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L'Unione informa
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18 agosto 2010 - 8 Elul 5770 |
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alef/tav |
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Adolfo
Locci,
rabbino capo
di Padova |
Lo
scorso shabbat abbiamo letto nella Torah questo verso: "dovrai essere
integro nei confronti dell'Eterno tuo Dio" (Deuteronomio 18:13). Rabbì
Bachya ben Yosef ibn Paquda (prima metà XI secolo) intende questo
imperativo come la ricerca di quell'equilibrio/armonia tra ciò che
sentiamo e ciò che facciamo, necessario affinché le nostre azioni non
contraddicano le nostre parole. Un invito per tutti, indistintamente,
da cogliere specialmente in questo periodo di preparazione alla
Teshuvah che, mi auguro, ognuno di noi intraprenda seriamente.
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Secondo
l’Ufficio israeliano di statistica, la crescita dell’economia nazionale
nel secondo trimestre del 2010 è stata del 4.7 per cento, mentre nel
precedente era solo del 3.6 per cento. I consumi privati sono aumentati
del 6 per cento nel primo semestre di quest’anno e il pil è aumentato
del 4 per cento nello stesso periodo. Insomma buone notizie
sull’economia israeliana. I complimenti vanno anzitutto a Stanley
Fischer, il governatore della Banca d’Israele, che ha mantenuto a lungo
un tasso di sconto molto basso facilitando così la ripresa anche in un
periodo di crisi mondiale. Per i 100 esportatori principali il livello
delle loro esportazioni è tuttora del 10 per cento inferiore ai record
stabiliti prima della crisi. Secondo i critici il ministro del Tesoro
Steinitz ha ceduto alle richieste dei haredim (ultra-religiosi) che
continueranno a ricevere sovvenzioni anche secondo il prossimo bilancio
di previsione. Ma c’è anche un risvolto della medaglia. La moneta
israeliana, lo shekel, è troppo forte rispetto all’euro e al dollaro e
ciò costituisce un ostacolo alle esportazioni.
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Sergio
Minerbi, diplomatico |
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davar |
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Francesco Cossiga (1928-2010) Il ricordo degli ebrei italiani. E un nodo da sciogliere
Molti
gli attestati di stima e di partecipazione al dolore provenienti dal
mondo ebraico per la morte del senatore a vita ed ex Presidente
della Repubblica Francesco Cossiga. Stamane alla Camera ardente erano
attesi fra gli altri il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane Renzo Gattegna e il rabbino capo di Roma Riccardo di Segni,. Lo
stesso Rav Di Segni, ricordando la figura di Cossiga ha voluto
raccontare un aneddoto curioso: “Quando stavo per essere nominato
rabbino capo Cossiga mi chiamò al telefono. Con il suo inconfondibile
accento mi consigliò di accettare l’incarico ma di non abbandonare la
professione di medico. È un consiglio che ho seguito”. Il Rav ha
anche sottolineato la grande disponibilità data da Cossiga negli ultimi
anni, le sue frequenti telefonate nel corso delle quali “testimoniava
il suo dissenso e la sua solidarietà su fatti di antisemitismo, ma
anche su dichiarazioni di esponenti politici riguardo Israele e le
questioni mediorientali E qualche volta anche quando erano
dichiarazioni di istituzioni e uomini della Chiesa. Ci teneva a farmelo
sapere”. Attestati di stima anche da Renzo Gattegna, Presidente
dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane, che di Cossiga ricorda
“l'amicizia e la grande vicinanza agli ebrei, alla cultura ebraica e
allo stato di Israele di cui era un profondo conoscitore”. Gattegna
ribadisce la partecipazione personale al dolore dei familiari. “In
diverse occasioni di incontro - spiega il presidente UCEI - abbiamo
potuto apprezzare quanto fossero profondi e radicati in tutto il nucleo
familiare i principi costituzionali di libertà, di democrazia e di
categorico rifiuto di ogni forma di discriminazione”. Riccardo
Pacifici, Presidente della Comunità ebraica di Roma, dopo aver
ripercorso il legame costruito da Cossiga in ogni fase della sua vita
politica con i leader ebraici italiani (“era un uomo prossimo al mondo
ebraico non solo per scelta politica ma anche come uomo di fede”),
mette l’accento su un nodo sanguinoso ancora da sciogliere: “Cossiga ci
lascia dopo aver rivelato una vicenda per noi molto importante quanto
dolorosa. Quella che legava il terrorismo palestinese dell'Olp allo
stato italiano negli anni Settanta e Ottanta, il cosiddetto lodo Moro,
ovvero l'immunità goduta dall'Olp in Italia in cambio del mancato
ricorso ad azioni terroristiche sul suolo nazionale. Vicenda che, come
la storia ci insegna, non trovò applicazione da parte della stessa Olp
in Europa e in Italia, dove ci furono gli attentati al Caffè de Paris,
all'aeroporto di Fiumicino, alla nave Achille Lauro e soprattutto alla
sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 con l’uccisione del piccolo Stefano
Tache”. Per questo motivo, conclude Pacifici, “auspichiamo che i
complici di allora diano risposte alle rivelazioni dell'amico Francesco
Cossiga”. Verità scottanti che erano emerse solo nell’ottobre del
2008, nel corso di un’intervista esclusiva rilasciata da Cossiga al
giornalista Menachem Gantz del quotidiano israeliano Yediot Aharonot.
In quella circostanza Cossiga aveva spiegato che in cambio di una mano
libera in Italia, “i palestinesi avevano assicurato la sicurezza del
nostro Stato e l’immunità di obiettivi italiani al di fuori del Paese
da attentati terroristici, fin tanto che tali obiettivi non
collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. “Per evitare
problemi - si legge nell'intervista - l’Italia assumeva una linea di
condotta che le permetteva di non essere disturbata o infastidita.
Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli
americani, l’Italia si arrese ai primi”. Poi un’altra
dichiarazione choc del Picconatore: “Posso dire con certezza che anche
oggi esiste una simile politica. L’Italia ha un accordo con Hezbollah
per cui le forze UNIFIL chiudono un occhio sul processo di riarmamento,
purché non siano compiuti attentati contro gli uomini del suo
contingente”. Cossiga viene a conoscenza di questi intricati legami con
il terrorismo palestinese quando è nominato ministro dell’Interno nel
1976. “Già allora mi fecero sapere - afferma spalancando un cassetto
fino ad allora sigillato - che gli uomini dell'OLP tenevano armi nei
propri appartamenti ed erano protetti da immunità diplomatica. Mi
dissero di non preoccuparmi, ma io riuscii a convincerli a rinunciare
all'artiglieria pesante e ad accontentarsi di armi leggere”. Qualche
anno più tardi, quando Cossiga diventa presidente del Consiglio,
l’accordo tra Stato e terroristi emerge con maggiore chiarezza:
“Durante il mio mandato una pattuglia della polizia aveva fermato un
camion nei pressi di Orte per un consueto controllo. I poliziotti
rimasero sbigottiti nel trovare un missile terra-aria, che aveva
raggiunto il territorio italiano per mare”. Nel giro di alcuni giorni
una sua fonte personale all'interno del SISMI (Servizio per le
Informazioni e la Sicurezza Militare), che lui chiama “gola profonda”,
passa al segretario del governo informazioni in base alle quali il
missile andava restituito ai palestinesi. L’input è libanese: “In un
telegramma arrivato da Beirut era scritto che, secondo l'accordo, il
missile non era destinato ad un attentato in Italia, e a me fu chiesto
di restituirlo e liberare gli arrestati”. Su quella pagina buia e
mai veramente approfondita era tornato proprio negli scorsi giorni uno
dei commentatori del notiziario quotidiano dell'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane che scrive coperto dallo psudonimo "Il Tizio della
sera". Il suo pensiero, espresso in terza persona, ci fa ulteriormente
riflettere su come il caso Moro sia un capitolo di storia italiana
ancora poco conosciuto: “Scopre due anni dopo un’intervista di Cossiga
al quotidiano israeliano Yediot Aharonot che esisteva un cosiddetto
accordo Moro, dal nome e dalla volontà dello statista ucciso dalle
Brigate Rosse, e che secondo tale accordo stipulato negli anni Settanta
l’Italia non si sarebbe intromessa negli affari dei palestinesi, come
far viaggiare armi di provenienza sovietica sul territorio nazionale, e
che in cambio i palestinesi non avrebbero colpito obiettivi italiani; e
con la bocca spalancata dallo stupore come un immenso hangar, scopre
che gli ebrei italiani, anzi che gli italiani ebrei, risultavano
esclusi dall’equazione e che in modo implicito essi avrebbero potuto
essere uccisi, come poi in effetti avvenne. Smette di leggere
l’intervista perché è finita e scopre di avere finito anche lo stupore
e che forse non ne avrà mai più”.
Valerio Mieli - Adam Smulevich
Qui Livorno - Yair Didi, un rav
di 33 anni per costruire il futuro
Yair
Didi è un rabbino giovane, cordiale e sorridente. Ha 33 anni e viene da
Beer Sheva, la capitale del Negev. Sulla scrivania del suo ufficio un
libro scritto da un rav suo amico e compagno di studi che rivela i
collegamenti mai troppo approfonditi tra ebraismo e progresso
scientifico, su un tavolino accanto alla scrivania un Sefer Torah che
si occupa di restaurare nelle pause tra i tanti impegni comunitari. Nel
2005, ad appena 28 anni (un record per l’ebraismo italiano e pare anche
per quello europeo), Didi è nominato rabbino capo di Livorno,
succedendo a uno dei rabbanim più amati dalle ultime generazioni di
livornesi: rav Jehuda Kalon z.l. Curriculum di studi in alcune delle
yeshivot più importanti di Israele tra cui la celebre yeshivat Kisseh
Rahamim, si dice che a favore della sua nomina livornese si sia
espresso (“almeno mi è stato detto così”) anche rav Shlomo Amar,
massima guida spirituale sefardita di Eretz Israel. Rav Didi, che è
sposato con una connazionale e ha tre figli, prima di trasferirsi in
Italia abitava in un appartamento della Città vecchia di Gerusalemme
situato a due passi da alcuni tra i luoghi più simbolici di
Yerushalaim.
Il rav li elenca con piacere: “Avevo il muro in comune con la sala in
cui si dice che si sia svolta l’Ultima cena, al piano di sopra si
trovava la stanza in cui visse il primo presidente dello Stato di
Israele Chaim Weizmann e pochi metri più in basso c’era la tomba di re
David”. Passare dalla magia e spiritualità di Gerusalemme a una città
fino a quel momento sconosciuta (unico contatto con il Belpaese è uno
zio per trent’anni shochet a Roma) non è stato troppo difficile, spiega
il giovane rabbino.
“Livorno e la sua atmosfera calda e vivace mi sono piaciute al primo
impatto”. Il merito è anche degli iscritti alla Comunità, “persone
aperte e molto divertenti che hanno reso il mio ambientamento
abbastanza facile”. Didi, diploma di shochet e di dayan in bella vista
sul muro, non si lamenta della situazione attuale dell’ebraismo
livornese: “Per fortuna abbiamo quasi tutto, con alimentazione kasher
disponibile in vari punti della città e minian in sinagoga al lunedì e
al giovedì. Non penso che molte Comunità se lo possano permettere”. Il
rav vanta ottimi rapporti con il presidente Zarrough e con i ragazzi.
Oltre a partecipare al progetto Moadon Gheulà e alle attività del
Talmud Torah di cui ha la supervisione generale, ogni domenica tiene
lezioni per un pubblico eterogeneo spesso composto da tanti non
iscritti. Anche la famiglia è ben inserita nelle attività comunitarie:
la moglie lavora come assistente sociale a un progetto per gli anziani
patrocinato dall’UCEI e insieme al rav organizza frequenti viaggi in
Israele. Viaggi all’insegna del dialogo, sottolinea rav Didi: le
iscrizioni sono aperte sia a ebrei che a non ebrei.
Pagine
Ebraiche, agosto 2010
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I conti con la Storia
Il
giurista Antoine Garapon, nel suo libro Chiudere i conti con la storia.
Colonizzazione, schiavitù, Shoah (Raffaello Cortina, 2009), e la
storica Annette Wieviorka, in diversi contributi, fra cui, da ultima,
un’intervista su Pagine Ebraiche dello scorso giugno 2009, hanno
entrambi richiamato l’attenzione, con diverse argomentazioni, su una
circostanza, a nostro avviso, di fondamentale importanza, ossia il
fatto che la speranza della costruzione di una “memoria universale”,
condivisa da tutti, fondata su valori ritenuti comuni, ha due precise
date, di inizio e di fine, che sono il 1989 e il 2001.
Fino alla caduta del Muro di Berlino, infatti, ogni interpretazione
della storia di tipo etico pareva destinata a confliggere, o a
contrapporsi, con una valutazione ‘altra’ e ‘diversa’, separata dalla
differente collocazione del soggetto pensante in uno dei due grandi
campi ideologici (‘borghese’ e ‘socialista’, Occidente e Oriente ecc.)
in cui l’umanità pareva irreversibilmente divisa.
L’inatteso crollo del comunismo, il “dio che ha fallito”, è sembrato
sgombrare il terreno da tale artificiosa barriera, creando le premesse
per un superamento delle visioni contrapposte della storia (Francis
Fukuyama, in un famoso saggio, arrivò anzi a parlare di “fine della
storia”) e spianando la strada, oltre che per la costruzione di un
“futuro comune” dell’umanità, anche per l’elaborazione di un “passato
comune”, all’insegna di un’idea condivisa del bene e del male.
Ma, come la storia non potrà mai finire, l’umanità non sarà mai
disponibile a un’etica condivisa, non vorrà mai un futuro, e un passato
comuni. L’undici settembre, da questo punto di vista, ha rappresentato
un brusco risveglio, la “fine della fine della storia”.
Non è un caso se proprio nel breve periodo dell’illusione di un’etica
“per tutta l’umanità”, tra il 1989 e il 2001, le commemorazioni e la
didattica sulla Shoah hanno subito un grandissimo incremento, in tutto
il mondo: cosa, infatti, sembrava prestarsi ad assolvere, con
altrettanta forza e chiarezza, una emblematica funzione di esempio
universale, per indicare all’umanità ciò che essa deve assolutamente
combattere, se veramente aspira a essere, un giorno, unita?
Ma, meglio rassegnarsi, tale aspirazione non c’è, non c’era e non ci
sarà. L’umanità ha tornato a mostrarsi, dopo l’undici settembre, come
in realtà è sempre stata, e come vuole evidentemente restare: divisa. E
il ricordo della Shoah ha ripreso a svolgere il suo ruolo di “simbolo
per eccellenza”, ma in modo, appunto divisivo: custodito, da alcuni,
come una sacra reliquia; da altri, negato, vilipeso o applaudito.
Francesco
Lucrezi, storico
Ground Zero
E'
sempre difficile confrontarsi tra due verità e/o ragioni. Tobia Zevi, nell'affermare che è un
diritto per i musulmani americani avere quante moschee vogliono, e un
dovere per Obama in quanto presidente di tutti gli americani soddisfare
tali desideri, minimizza il punto essenziale di questa polemica.
Premesso che trovo sterile e inutile voler polemizzare in questo
contesto sugli "scantinati sporchi" in cui pregherebbero i musulmani
italiani, faccio notare a Tobia, che nesuno, negli Stati Uniti, mette
in discussione se è giusto o meno creare una moschea per permettere ai
musulmani di pregare al suo interno, ma soltanto se è giusto e
opportuno creare questa moschea a 200 metri dal luogo ove terroristi
musulmani (permettetemi di ricordarvi un detto: se è vero che non tutti
i musulmani sono kamikaze è pur vero che tutti i kamikaze sono
musulmani) hanno fatto la più grande strage di civili nella storia
degli Stati Uniti. Per quanto mi riguarda, ritengo che l'ubicazione
scelta per la creazione di questa moschea sia una provocazione.
Settimio Di
Porto
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La
situazione sempre più tragica dell’Iraq, dove prosegue il ritiro
americano (oggi ci sono solo 60 mila soldati americani, destinati a
scendere a 50 mila entro la fine del mese) è al centro dei commenti di
tutti i quotidiani. Dopo un 2009 durante il quale sembrava che la
situazione stesse migliorando, il 2010 ci riporta ai periodi più neri
di un Paese che non troverà pace fino all’apparire sulla scena politica
di un nuovo uomo forte. Da chi questi sarà appoggiato è troppo presto
per affermarlo. Oggi, situazione paradossale, come ci fa osservare il Foglio,
gli USA sono di fatto alleati con al Qaeda: entrambi hanno interesse a
non disturbare il ritiro americano. Intanto gli stragisti colpiscono la
popolazione: 500 morti solo in luglio, già oltre 200 in questo inizio
di agosto. I due cugini Zebari, di etnia curda, uno ministro degli
Esteri, l’altro generale di Stato maggiore, riprendono le richieste già
fatte da tanti iracheni (ricordiamo, tra questi, anche il prigioniero,
ex ministro di Saddam, Aziz) che Obama riconsideri la sua decisione di
ritiro in una situazione nella quale l’esercito iracheno non è affatto
pronto a difendere il paese dalle potenze straniere. Chi sembra
trarre i maggiori vantaggi da questa situazione è l’Iran, unica vera
potenza regionale. Perfino gli USA, oggi, non fanno più paura a nessuno
e quindi non contano più nulla. Come osservano due diversi articoli di
Avvenire (Camille Eid ed Elena Molinari),
è interessante osservare che in Iraq gli interessi dell’Iran sembrano
divergere da quelli dei suoi due importanti alleati, la Turchia e la
Siria. Altro attentato, ma ben diverso, viene segnalato in Iran dove,
secondo il sito israeliano Debka, sarebbe stato ucciso, nei giorni
scorsi, Reza Buruni, il padre dei droni iraniani e personaggio chiave
nell’apparato bellico del paese. Sembra davvero troppo presto per
sapere chi possa aver organizzato questo attentato, anche se alcune
testate, come il Sole 24 Ore,
non esitano ad accusare gli USA che, coi loro satelliti, potevano
tenere sotto costante controllo la ben custodita casa della vittima (e,
ovviamente, si fa osservare che anche Israele dispone di satelliti
utili allo scopo, e quindi va sospettato). Sul Corriere
Battistini riporta l’annunciata vendita voluta dal braccio finanziario
dell’università di Harvard di azioni, tutte israeliane, per 40 milioni
di dollari. Boicottaggio? Forse sì, anche se ad Harvard, pure ben nota
per le sue posizioni, lo si nega. Intanto i promotori palestinesi del
boicottaggio esultano per aver ottenuto un nuovo successo, dopo aver
portato dalla loro parte già tante istituzioni universitarie, tra le
quali quelle di Roma, Bologna e Pisa. Opposta, ma non dissimile, la
situazione dell’Università Ben Gurion di Beersheba dove troppi
professori di estrema sinistra, anti-sionisti, rischiano di far perdere
per le loro affermazioni i contributi vitali per il loro istituto.
Michele Giorgio, sul Manifesto,
accompagna a queste notizie sui boicottaggi universitari anche
quella dell’approvazione di una legge alla Knesset che impone alle ONG
israeliane di rendere pubblici i finanziamenti ricevuti da governi e
associazioni estere. Un palestinese ha tentato nuovamente di ottenere
l’asilo politico da uno stato estero: dopo aver tentato in passato con
la Gran Bretagna, questa volta è penetrato nell’ambasciata turca di Tel
Aviv al cui interno è avvenuta anche una sparatoria: in un primo tempo
agli israeliani è stato proibito qualsiasi intervento, salvo poi
permettere l’accesso a personale paramedico israeliano per curare il
palestinese rimasto ferito. Ancora presente, in molti quotidiani, la
discussione sul Cordoba center che dovrebbe sorgere in prossimità di
Ground Zero a New York: Alessadra Farkas sul Corriere
osserva come, dopo un parziale passo indietro fatto da Obama, sempre
più preoccupato per i sondaggi, molti democratici si dimostrano
contrari al progetto, mentre alcuni repubblicani sono favorevoli. Sull’Herald Tribune
viene poi illustrata e difesa la posizione di Feisal Abdul Rauf,
sufista americano fautore di una “politica di amore più che di
giudizio”. Il sufismo rappresenta, per la testata americana, a
differenza del wahabismo, il nuovo testamento dell’Islam, e infatti
sarebbe spesso colpito da attentati in MO. Non conosco a fondo questa
realtà del mondo islamico e non escludo che il sufismo possa anche
annoverare, al suo interno, potenziali alleati dell’Occidente, ma
nell’articolo non vi è alcuna traccia delle considerazioni di
opportunità sollevate dalla costruzione di questo centro islamico
proprio in quel luogo, e neppure si dimostra che, una volta costruito,
tale centro possa essere gestito da uomini di pace e non da pericolosi
estremisti. La Stampa
riporta in prima pagina un servizio sulla choccante politica adottata
dal governo francese: l’espulsione dei Rom. Ma i problemi della
sicurezza non si risolvono con la chiusura di alcuni campi nomadi. Bene
fa Domenico Quirico a riportare le dichiarazioni di alcune personalità
francesi che si oppongono al provvedimento: “la vicenda sta prendendo
una piega ignobile;- sono metodi che ricordano le retate della
guerra”. Le dichiarazioni tranquillizzanti di alcuni ministri sembrano
non considerare neppure che con le vigenti leggi europee (i Rom espulsi
sono trasferiti in altri paesi europei come la Romania e la Bulgaria)
gli espulsi rientreranno con estrema facilità sul suolo francese (o
magari anche in altri paesi come l’Italia). Cinquantuno sarebbero i
campi nomadi già chiusi, su un totale che si presume sarà di 600, e già
700 i nomadi espulsi (in aereo di linea! si affrettano a dichiarare le
autorità, per sottolineare le differenze dai trasferimenti di tragica
memoria). Sembra al sottoscritto che il problema simile affrontato da
Israele, quello posto dai locali beduini, sia attualmente sotto
controllo grazie a ben diversi metodi. Da ricordare ancora, tra gli
articoli di oggi, l’intervista di De Giovannangeli su l’Unità
a Lucio Caracciolo, direttore di Limes, che illustra la totale mancanza
di autorità dell’America di oggi a causa della politica di Obama;
Caracciolo e De Giovannangeli non perdono l’occasione per dire che
Netanyahu, pur non essendo amico di Obama, è visto dagli arabi come
americano per la sua vicinanza ai repubblicani (ma da questi arabi non
è visto piuttosto come nemico israeliano, ndr?), e che il probabile
attacco israeliano alle centrali nucleari iraniane non risolverà il
problema di Israele, ma anzi ne creerà di nuovi (e come al solito non
si prende in nessuna considerazione la sicurezza degli israeliani,
ndr). Infine, in piena atmosfera da ferragosto, Tramballi, sul Sole 24 Ore,
parla del Libano che, nonostante le vicende politiche, continua ad
arricchirsi; le spiagge si riempiono di ricchi signori che si godono le
vacanze da nababbi in una Beirut che le nuove costruzioni stanno
deturpando, mentre tutti cercano di prevedere quando e chi scatenerà la
prossima guerra. Dopo ogni guerra poi si deve ricostruire ed i pochi
ricchi (davvero pochi?) ne traggono ulteriore vantaggio; intanto
Hezbollah, sempre più forte, rompe i vecchi equilibri che vorrebbero
che nessuno possa mai essere troppo più potente degli altri signori. Emanuel Segre Amar
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notizieflash
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Europei basket - Italia vince
a Tel Aviv e riapre il girone
Il risultato che non ti aspetti,
l’orgoglio di un gruppo che memore dei fasti di un tempo non si
rassegna a recitare il ruolo di brutta e malinconica cenerentola. La
vittoria della nazionale italiana in Israele (76 a 81), nel quinto
incontro di qualificazione agli Europei di basket del 2011, arriva
inattesa e rimescola le carte in gioco: mentre Montenegro vince in
Lettonia e prende il largo, la lotta per il secondo posto, che potrebbe
essere sufficiente per l’accesso diretto alla massima rassegna
continentale, si riapre. Il colpo esterno degli uomini di Pianigiani,
guidati da uno spettacolare Andrea Bargnani (26 punti), gela pubblico e
lunghi israeliani, troppo spreconi di fronte a un avversario sì
decadente ma pur sempre nobile. A niente sono serviti i canestri di
Casspi e Eliyahu: gli 11mila della Nokia Arena di Tel Aviv hanno
lasciato lo stadio a testa bassa riponendo forse definitivamente nel
cassetto i sogni di leadership. Azzurri più concentrati e quasi sempre
davanti (fino a più 15), anche se nel finale i beniamini di casa hanno
sfiorato una rimonta ormai insperata portandosi a meno tre e
riscaldando la già incandescente atmosfera sugli spalti. Già, perché
ieri sera il vero spettacolo di Israele è stato la sua tifoseria:
biglietti sold out da alcuni giorni e torcida come sempre caldissima,
più modesto invece lo show degli atleti sul parquet. Adesso per Israele
il calendario prevede un turno di stop (in attesa del return match con
la Finlandia di lunedì 23 agosto), mentre venerdì sera l’Italia si
prepara ad ospitare la Lettonia nel primo spareggio qualificazione.
ISRAELE
– ITALIA 76-81 (17-22, 39-48, 60-69)
ISRAELE:
Bluthenthal 7, Casspi 20, Burstein 10, Eliyahy 19, Halperin 15, Limonad
3, Green 2
ITALIA:
Mancinelli 9, Bargnani 26, Gigli 6, Belinelli 14, Maestranzi 11,
Giachetti 5, Mordente 6, Crosariol 4
CLASSIFICA: Montenegro 8, Israele 6, Lettonia E Italia 4, Finlandia 2
*Finlandia
una partita in meno
Iran - Generale avverte: “Siamo pronti a un attacco americano”
Teheran, 18 ago -
“Siamo pronti per un eventuale attacco militare degli Usa che vuole
fermare il nostro programma nucleare”, così il generale Ali
Shadmani, responsabile del dipartimento per le operazioni del quartier
generale della forze armate, citato oggi dal quotidiano Shargh avverte
i Paesi che vogliono ostacolare i piani iraniani. "Se decidete di
attaccarci, vi metteremo in ginocchio in tre mosse", ha affermato. "La
prima - ha proseguito - sarà di chiudere lo Stretto di Hormuz, la
seconda di prendere in ostaggio le forze americane in Afghanistan e
Iraq, la terza di non lasciare pace a Israele, che è il cortile degli
Stati Uniti. E questo lo abbiamo già provato agli Americani". Gli Usa e
Israele non hanno escluso il ricorso a un attacco contro le
installazioni nucleari in Iran, ma le autorità di Teheran continuano a
ripetere che non credono a una tale evenienza.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili.
Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per
concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross.
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