onore alla mitzvah non solo adempiendola, ma rendendola anche bella) e il retaggio umanistico e artistico toscano. Si tratta di un contesto in cui sembrava naturale che il rabbino della città fosse anche professore di lingue classiche e collezionista d’arte contemporanea: era con Ulvi Liegi che rav Alfredo Toaff discuteva i propri acquisti di pittura moderna.

Raffaele Bedarida, Pagine Ebraiche, agosto 2010


Qui Livorno - Da Bengasi ai vertici comunitari

ZarroughIl bengasino Samuel Zarrough, 65 anni ben portati, è una delle tante vittime delle persecuzioni a cui furono sottoposti gli ebrei di Libia. Internato per una settimana nel campo profughi di Capua dopo aver trascorso un mese in un campo di raccolta nel paese natio, arriva a Livorno nel 1967 insieme ai suoi e ad altre famiglie ebraiche libiche, una sessantina di persone in totale. L’impatto con la nuova città è ottimo, in breve il neolivornese Samuel matura la decisione che quella sarà la sua residenza per la vita. Oggi al terzo mandato consecutivo da presidente, Zarrough è una figura storica della Comunità ebraica: da 40 anni esatti, salvo un break di due anni e mezzo ormai datato, è nel Consiglio. Fa il commerciante e conosce mezza Livorno. Basta fare una passeggiata con lui in via Grande, dove ha sede la sua attività, per rendersene conto. Quasi tutti i passanti lo salutano e lo invitano (generosamente ricambiati) al bar per un caffè. “Integrarsi qui è facile, i rapporti tra persone sono spontanei”. Gli ebrei sono visti con simpatia, racconta. “La Comunità ebraica, come ama ripetere il sindaco Alessandro Cosimi che è un nostro sincero amico, è considerata parte della città e non un corpo estraneo”. Rari i problemi e le tensioni, eccezion fatta per quei rigurgiti di antisemitismo che talvolta fanno capolino quando le vicende mediorientali subiscono una deriva sanguinosa. “Ma nel complesso non possiamo lamentarci”. Anche il rapporto con le gli enti bancari, risorse indispensabili per programmare il futuro della Comunità e delle sue strutture, va per il meglio. “Grazie alla Cassa di risparmio di Livorno che ci sostiene in molte iniziative importanti, presto sarà possibile procedere al restauro del vecchio cimitero ebraico”. L’arrivo di Zarrough e delle altre famiglie libiche alla fine degli anni Sessanta, movimenta la vita religiosa degli ebrei livornesi. La ricca tradizione liturgica libica varca la soglia della sinagoga e si unisce alla altrettanto ricca tradizione corale livornese. Lo stesso Zarrough spesso officia le funzioni alla maniera bengasina. E pur non essendo mai tornato nei luoghi della sua gioventù (“sono stato a Tripoli come membro di una delegazione incaricata di trattare con Gheddafi per eventuali risarcimenti ma non ho avuto la possibilità di fermarmi a Bengasi”), mantiene un contatto costante con i luoghi e la cultura di origine. “Leggo molti autori arabi, i miei preferiti in assoluto sono gli scrittori egiziani”. La sveglia del presidente suona prestissimo, alle sei di mattina. “Dormo poco, mi bastano anche solo quattro ore di sonno per riposarmi”. Dopo la sveglia arriva il momento di fare shachrit (la preghiera mattutina), poi colazione con immancabile caffè, apertura del negozio di profumeria che gestisce insieme ai fratelli e mente lucida per concentrarsi sui problemi della Comunità. “Che non sono pochi”, commenta. Gli Zarrough sono una piccola tribù (“quattro fratelli, sei sorelle e venticinque nipoti”) molto unita. Vivono in parte a Livorno e in parte a Roma. Si sentono spesso al telefono: “I miei nipoti, nonostante alcuni di loro siano geograficamente distanti, mi chiamano quasi ogni giorno”. Neanche a farlo apposta e squilla il cellulare. È Vito Kahlun, figlio di uno dei suoi tanti fratelli e giovane attivo in politica nelle fila del Partito repubblicano, che lo chiama per chiedergli un parere. “Visto, che ti dicevo?”, sorride Zarrough. Il presidente è una persona istintiva e a chi lo conosce poco o solo di facciata può sembrare un brontolone (rav Kahn z.l diceva di lui: “Samuel ha sempre ragione, ma solo nel secondo ragionamento”), però confessa che alla fine non sa mai dire di no. Soprattutto ai giovani, che in lui vedono un punto di riferimento e di cui si considera “un umile servitore”. Il suo pallino è il Talmud Torah: “Le Comunità possono salvarsi solo con un Talmud Torah forte”, dice. Zarrough, uomo di grande fede, ha un sogno che spera di realizzare presto: “Mi piacerebbe che l’educazione dei bambini iniziasse a cinque anni come suggerisce il Pirkè Avot”. La collaborazione con rav Didi, giovane guida spirituale degli ebrei livornesi, è proficua e non conosce ostacoli significativi. “Da quando sono presidente, e cioè dai tempi di rav Laras, non ho ricordo di grosse divergenze con i miei rabbini”.

Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, agosto 2010

 
 
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  Ground zero

tobia zeviPerché gli ebrei dovrebbero essere contrari alla costruzione della moschea a Ground zero?
Per due ragioni, si dice: la loro sicurezza e quella dei newyorchesi sarebbe a rischio, e gli Stati Uniti darebbero un segnale di debolezza a un Islam aggressivo e sempre più prossimo alla conquista dell’Occidente. In subordine ci sarebbe un terzo argomento, il più debole: se si tira su la moschea allora bisognerebbe poter edificare una chiesa o una sinagoga – che so? - nello Yemen. Cosa peraltro assai auspicabile: ma che equivale a sostenere che a un operaio cinese non vanno riconosciuti i contributi poiché altrettanto farebbero in Cina. 
Sicurezza. É chiaro che «Cordoba» sarà la moschea più sorvegliata al mondo, biglietto da visita dell’Islam nel cuore dell’Occidente, e mi pare improbabile che da lì possano partire attentati. Mi preoccuperei più degli scantinati sporchi dove sono costretti a pregare i musulmani italiani, luoghi sconosciuti, incontrollabili e indegni di un paese civile.
Debolezza. Obama ritiene che l’edificazione della moschea vicino a Ground zero non testimoni la debolezza, ma piuttosto la forza della democrazia americana, fedele ai propri principi fondativi del pluralismo e della libertà religiosa. Nel suo discorso profondamente spirituale il presidente non ha affermato un principio di laicità, estraneo all’etica pubblica americana, ma ha parlato religiosamente, guadagnandosi l’apprezzamento dei fedeli di tutte le religioni (si ricordi che per l’Islam l’ateo è assai peggiore di un altro monoteista).
Insomma. Credo che Obama sia stato coraggioso, confermando anche il suo realismo (si pensi al suo sostanziale passo indietro sulla chiusura di Guantanamo). Un coraggio che manca ai politici di casa nostra, che fanno gli struzzi e fingono di ignorare il milione di musulmani italiani che non sanno dove pregare. E credo che Obama meriti un plauso (un po’ sottotono per il successivo passetto indietro): nonostante due terzi degli americani siano contrari a questo progetto, un grande leader politico deve guidare i propri cittadini in taluni frangenti, senza occuparsi esclusivamente della loro pancia. Il gioco dei sondaggi, infatti, è pericoloso. Come risponderebbero gli italiani se venisse loro posta la seguente domanda: «Sei favorevole alla costruzione di una sinagoga (o di un centro ebraico, o di un museo della Shoah) nel tuo quartiere?».

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
 
 
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Una moschea a Ground Zero? 
Un’altra vittoria per i terroristi di Al Qaida

È più forte di lui: il 70% degli americani non vuole la moschea a Ground Zero. La sua politica, dopo essere apparsa «foriera di speranze» al 51% degli arabi, è declinata al 16. Tuttavia, Barack Obama non può fare a meno di sognare la pace universale: sin dalla sua nascita, si potrebbe dire, sin dai primordi della sua educazione politica e poi dei suoi passi come presidente, con il discorso del Cairo, l’inchino al re saudita, la critica inusitata allo Stato d’Israele, la mano tesa fino ai crampi verso un Iran che adesso nonostante le sanzioni, riceverà, il 21 di agosto, la benzina nucleare russa per procedere verso la Bomba, ha sempre avuto un disegno, nobile quanto inutile. Essere iscritto nella storia americana come il grande presidente che riuscì a creare un’amicizia, o almeno una tregua, con l’islam. Un Kennedy che invece della grande conquista dell’integrazione dei neri, realizzi un rapporto positivo con l’islam, in patria e fuori.
Durante la cena di Ramadan, prima della benedizione alla moschea, Obama ha tentato di riscrivere la storia americana con la stravagante affermazione di un grande ruolo dell’islam come di una parte centrale della epopea americana, una forza che «è sempre stata parte dell’America»; ha detto che Ramadan «ci ricorda i principi comuni e il ruolo dell’islam nel fare avanzare la giustizia, il progresso, la tolleranza, e la dignità di tutti gli esseri umani».
Con tutto l’autentico rispetto per Ramadan e la libertà religiosa, intanto sorge spontanea la domanda che farebbero parecchie ragazze americane musulmane che, come testimonia la scrittrice Phillys Chesler, seguitano a essere vittime di clausura e delitti d’onore, o anche le vetrioleggiate dell’Afghanistan, o le condannate alla lapidazione in Iran. È comunque difficile disegnare il contributo solenne dell’islam alla storia americana: non troviamo, in una cultura non specialistica, una pagina di arte, di cultura, di politica, di letteratura, di musica, di cinema, insomma di tutte le meraviglie che fanno l’America, la traccia di un’influenza islamica. […]
Fiamma Nirenstein, Il Giornale, agosto 2010 

Il minareto americano e i timori di casa nostra
[...] Il discorso con cui Obama ha motivato la sua scomoda scelta, è stato innanzitutto il discorso di un credente. Fin dagli inizi della sua attività sociale e politica a Chicago egli ha rivendicato l'impegno pubblico come sviluppo conseguente della fede evangelica. Celebri sono i suoi richiami biblici, l'immaginarsi come un Giosuè chiamato a proseguire il cammino dei patriarchi dopo la schiavitù e la traversata del deserto. Guidando un popolo che è unico non certo perché esibisca l'idolo di un dostoevskijano “dio particolare” quale requisito d'appartenenza, ma al contrario perché capace di sommare le sue diversità. Anche la mia pasqua ebraica è allietata dalle fotografie provenienti dalla Casa Bianca, dove il presidente americano figura come ospite e gusta il pane azzimo del seder insieme ai collaboratori. Così come lo vediamo ogni anno rompere il digiuno del Ramadan islamico partecipando alla cena dell'Iftar, celebrare il Natale cristiano e il Diwali indù. Sarà un belgiorno, temo lontano, quello in cui si celebreranno pure al Quirinale analoghe cerimonie di concittadinanza. Lungi dal proporre ambigui modelli di sincretismo, esse favoriscono il riconoscimento della funzione pubblica imprescindibile delle religioni, e di certo non offendono i non credenti. La laicità dello Stato non ne subisce alcuna minaccia.  [...]
Gad Lerner, La Repubblica, 17 agosto 2010

Khazen (“al-Hayat”) e lo sceicco Hassan: «Ok Barack. Anzi no»
«L'America mi ha sorpreso positivamente. Non mi aspettavo che il presidente Barack Obama, Michael Bloomberg e illustri intellettuali ebrei potessero scendere in campo in difesa dell'Islam e della libertà di culto», come hanno fatto nel caso della polemica sulla costruzione di un centro islamico poco lontano da Ground Zero. Parla Jihad Khazen, una delle colonne del più prestigioso quotidiano panarabo al-Hayat: «Se mi aspettavo gli attacchi e le critiche da parte dei soliti noti, mi hanno sorpreso le prese di posizione pubbliche da parte di Obama, di Bloomberg, sindaco ebreo di New York, del suo sfidante Andrew Cuomo, e di due firme eccellenti del giornalismo americano, entrambi ebrei: Paul Krugman del New York Times (premio Nobel per l'economia nel 2008), e Richard Cohen del Washington Posti». [...]
Lorenzo Trombetta, Europa, 17 agosto 2010 

 
 
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notizieflash    
 
 
Quando lo scontro tra Iran e Israele diventa farsa
Foto premiazioneFerragosto di medaglie per lo sport israeliano. A Budapest, nella giornata conclusiva degli Europei di nuoto, il 23enne Gal Nevo ha conquistato il bronzo nei 400 metri farfalla (seconda medaglia per Israele dopo quella di Guy Barnea nel dorso). A Singapore, città in cui si stanno svolgendo le Olimpiadi della Gioventù, Gili Haimovitz ha vinto l’oro nel taekwondo. Ma la vittoria del giovane lottatore è passata in secondo piano rispetto alla vicenda extrasportiva di cui si è reso protagonista il suo avversario, Mohammed Soleimani, che non ha partecipato alla finalissima. Ufficialmente per un infortunio, anche se la sensazione che la motivazione fornita dalla federazione iraniana nascondesse del marcio si è rivelata fondata al momento della premiazione: Soleimani, che avrebbe dovuto ritirare la medaglia d’argento, non si è presentato alla cerimonia (nell'immagine il momento della premiazione). Fingendosi malato, ha evitato al suo paese l’umiliazione di veder sventolare la bandiera israeliana più in alto di quella iraniana. Non è la prima volta che si verifica una situazione del genere: nel 2004 il judoka Arash Miresmaeli si fece squalificare pur di non combattere contro Ehud Vaks, mentre ai Giochi Olimpici di Pechino Mohammad Alirazei si rifiutò di nuotare nella stessa vasca di Tom Be’eri.
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Europei basket - Israele cerca la fuga contro gli azzurri
BasketIsraele contro Italia nel quinto match di qualificazione agli Europei di basket del 2011. Di fronte due squadre con stati d’animo diametralmente opposti: gli azzurri ultimi in classifica attraversano il momento più drammatico della loro storia recente, mentre gli israeliani sono galvanizzati dal ko inflitto a Montenegro e vedono più vicina la qualificazione diretta (riservata alle prime e alle due migliori seconde di ogni girone). Sul parquet della Nokia Arena di Tel Aviv martedì sera si sfideranno alcuni grandi protagonisti della Nba: i due gemelli del canestro Belinelli e Bargnani da una parte, il gigante Omri Casspi dall’altra. Il quintetto israeliano, vittorioso nel match di andata a Bari per 79 a 71, parte con i favori del pronostico e punta alla terza vittoria casalinga consecutiva. L’atmosfera sugli spalti si preannuncia caliente: biglietti esauriti in ogni ordine di posto da molti giorni.
 
 
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Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste, in redazione Daniela Gross.
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