Ecco il testo del discorso
dedicato, nel Tempio maggiore di Roma, all'ora di Ne'ilà di questo
Kippur 5771 dal rabbino capo della Capitale rav Riccardo Di
Segni.
Tra
due giorni, il 20 settembre, la nostra Comunità parteciperà alle
celebrazioni ufficiali in Campidoglio per il 140esimo anniversario di
Porta Pia e i 150 anni dell'Unità d'Italia. In una sede molto
autorevole ci è stato chiesto se e con quale spirito avremmo
partecipato. Per spiegare che questa è proprio una nostra festa, ho
ricordato la storia del primo colpo di cannone che aprì la breccia di
Porta Pia, sparato da una batteria agli ordini di un ufficiale ebreo,
l'unico a non doversi preoccupare della minaccia di scomunica papale
per chi per primo avesse aperto il fuoco contro le mura di Roma. Alcuni
discendenti di quell'ufficiale sono membri della nostra Comunità.
Perché ricordare questa storia proprio ora e qui, in uno dei momenti
più sacri della vita religiosa ebraica? Perché la tanto desiderata
conquista della libertà per i nostri antenati di questa città, fine
della barbarie dell'ultimo ghetto dell'Europa Occidentale, fu anche
l'inizio di una nuova forma di vita ebraica e di una rivoluzione di
abitudini e di modi di pensare. Dopo 140 anni, due cicli
completi di 70 anni, non si riflette spesso su quanto le scelte di una
gran parte della Comunità di allora abbiano segnato fino ad oggi i
nostri modi di vivere l'ebraismo. Il mondo circostante offriva la
libertà e l'uguaglianza, anche se non proprio la fraternità, aprendo
opportunità che fino a poco prima erano state solo un sogno. Gli ebrei
di allora le sfruttarono appieno, ma a prezzo di un cambiamento
radicale del modo di vivere e sentire l'ebraismo. E' in quel momento
che divenne regola comune la distinzione tra l’essere ebrei dentro casa
e cittadini fuori dalla porta di casa, la divisione tra principi di
fede teorici da coltivare e riti religiosi da trascurare, l’inversione
della scala di importanza per cui qualsiasi tipo di studio civile
doveva essere prioritario e lo studio della Torà secondario o
marginale, la debole o mancata resistenza all'imposizione di
convenzioni e abitudini esterne in totale sfregio alla sacralità del
Sabato, di ogni altra festa e di ogni altra norma. Un processo che una
volta iniziato divenne progressivamente autodistruttivo, erodendo i
fondamenti del nostro sistema. Ciò che è successo a Roma in una data
ben precisa, si è verificato ovunque ogni volta in cui il mondo si è
aperto agli ebrei. E per chi si è mosso da un luogo all’altro qualche
volta sono bastati anche pochi mesi, per cambiare abitudini di secoli. Ci
è stato trasmesso un ebraismo mutilato, di compromesso, privato delle
sue ricchezze più preziose, e malgrado questo ci è stato presentato
come se fosse la condizione normale. Perché ricordare queste
cose nell'ora di Ne'ilà? Perché questo é il momento unico e raro in cui
le nostre Sinagoghe si riempiono come mai succede in tutto il resto
dell'anno e noi partecipiamo ad una straordinaria esperienza
collettiva. Il rumore di fondo della nostra folla, dovuto alle
chiacchiere che almeno per un'ora bisognerebbe sospendere, cessa
magicamente quando il Cohen dà la berakhà e il beth hakeneset si
trasforma in una distesa bianca di talledot che uniscono i nuclei
famigliari, o quando passano i Sefarim, o quando suona lo shofar. In
questi momenti l'ebraismo è vissuto non come un ragionamento che deve
convincere ma come una voce antica e potente che parla direttamente e
potentemente all'anima, la chiama verso ciò che è sacro. Ma
quanto dura questo ascolto? Quanto è efficace? Quanto incide nelle
nostre coscienze? E' in queste ultime ore che dovrebbe culminare il
nostro processo di teshuvà iniziato 40 giorni fa. Teshuvà, che
convenzionalmente si traduce “pentimento”, è letteralmente il “ritorno”
da una strada sbagliata. Ma nella lingua ebraica comune teshuvà
significa anche “risposta”. Se c'è una risposta ci deve essere una
domanda. Quale? Ne potremmo immaginare tante, da quelle generiche,
tipo: ti sei comportato bene? a quelle più radicali, tipo: sei sicuro
che il tuo modo di essere ebreo, come ti è stato trasmesso o come te lo
sei costruito, sia quello giusto e non debba essere messo in
discussione? Sei sicuro che la libertà e la pace che ti offre la
società circostante debba essere goduta cancellando per forza il
proprio ebraismo? Essere ebrei è sempre difficile, sia sotto le
dittature che umiliano corpo e spirito che nelle società libere che
attraggono e seducono. La libertà arrivò per gli ebrei in Egitto quando
la schiavitù li aveva abbrutiti al punto tale di farli scendere fino
all'ultimo di quelli che la tradizione chiama i 50 gradini
dell'impurità. Ma subito dopo l'Esodo e la liberazione ci fu bisogno
della Torà. Noi crediamo di poter fare a meno della Torà, o di poterla
usare come un catalogo o un menù dal quale scegliere l'articolo o la
portata che ci piace. Non deve essere così. Se è giusto usare uno
spirito critico, il primo oggetto della critica deve essere il nostro
modo di pensare e le nostre abitudini. Intorno a noi tra l'altro sta
succedendo qualcosa di speciale che ci riguarda e nemmeno ce ne
accorgiamo, mentre siamo attenti perlopiù a vigilare su ogni forma di
antisemitismo. Mentre molti ebrei scappano dall'ebraismo, l'ebraismo
esercita un’attrazione speciale e irresistibile al nostro esterno, che
rimane stupito dalla genialità del nostro pensiero, dalla ricchezza
della nostra cultura, dal fascino dei nostri riti. Guardate quanti
libri sull'ebraismo, che pochi di noi leggerebbero, sono stampati in
italiano e anche venduti; quante pagine dei quotidiani ogni giorno
parlano di noi e della nostra cultura. Siamo al centro di un'attenzione
positiva e non ce ne rendiamo conto. Possediamo dei tesori e non
sappiamo di averli o cosa farne. Ci resta magari un senso di difesa; ci
preoccupiamo molto dell'antisemitismo e questo è giusto. Ma attenzione
a non confondere due tipi di lotta all'antisemitismo. C'è chi lotta
contro l'antisemitismo perché non lascia agli ebrei la possibilità di
confondersi con gli altri. E c'è chi lotta contro l'antisemitismo
perché non lascia agli ebrei la possibilità di essere ebrei. E' di
questo secondo aspetto che dovremmo occuparci e preoccuparci. L'ora
di Ne'ilà, nella quale immaginiamo simbolicamente che si chiudano le
porte dei palazzi in cielo, e nella quale il Re firma per ognuno di noi
la sua sentenza, è l'ora in cui dovremmo fare anche noi i nostri conti
finali e non lasciare che l'emozione passi senza lasciare un segno, un
impegno, un ritorno, una risposta. Soprattutto un investimento sul
futuro. L’anno che è passato lascia il suo strascico penoso di
catastrofi naturali e disastri ambientali dovuti alla responsabilità
umana, insieme alle polemiche infinite e poco utili del nostro piccolo
mondo interno che imita la società generale, tutte cose che hanno messo
in evidenza la sostanziale debolezza umana; di tutto l’anno vorrei
ricordare un'unica immagine, dello scorso gennaio: quella dell'ospedale
da campo montato dai soldati israeliani a poche ore dal terremoto di
Haiti, dove sono state salvate migliaia di vittime, mentre la gente
locale applaudiva con gratitudine “viva Israele”. E’ il valore ebraico
della scienza unita alla solidarietà umana, che Maimonide avrebbe
chiamato con i nomi di maddà' e ahavà. Abbiamo delle enormi forze e
potenzialità, per correggere noi stessi e riparare il mondo, che
traggono la loro energia proprio da qua dentro, in questi luoghi
consacrati, nel legame con gli insegnamenti della nostra tradizione.
Adoperiamoci per trarre da questo forza e continua ispirazione. A tutti un caro augurio di chatimà tovà.
rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
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