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14
settembre
2010 - 6 Tishrì 5771 |
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Roberto
Della Rocca,
rabbino
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Il
Talmud dedica un intero trattato al giorno di Kippur che,
paradossalmente, non è chiamato “Yom Kippur” ma “Yomà”, “il Giorno”. Il
Giorno per antonomasia, quasi come l’unica possibilità di passare 25
ore come un giorno. E’ indubbio che il Giorno del Kippur costituisce
quella dimensione più sentita dalla maggior parte degli ebrei e non
sempre comprendiamo il senso di questo strano e profondo sentimento.
Viene istintivo leggere questo fenomeno come una sorta di scorciatoia
che molti ebrei intravedono nella celebrazione del Kippur che in
un’unica volta l’anno ci vede assolvere ai nostri doveri di ebrei.
Quell’ “una tantum” fuori dall’ordinario che vorrebbe pareggiare il
conto di un debito di impegno ebraico troppo misero nella vita di tutti
i giorni. C’è chi privilegia l’aspetto materiale, direi folkloristico
del Kippur, digiunano pensando al cibo che li attende la sera, ma pur
sempre digiunano! C’è poi chi intravede nell’osservanza del Kippur una
dimensione sociale, comunitaria, anche nel profondo: giorno di presa di
coscienza, di confessione collettiva, di riconciliazione. Sono invece
ottimisticamente convinto che nel vivere questo Giorno straordinario,
gli ebrei siano molto più intrisi di Torah di quanto spesso vogliano
ammettere. C’è una frase dello Zohar, il testo base della Kabbalà, che
è sconvolgente per chi l’accetta nel suo pieno significato direi
esistenziale: “Israel vehoraiità had hu”, “il popolo di Israele e la
Torah sono la stessa identica cosa!”. Il Giorno di Kippur è intimamente
legato ai Dieci Comandamenti, alle Tavole del Patto. Il popolo di
Israele ha infatti ricevuto le Tavole, quelle che poi ha conservato
intatte, proprio il 10 di Tishrì, il Giorno di Kippur. Il Giorno del
nostro digiuno è dunque il Giorno in cui riceviamo le Tavole che poi
porteremo sempre con noi nell’Arca accanto ai pezzi rotti delle prime
Tavole infrante.
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Maurizio
Molinari,
giornalista
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Nelle sinagoghe di Manhattan
questo è stato un Rosh ha Shanà che ha visto i rabbini parlare al
pubblico sulla necessità di essere "attivi" e "impegnati" non solo
nello studio della Torah ma anche nella vita pubblica. C'è stato però
anche chi ha voluto sollevare la questione dei "Kiddush Club" ovvero
l'usanza, sempre più diffusa, che vede gruppi di persone uscire sabato
dalla sala del Tempio durante le preghiere del mattino, fra Shachrit e
Musaf, per andare nei corridoi delle sinagoghe a bere modiche quantità
di vodka e wishky. E' un'usanza che nasce da alcuni gruppi di
chassidim, che bevono vodka e mangiano aringhe, ma a Manhattan il
"Kiddush Club" sta diventando una eccessiva distrazione per i
frequentatori delle tefillot. E dunque il discorso di Rosh ha Shanà è
servito per metterlo al bando.
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Jean Samuel (1922-2010)
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Era di tre anni più giovane
di Primo Levi (era nato nel 1922 a Wasselonne in Belgio) ed era stato
arrestato, come Levi, all’inizio del 1944 a Dausse dans le
Lot-et-Garonne, poi deportato ad Auschwitz-Monowitz, ma a differenza di
Levi visse anche la terribile esperienza delle “marce della morte”.
Ora che Jean Samuel ci ha lasciati, ricordo la sua figura mite e
signorile; uno stile di vita gemellare a quello dello scrittore
torinese. Ricordo la sua partecipazione ai convegni dell’ANED degli
anni Ottanta e soprattutto la sua commossa testimonianza al convegno
torinese del 1988, un anno dopo la morte di Levi. Invitato da Bruno
Vasari, di cui era amico, in quella circostanza Samuel a Torino rimase
poche ore. Era come se non riuscisse a resistere all’idea di una Torino
senza Levi; nella sala del Consiglio regionale lesse una breve, ma
intensa testimonianza, che penso debba essere considerata la scintilla
da cui verrà fuori, molti anni dopo, il libro-intervista Il m’appelait
Pikolo. Un compagnon de Primo Levi raconte (Laffont, 2007; tr. ital.
Frassinelli, 2008).
Per via della comune amicizia con Maurice Goldstein, presidente della
Fondation Auschwitz di Bruxelles, a quel tempo i legami fra Torino e
Bruxelles, e specialmente fra Vasari e Samuel, erano piuttosto stretti,
come non potevano non essere fra due “personaggi” di Levi. Samuel era
Pikolo, Vasari più sinteticamente B.V, il destinatario della famosa
poesia Il superstite.
A Samuel è toccata in sorte una parte più impegnativa, molto
impegnativa, forse troppo: quella del personaggio chiamato a diventare
il simbolo della letteratura e delle sue potenzialità nella estrema
condizione del Lager. Con il trascorrere degli anni, e il crescere
della fortuna di Levi, forse a sua insaputa, Samuel accettato questa
parte fino a esserne sopraffatto: egli rappresentava la forza che la
memoria letteraria, la poesia sa conservare nelle avversità. Per il
pubblico italiano, ma non soltanto per questo, egli ha rappresentato la
potenza dell’umanesimo classico, del Dante umanista.
Un ruolo simbolico, certo molto importante nell’interpretazione di uno
scrittore come Levi, le cui inclinazioni letterarie a lungo sono state
schiacciate dall’immagine dello scrittore-chimico, dello
scienziato-scrittore. L’episodio di Pikolo e del canto di Ulisse
chiamava in causa il tema, centrale in Se questo è un uomo, delle fonti
letterarie.
Jean Samuel era invece, innanzitutto, un uomo, non un simbolo. E, come
altri personaggi-uomo di Levi (per esempio Henri o Cesare) non subito
riuscì a riconoscersi nella pagina del libro.
Il suo essere così presente “dentro” l’opera di Levi non può esonerarci
oggi dal ricordarlo come uomo e in particolar modo come amico di Levi.
E per farlo è necessario spostare la nostra attenzione ad un altro
periodo della biografia leviana altrettanto importante e cioè il
periodo del ritorno, del primo tentativo, difficile per entrambi, di
ricostruirsi una vita normale.
I brani della corrispondenza privata che Samuel pubblica nel suo libro
sono belli almeno quanto il capitolo di Ulisse e rappresentano senza
ombra di dubbio il carteggio di Levi più notevole fra quelli che oggi
si conoscono.
La prima lettera di Levi è del 23 marzo 1946 e risponde a una missiva
nella quale Jean aveva scritto: “Il a fallu un hasard extraordinaire.
Tout semblait nous empêcher de nous retrouver”. Queste lettere
bellissime, come quelle che si scambiarono levi e Leonardo De
Benedetti, in quelle stesse settimane e mesi, lasciano intravedere
l’importanza di un tema relativo alla esperienza concentrazionaria che
spesso tendiamo a sottovalutare.
In quei primi mesi, in quelle prime settimane, il primo cercarsi e
l’affannoso ritrovarsi dei compagni superstiti anima un dialogo
epistolare europeo che richiederebbe uno studio specifico. Erano i
giorni del silenzio, della testimonianza non accolta nemmeno nel grembo
famigliare. I prigionieri si cercavano e occorreva un “hasard
estraordinaire” per riuscire a farcela e potersi riabbracciare come
accadde a Primo e a Pikolo. E’ la preistoria della storia della
deportazione.
Prima che essere affidata a un libro la memoria della propria
drammatica esperienza era affidata a lettere, a lunghe lettere private
che precedono il racconto scritto e in qualche modo lo rendono
possibile.
In questo antefatto, a parlare e a raccontare i guai passati sono due
Ulisse ritornati alla loro Itaca dopo aver temuto il naufragio. I
salvati si rincorrono, si mandano lettere, si cercano e chiedono a loro
volta notizie di altri sopravvissuti. Questo dialogo straordinario, che
meriterebbe una ricerca sistematica, ha un momento altissimo nella
corrispondenza fra Levi e Samuel, nel periodo compreso fra liberazione
dei campi e prima edizione di Se questo è un uomo.
In nessun altro luogo troviamo risposte adeguate al problema del
ritorno dai lager, alla speranza solare della vita che rinasceva dopo
l’abominio. Sono settimane e giorni di intensi racconti, ma anche di
spensieratezza, di incontri reali non sempre andati a buon fine, di un
riabbracciarsi nella libertà e, soprattutto, la felicità consiste nel
ritrovare l’amore per la vita. Nell’estate 1947, poche settimane dopo
che Levi aveva inviato in pre-lettura il capitolo su Pikolo, i due
amici meditano di incontrarsi sulla Costa Azzurra (“eravamo giovani fra
giovani”). Samuel vedeva a Nizza per la prima volta in vita sua il mar
Mediterraneo di Ulisse. Levi medita di raggiungerlo su una Lambretta
che aveva appena acquistato, ma alla frontiera di Mentone lo bloccano
perché non ha il passaporto, che non ha nemmeno Jean. I doganieri,
senza sapere quale era la loro storia, acconsentono ad un breve
incontro negli uffici. Primo porta in dono della frutta e della
cioccolata. Ora che Jean Samuel ci ha lasciato ci piace ricordare così
il loro incontro e la loro lunga amicizia.
Alberto
Cavaglion
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Calcio - Esordio
portoghese per l’Hapoel Tel Aviv
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Inizia in Portogallo
l’avventura europea dell’Hapoel Tel Aviv, che stasera fa il suo esordio
assoluto in Champions League sul campo del Benfica. È il secondo anno
consecutivo che un club israeliano gioca in Champions, dopo
l’esperienza non certo trionfale del Maccabi Haifa nella passata
stagione. Il girone dell’Hapoel è tosto, le scuole calcistiche da
affrontare sono tra le più ricche di talento al mondo (Francia,
Germania e Portogallo), ma nel gruppo non c’è nessun superteam, nessuna
big che possa essere considerata imbattibile in partenza. Lione e
Schalke 04 sono due squadre importanti ma pensare di ottenere qualche
punto qua e là, soprattutto davanti al pubblico amico, non è follia. Il
precedente positivo della scorsa Europa League, in cui l’Hapoel ha ben
figurato mettendo ko compagini di valore come Amburgo e Celtic, lascia
aperto il rubinetto dei sogni. Si parte sulle note malinconiche del
fado, con la speranza di tramutare l’inquietudine in gioia. Occhio al
reparto offensivo dei lusitani con i due ex ragazzi terribili della
seleccion argentina, Aimar e Saviola, che là davanti promettono
scintille. E attenzione alle zampate di Nuno Gomes, bomber a fine
carriera che nelle movenze (e nei tuffi) ricorda Pippo Inzaghi.
Dall’altra parte fare accesi sul gioiellino Ben Sahar, grande speranza
del calcio israeliano, e sulle intuizioni di Vermouth. I bookmaker
puntano sulla vittoria dei portoghesi (bancata a 1,40) mentre pareggio
(4,25) e colpo esterno dell’Hapoel (8,00) sembrano eventualità più
remote. Ma come dice il più trito e ritrito luogo comune pedatorio, la
palla è rotonda, e quindi le sorprese sono sempre dietro l’angolo. E
allora perché non credere all’impresa? Per la cronaca, chi scrive ha
appena investito sul pareggio il resto della sua colazione al bar,
vincolando al risultato della partita la prossima pizza con gli amici.
Adam Smulevich
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Il nostro lavoro
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Quest’anno
ci rifacciamo. Dopo l’inatteso successo della prima edizione del
“Master Hans Jonas”, la nostra associazione si ripresenta ai giovani
ebrei italiani con una nuova edizione arricchita e parzialmente
modificata. Il corso si pone come obiettivo la costruzione di una
riflessione condivisa - elaborata da coloro che saranno i dirigenti
dell’ebraismo italiano negli anni a venire - sulle prospettive per gli
ebrei nel XXI secolo, alle prese con una società plurale in
trasformazione e con la volontà di preservare la propria specifica
tradizione. Nel contempo l’associazione di cultura ebraica Hans
Jonas sta conducendo una ricerca sociale tra la nuova generazione di
ebrei italiani che vuole essere un contributo a definirne l’identità.
Dopo una prima sessione più pragmatica, volta a sviluppare l’attitudine
alla comunicazione, alla leadership e al lavoro in gruppo, il corso si
concentrerà sull’evoluzione storica della presenza ebraica in Italia
(seconda sessione) e su quali saranno i luoghi futuri dell’ebraismo.
Parteciperanno come docenti, tra gli altri, gli storici David Bidussa e
Mario Toscano, i sociologi Pietro Gargiulo e Simona Marchi oltre al rav
Roberto Della Rocca. Tra le novità di quest’anno una sezione specifica
del corso che vedrà l’incontro tra gli studenti e alcuni scrittori, per
ragionare assieme su cosa significhi oggi “cultura ebraica” nel
contesto italiano, in Israele e nel mondo: Anna Momigliano, Shulim
Vogelmann e Alessandro Piperno contribuiranno in questo senso a partire
dalle loro esperienze editoriali. In un anno importante per
l’ebraismo italiano, che tra poche settimane si riunirà in un congresso
decisivo per gli assetti futuri delle nostre comunità, siamo orgogliosi
- i lettori ci scuseranno se parliamo del nostro lavoro - di presentare
un progetto che ha l’ambizione di guardare avanti nel tempo, poiché
siamo consapevoli che una classe dirigente che sappia raccogliere le
sfide che ci stanno di fronte ha bisogno di discutere, di scontrarsi,
di riflettere, di conoscere, di essere autonoma. Da fare c’è un lavoro
lungo e faticoso, ma esaltante.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
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Cuba:
Castro all'Iran:
“Non negate la Shoah”
Buenos
Aires, 13 settembre |
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Fidel Castro ha invitato il presidente iraniano
Mahmoud Ahmadinejad a smetterla di negare la Shoah e di diffamare gli
ebrei. Il Centro Simon Wiesenthal dell'America Latina, per questo
gesto, ha voluto ringraziare il leader cubano inviandogli una lettera.
Lo stesso Centro ha poi sollecitato l'intervento di Castro sul
presidente venezuelano Hugo Chavez, perché faccia anche lui pressione
nei confronti del presidente iraniano affinché ponga fine alla campagna
di Teheran contro Israele e alla negazione della
Shoah.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it
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